Dalla Parola alla Vita
4ª domenica di Pasqua
Preghiera allo Spirito Santo di sant’Agostino   Vieni in me, Spirito Santo, Spirito di sapienza: donami lo sguardo e l’udito interiore, perché non mi attacchi alle cose materiali ma ricerchi sempre le realtà spirituali.   Vieni in me, Spirito Santo, Spirito dell’amore: riversa sempre più la carità nel mio cuore.       Vieni in me, Spirito Santo, Spirito di verità: concedimi di pervenire alla conoscenza della verità in tutta la sua pienezza. Vieni in me, Spirito Santo, acqua viva che zampilla per la vita eterna: fammi la grazia di giungere a contemplare il volto del Padre nella vita e nella gioia senza fine.   Amen.
Dagli Atti degli Apostoli
At 4,8–12
In quei giorni, 8Pietro, colmato di Spirito Santo, disse loro: «Capi del popolo e anziani, 9visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo, e cioè per mezzo di chi egli sia stato salvato, 10sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato. 11Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo. 12In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati».
Pietro e Giovanni hanno operato il miracolo raccontato al capitolo 3 di Atti ma non si attribuiscono il fatto, anzi, fanno di tutto perché la gente vada oltre questo gesto e veda invece l’azione di Dio lì significata. Si parla dunque del Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe ossia il Dio dei patriarchi: è lui che avrebbe glorificato il suo servo Gesù (At 3,12–13) e così facendo avrebbe reso il nome di Gesù fonte di salvezza per tutti coloro che lo invocano.   R Il nome di Dio nella Bibbia. La formula «Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe» ci interessa perché il libro degli Atti vuole qui riprendere la bella teologia dei nomi di Dio radicata soprattutto nel libro di Esodo. In ebraico questo libro si chiama in realtà «nomi» perché in esso compaiono in più capitoli i nomi di Dio. In Es 3 Dio si rivela dicendo che il suo nome è «Io sono colui che sono»; Es 6 presenterà il sacro tetragramma Yhwh e infine, dopo l’episodio peccaminoso del vitello d’oro, Dio si manifesterà come «il Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco d’amore e di fedeltà» (Es 34,6). Ma il primo nome usato da Dio era proprio il nome del Dio dei patriarchi: la formula è presente in Es 3 come a introdurre il nome misterioso di Es 3,14. Il tema del nome, nella Bibbia, è molto più denso di come può essere inteso oggi. Per noi moderni il nome è simile ad una etichetta, si applica a un singolo individuo e ognuno ha il suo identificativo. Nella Bibbia invece il nome è qualche cosa di più radicale, dice infatti l’essenza della persona. Nel caso di Dio, il suo nome è santo ed efficace: per questo il comandamento chiede di non pronunciare il nome di Dio invano!   R La salvezza nel nome di Gesù. Nel nostro brano di Atti vediamo che il nome di Gesù ha acquisito un valore, una forza, un potere, come quello di Dio. Nel suo nome abbiamo salvezza e solo in esso possiamo davvero trovarla! Già i profeti insegnano a confidare che per avere salvezza non occorrono armi, eserciti o altro: basta conoscere il nome del Signore. Confidare in Dio significa sapere che anche solo nominandolo Egli è in grado di salvarci. Perché la vicenda di Gesù, sintetizzata nel suo nome, avrebbe tutto questo valore? Perché in essa vediamo che Dio può ribaltare la storia umana: quello che noi disprezziamo, Dio può invece sceglierlo come pietra solida per costruire il suo Regno: ecco inserita qui la citazione del Sal 117! Se Dio può trasformare le sconfitte in vittorie, allora davvero è invincibile e la salvezza in Lui non può mancare. Nel Vangelo di Giovanni il tema del nome verrà usato da Gesù per dire la relazione perfetta con il Padre: il Figlio vorrebbe portare i suoi discepoli in questa comunione col Padre perché siano così custoditi dal Maligno (Gv 17,11–12). Gesù, lasciandosi inchiodare per l’umanità, ha insegnato a confidare semplicemente nel nome di Dio: anche sulla croce, sebbene nella disperazione e nel dubbio di essere stato abbandonato, ancora si rivolge al Padre usando un salmo e dicendo: «Dio mio, Dio mio» (Sal 22,2). Invocare il nome di Gesù significa allora entrare in una relazione con Dio come quella che il Figlio ha con il Padre: e possiamo confidare che da tale amore nessuno potrà mai strapparci!
Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo
1Gv 3,1–2
Carissimi, vedete 1quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. 2Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.
Il brano tratto dalla Prima lettera di Giovanni vuole farci riflettere sulla figliolanza divina. Per la prospettiva giovannea infatti siamo già ora figli di Dio. Questo è il risultato non delle nostre capacità ma del suo grande amore!   R Essere e rimanere figli di Dio. Dio davvero è un padre che ci ha già fatto suoi figli, al di là dei nostri meriti, perché ci ha amati da sempre, tanto da manifestare il suo amore per noi nel Figlio. In lui davvero abbiamo la dimostrazione della nostra figliolanza. Per questo possiamo parlarne come di qualcosa di certo, di già verificatosi. D’altra parte, dobbiamo essere preparati ad affrontare ancora con impegno questa vocazione, perché restano comunque delle zone d’ombra. Prima di tutto, c’è il rischio che questa teologia così bella venga fraintesa, come abbiamo visto domenica scorsa, da chi si credeva ormai senza peccato. Essere diventati figli di Dio non vuol dire dunque essere entrati in uno stadio magico, che ci ha purificati per sempre: si è puri se ci si mantiene nella speranza di diventare simili a lui, fatto che però si compirà pienamente alla sua manifestazione, come dice la conclusione della nostra lettura. Dunque, si è già figli ma si resta anche nella fase del non ancora, nella fase del rifiuto e della conoscenza non autentica del Figlio. Questa dimensione è ben rappresentata dal mondo che non ha conosciuto Gesù, non l’ha compreso come la manifestazione dell’amore di Dio. E proprio per questo non sa amare veramente. Ecco perché la conoscenza di Gesù non è un atteggiamento intellettuale ma lo si vede nella pratica: se uno sa amare, allora ha conosciuto il Figlio. Se non sa amare, allora non ha compreso chi sia Gesù.   R Anomia e legge dell’amore. La lettera mette in guardia persone come queste: come visto nella citazione precedente, commettere il peccato in verità vuol dire commettere l’iniquità stessa, l’a-nomia (a=senza + nomos=legge). Se leggiamo questa parola come l’andare contro la Legge, bisogna però intendere quest’ultima come la pensa l’autore della lettera, che vede nell’amore per gli altri il compimento di ogni comandamento. Commettere l’anomia è dunque il rifiuto dell’amore e chi commette peccato in verità ha deciso di negare l’amore stesso: ciò significa che ci si è esclusi dall’ambito di Dio, che è amore, e si è finiti per legarsi al suo Nemico. Nel linguaggio dualista della Prima lettera di Giovanni, allora, o si è figli di Dio o si è schiavi del diavolo (3,8). Non bisogna leggere questi testi come una condanna aprioristica: come visto in precedenza, le condizioni di figlio di Dio (e quindi di figlio del diavolo) sono ancora in fieri. L’obiettivo allora è quello di rafforzare la volontà di restare nell’amore, che è l’unica certezza in grado di dire che conosciamo davvero Gesù. L’autore non vuole condannare nessuno ma insegna a perseverare perché alla venuta del Signore non si scopra di non aver amato veramente.
X Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 10,11–18
In quel tempo, Gesù disse: 11«Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. 14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
R Il contesto di Gv 10. Il capitolo 10 di Giovanni è per qualcuno un po’ misterioso: in effetti si inserisce nel racconto evangelico quasi in maniera improvvisa e non è sempre chiaro il legame con il contesto precedente, ovvero con l’episodio del cieco nato. Inoltre anche la storia della nascita del testo è complessa: il genere letterario non è propriamente quello delle parabole (Gv 10,6 parla di paroimía, similitudine), i confronti sono molteplici, perché Gesù usa non una ma due immagini («Io sono la porta», «Io sono il buon pastore»), alcuni elementi restano non spiegati (come quello del guardiano che apre il recinto al pastore). L’esegesi di oggi però cerca non tanto di mostrare le stranezze del vangelo per spezzettarlo, ma cerca, al contrario, di trovare gli elementi che legano i vari brani per cercare una coerenza interna. È questo lo sforzo che occorre fare per comprendere il presente brano di vangelo. Il capitolo 10 è più unitario di quanto non possa sembrare di primo acchito. Infatti i primi due versetti presentano i due termini che Gesù usa subito dopo per spiegare la sua persona: si dice infatti che «chi non entra per la porta […] è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta è pastore delle pecore». Gv 10 quindi prima svilupperebbe l’immagine della porta e poi quella del pastore. Che le immagini siano due è, a nostro avviso, di fondamentale importanza e per questo motivo vogliamo riproporle anche in questo commento, anche se la liturgia domenicale presenta solo i versetti sul buon Pastore.   R Scegliere il Pastore. Se questa immagine ci riporta più facilmente all’ambito dell’ubbidienza, al seguire il pastore senza deviare per strada, l’indicazione della porta ci ricorda piuttosto i vangeli sinottici dove si parla della porta larga e della porta stretta. Certamente il discepolato è un ubbidiente atto di ascolto e di sequela del Signore, ma questo atteggiamento chiede la piena azione del credente che deve scegliere il suo pastore. L’immagine della porta dunque ci permette di riconoscere Gesù come una via di libertà di cui abbiamo bisogno, perché senza di lui cadiamo preda di altri tentatori che non ci portano alla vita, anzi la distruggono.   R Il pastore della libertà. Proprio questa frase permette di passare ad approfondire la seconda immagine utilizzata da Gesù, quella del buon Pastore. Scopriamo che questo personaggio ci porta alla vita piena perché insegna la piena libertà, che è quella di amare fino in fondo, fino a dare la propria vita. Questa è l’azione che permette di configurare il pastore come “bello” (questo sarebbe più precisamente l’aggettivo usato per qualificare il pastore). La sua bellezza è nell’essere la persona più libera del mondo, perché, proprio per la sua totale capacità di amare, sa dare tutto e, proprio per questo, ha anche il potere di ricevere di nuovo questa vita. Questa libertà è il massimo insegnamento che il Signore vuole darci, quello che compie sulla croce, dove insegna a passare per la porta stretta che è il sacrificio di sé perché è solo così che giungiamo all’amore autentico, libero, disinteressato. E l’amore salva secondo l’immagine del chicco di grano che, se rimane solo, marcisce, mentre se muore porta molto frutto. Bisogna imparare che per salvare la propria vita possiamo solo donarla. Scegliere Gesù come il buon Pastore vuol dire seguirlo sulla strada dell’amore, farci suoi discepoli, ossia persone capaci di dare tutto in piena libertà. Non diamo la vita perché qualcuno ce la toglie (come dice Gesù in 10,18) ma liberamente la doniamo. Gli altri sono come pecore, esseri fragili che ci sono stati affidati, e noi abbiamo imparato dal nostro maestro a dare tutto per loro.   R Il pastore promesso. Biblicamente, l’immagine del pastore è anche quella del re (si pensi anche solo alla figura di Davide) e tutto il racconto dell’Antico Testamento si potrebbe condensare con l’abbandonare i falsi re (come gli idoli, come il Faraone) per metterci al servizio dell’unico vero re che è Yhwh, il nostro liberatore. Questo atto non è compiuto solo una volta per tutte: moltissime volte i profeti hanno dovuto richiamare il popolo e i vari sovrani d’Israele e di Giuda a sottomettersi al loro vero Re e questo perché spesso i pastori non sono state guide illuminanti. Sicuramente chi ha scritto Gv 10 voleva riprendere dei passi dove si parlava dei cattivi pastori, come Ger 23 o alcuni passi di Ezechiele. È questo, ad esempio, quanto veniva predetto da Ez 37, il famoso testo dove le ossa inaridite riprendono vita. Questo brano presenta dei chiari riferimenti anche al raduno degli esiliati che da tutta la terra venivano ricondotti in Israele (Ez 37,21–22). Da questo brano capiamo anche da dove Giovanni abbia attinto al tema dell’unico gregge e dell’unico pastore. Le promesse antiche evidentemente sottolineavano l’esperienza dell’esilio del popolo d’Israele ma il Quarto vangelo allarga queste promesse facendo in modo che il raduno non sia solo quello degli esiliati ma sia davvero il raduno di tutti, pagani compresi, attratti dall’amore di Dio che si manifesta sulla croce. La croce è la porta stretta che il Maestro per primo ha saputo percorrere, ma la dispersione che ne è seguita è stata solo una breve fase: in quella vicenda di morte, i cristiani hanno saputo vedere l’amore del Pastore per le sue pecore e, come dice ancora il nostro brano di vangelo, abbiamo imparato a conoscere quanto il Figlio e il Padre si conoscano e si amino.
Bisogna obbedire prima a Dio, poi agli uomini
 
      Su uno sfondo tipico dell’ambiente palestinese, Gesù si rivela come il «pastore buono» (ma sarebbe meglio tradurre il «vero» pastore, cioè colui che realizza tutte le qualità del pastore, cf. Gv 10,1118). L’immagine non ha nulla di debole o remissivo: a differenza del mercenario che fugge di fronte al pericolo, il pastore si erge contro i lupi e ha il coraggio di non fuggire. Il mercenario non ha alcun vero rapporto con le pecore, a lui importano il salario e la propria sicurezza; perciò nei momenti difficili non difende il gregge, ma lo abbandona e fugge per salvare se stesso. Egli è un pastore a cui le pecore non appartengono in proprio, e quindi non le ama (cf. vv. 12–13). Gesù invece si qualifica come pastore diverso e migliore perché le pecore sono proprio sue (cf. Gv 10,3.4.16), gli appartengono, le conosce (cf. vv. 14.16), si preoccupa di esse e quindi non le abbandona nel momento del pericolo. Fra Gesù pastore e i suoi discepoli corre una profonda relazione che si fonda sull’amore, non sul dovere.       Il gesto più specifico di Gesù (letteralmente il «pastore bello») è di offrire (letteralmente «depone», v. 1 1) la sua vita. La caratteristica del vero e unico pastore è il dono di sé, come la similitudine ripete più volte (cf. vv. 11.15.17–18). L’evangelista dice che Gesù, senza alcuna necessità, senza alcuna costrizione che lo spinga a dare la vita per gli altri, offre la propria vita, pur potendone fare a meno. E che questo non sia pura velleità lo prova il fatto che egli ha il potere di riprenderla di nuovo, un’allusione neppure velata alla sua risurrezione. Il dono della vita viene fatto da Gesù nella più totale obbedienza all’ordine ricevuto dal Padre: «Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio» (v. 18). Gesù dona la sua vita in piena libertà e, al tempo stesso, per un comando del Padre. Strana nozione di libertà. Strana per il mondo, ma non per il discepolo. Gesù ha più volte detto che la sua libertà non sta nel prendere le distanze dal Padre, ma nel fare in tutto la sua volontà: libertà e obbedienza al Padre (che è sempre l’obbedienza al dono di sé) coincidono. Lo spazio vero della libertà è l’amore.       E come Gesù nella sua fedeltà e nella sua obbedienza al Padre trova il coraggio di dare la vita per il gregge, così i discepoli trovano nella fede in Gesù risorto il coraggio di annunciare con franchezza la verità e di opporsi alle minacce delle autorità.       Nella prima lettura (cf. At 4,8–12), tratta come sempre nel tempo pasquale dagli Atti degli apostoli, sembra che si voglia insistere sul comportamento di Pietro e di Giovanni, comportamento che trova la sua radice nello Spirito («pieni di Spirito Santo») e che contrasta con quello delle autorità: da una parte la franchezza, dall’altra la menzogna. Non è la folla questa volta ad essere sotto accusa, ma i capi, come si annota con cura: «I capi, gli anziani e gli scribi, il sommo sacerdote Anna, Caifa, Giovanni, Alessandro e quanti appartenevano a famiglie di sommi sacerdoti» (At 4,5–6). La franchezza degli apostoli li disorienta: «Rendendosi conto che erano persone semplici e senza istruzione, rimanevano stupiti» (At 4,13). Non sanno che la franchezza e la libertà di coscienza non vengono dall’istruzione, né dal ceto sociale, ma dalla fede e dallo Spirito. Franchezza (in greco «parresìa») è il termine che designava la libertà del cittadino nella democrazia greca: libertà di parola e di coscienza, coraggio di esprimere la propria convinzione e il proprio dissenso. La parola ricorre nel quarto capitolo ben tre volte (vv. 13.29.31): è senza dubbio uno dei motivi che l’autore degli Atti degli apostoli intende sottolineare.       Quando il potere viene meno al rispetto della verità e della libertà, si trasforma in una forza minacciosa, che tuttavia non riesce a nascondere la sua radicale debolezza. Ha dalla sua parte la forza, ma non le ragioni né i fatti: «Un segno evidente è avvenuto per opera loro; esso è diventato talmente noto [ … ] che non possiamo negarlo» (At 4,16). Il potere gioca sulla paura (è tutta qui la sua forza), e quando incontra uomini liberi, che hanno vinto la paura, resta disorientato. Il potere «mondano» (quello che prima ha condannato Gesù, che poi ha condannato i discepoli e che sempre e dovunque condanna la libertà e la verità) ha bisogno di servi consenzienti, di uomini che hanno rinunciato — per paura o per calcolo — alla propria coscienza e alla fedeltà al Signore.       Luca ha certamente raccontato questa storia per convincere i suoi lettori che la risurrezione di Gesù introduce nel mondo un cambiamento: non quello di far cessare le persecuzioni, che anzi sembrano insorgere più di prima, ma quello di suscitare uomini liberi e coraggiosi, «obbedienti più a Dio che agli uomini» (cf. At 4, 19). La forza del Cristo risorto si manifesta anzitutto nelle coscienze.       E che il cristiano sia chiamato ad affrontare coraggiosamente un contesto conflittuale e problematico, ne è pienamente convinto l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera (cf. 3,1–2). Nel bel mezzo dello stupore per il dono di Dio e nella gioiosa speranza della pienezza futura, chi scrive ricorda l’ostilità del mondo: «Per questo il mondo non ci conosce, perché non ha conosciuto lui» (v. 1).       Una breve annotazione (posta qui a modo di semplice constatazione, quasi un dato scontato), sembra richiamare le parole della preghiera sacerdotale di Gesù quando ribadisce il motivo dell’odio del mondo verso i discepoli (cf. Gv 17, 14) e afferma che il mondo non ha conosciuto il Padre (cf. Gv 17,25). Il mondo non riconosce il Cristo, né il Padre, né i discepoli, anzi, li odia.       L’evangelista è convinto che questo rifiuto tradisca sempre un’ostinata e colpevole incredulità, un’incredulità che, pur di difendersi non esita a ricorrere alla menzogna, all’odio e alla violenza. Il gran regista di questo rifiuto è Satana, chiamato appunto «il principe di questo mondo» (Gv 16,11). Infine, il rifiuto sorge sempre sulla base di una sicurezza di sé e di una intolleranza per tutto ciò che non è «proprio» («Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo», Gv 15, 19). Quest’ultima convinzione è ribadita anche nella lettera: «Essi [gli eretici] sono del mondo, perciò insegnano cose del mondo e il mondo li ascolta. Noi siamo da Dio: chi conosce Dio ascolta noi; chi non è da Dio non ci ascolta» (1Gv 4,56). Vale a dire che il mondo si trova nelle tenebre (cioè nella menzogna e nella lontananza da Dio), e ci sta bene: per questo rifiuta la luce e chiunque la testimoni. Nulla di comune fra i figli di Dio e il mondo, dove per mondo non si intendono gli uomini (che sono sempre da amare e da cercare), ma le loro idolatrie, le loro strutture di potenza, le loro ideologie. Chi è nato da Dio è all’opposto del mondo, perché i suoi valori sono altrove. Naturalmente nella lettera si coglie molto bene che questa netta opposizione tra il discepolo e il mondo non è un dato scontato (al contrario è molto facile che il discepolo ceda alla tentazione di rappacificarsi con il mondo), ma un compito, un imperativo: «Non amate il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui» (1Gv 2,15).
 
Il vincastro è un ramo di legno di faggio utilizzato dal pastore lungo il pascolo per guidare il gregge, indicare cani-pastore il lavoro che devono compiere quando questi si posizionano ai lati del gregge. È anche utilizzato per proteggere la persona, il pastore. La lunghezza del vincastro coincide all’incirca con l’altezza dei fianchi della persona; viene impugnato nel ricurvo lavorato con il coltello dai pastori che funge da presa anatomica della mano, in grado di ancorarla in maniera ferma e decisa. Durante l’alpeggio sostiene parte del peso del pastore il cammino e pertanto, la sommità ricurva, viene utilizzata talvolta per il trasposto di sacchi o ingombranti. Nello recinto viene appeso ai pali. La struttura del vincastro curvilinea a incastro e chiusa, distingue questo bastone nell’uso principale del manufatto: catturare, fermare per controllarle pecore, capre lungo il pascolo agganciandole e trattenendole per le zampe, soprattutto quelle posteriori. La zampa entra nella spirale modellata del vincastro di legno e non riesce ad uscire.
 
 
Gesù è il buon Pastore difende le sue pecore (le porta in braccio), dona la sua vita sulla croce (che vediamo nel cancello che apre con la sua mano destra), chi vede Lui vede il Padre (il sole) che attraverso Cristo illumina il cammino.
Preghiera di Roberto Laurita
 
Non ci mancano, Gesù, uomini e donne, disposti a farci da guide: ci chiedono di dar loro fiducia, di abbracciare le loro convinzioni, di affrontare i sacrifici necessari per dare successo alla loro causa.   Tu, Gesù, sei l’unico a non sprecare parole e a offrirci la sola ragione che può indurci a mettere la nostra esistenza nelle tue mani: tu hai dato la vita per le tue pecore, l’hai spezzata come un pane buono, l’hai offerta come si fa con quanto si ha di più prezioso.   Ti sei esposto, hai accettato tutti i rischi che affrontano coloro che amano e hai pagato di persona perché questo era il sigillo con cui coronavi la tua vita.   Non hai trattenuto nulla per te perché hai donato tutto: l’energia di ogni giorno fino a tarda sera, le parole e i gesti che rincuorano, che guariscono, che sollevano.   Ecco perché ti dico: «Solo tu sei il mio pastore, solo tu perché ti prendi cura di me e mi conduci alle sorgenti della vita».
Colletta
 
Dio, nostro Padre, che in Cristo buon pastore ti prendi cura delle nostre infermità, donaci di ascoltare oggi la sua voce, perché, riuniti in un solo gregge, gustiamo la gioia di essere tuoi figli.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
Amen.