Dalla Parola alla Vita
3ª domenica di Pasqua
Preghiera allo Spirito Santo di san Giovanni Paolo II   Vieni, Spirito Santo, vieni Spirito Consolatore, vieni e consola il cuore di ogni persona che piange lacrime di disperazione.   Vieni, Spirito Santo, vieni Spirito della luce, vieni e libera il cuore di ogni persona dalle tenebre del peccato.       Vieni, Spirito Santo, vieni Spirito di verità e di amore, vieni e ricolma il cuore di ogni persona che senza amore e verità non può vivere.   Vieni, Spirito Santo, vieni Spirito della vita e della gioia, vieni e dona ad ogni persona la piena comunione con Te, con il Padre e con il Figlio, nella vita e nella gioia eterna, per cui è stato creato e a cui è destinato.   Amen.  
Dagli Atti degli Apostoli
At 3,13–15.17–19
In quei giorni, Pietro disse al popolo: 13«Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; 14voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, 15e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino. Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio l’ha risuscitato dai morti: noi ne siamo testimoni. 17Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi. 18Ma Dio ha così compiuto ciò che aveva preannunciato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo doveva soffrire. 19Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati».
 
In questo passo assistiamo alle prime predicazioni della chiesa nascente: Pietro e Giovanni hanno compiuto un miracolo per il paralitico che chiedeva l’elemosina presso la porta Bella del Tempio. Questo evento grandioso è lo sfondo e il pretesto per il vero grande annuncio che gli apostoli vogliono portare. Se restiamo stupiti dal ritorno in salute di un singolo individuo, molto di più dovremmo stupirci del miracolo compiuto da Gesù Cristo che sulla croce, dando la vita per l’umanità, l’ha liberata dal peccato.   R Non condanna, ma piena accoglienza. Lo scopo di Luca in questo brano non è quello di condannare i Giudei: in generale, il tono è quello di chi vuole giustificare. Perfino Pilato non sarebbe veramente colpevole, perché avrebbe voluto liberare Gesù. È una tendenza di Luca quella di aprire l’annuncio perfino ai Romani, mostrando come la misericordia di Dio sia per tutti. Certamente c’è anche un velo di denuncia, perché i fatti vanno affrontati per quelli che sono: ma il testo dice chiaramente che tutto è avvenuto per ignoranza. La comparsa di Gesù ha colto impreparati i suoi connazionali, troppo grande il messaggio e la promessa che lui era chiamato a compiere. Ma la sua morte non è stata la smentita della sua missione ma il vero successo: il Cristo è tale non per la sua forza militare ma perché la sua potenza è l’amore che sfida perfino la morte. La vita era stata pensata, voluta e realizzata dal Creatore in lui: il peccato dell’uomo è potente, è riuscito perfino a uccidere l’autore della vita. Ma se ciò è avvenuto è solo perché scoprissimo che la vita è capace anche di rinascere. Lo storpio che torna a camminare è dunque immagine anche del popolo d’Israele che può rialzarsi e mettersi in cammino: questa è già l’immagine usata dal profeta Isaia per consolare gli esiliati a Babilonia. Il loro peccato è stato grave e ha costretto Dio a permettere la tragedia dell’esilio: ma questa vicenda era in vista di un ritorno che testimonia il grande amore di Dio che non rinuncia al suo popolo, nonostante sia un popolo di peccatori.   R Una salvezza per tutti. Luca non presenta dunque alcun rifiuto del popolo ebraico, anzi, può essere testimoniata al mondo la potenza della conversione che ha saputo trasformare gli uccisori di Gesù in suoi seguaci. Non a caso Pietro si rivolge al suo pubblico chiamandoli fratelli: e alla fine del capitolo, richiamerà altre grandi promesse bibliche perché Israele scopra, dopo il primo rifiuto, la possibilità di questa eterna salvezza. La salvezza per i fratelli ebrei non è eliminata ma confermata e anzi veramente compiuta, motivo per cui il capitolo si conclude dicendo: «Voi siete i figli dei profeti e dell’alleanza che Dio stabilì con i vostri padri» (At 3,25).
      Gerard Seghers 1591 – 1651 Cristo e i peccatori penitenti  
Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo
1Gv 2,1–5
1Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. 2È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo. 3Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. 4Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e in lui non c’è la verità. 5Chi invece osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto.
 
Le lettere di Giovanni sono un testo che ha un qualche sfondo polemico e nel capitolo 2 della Prima lettera di Giovanni possiamo cogliere alcune di queste indicazioni. Non riusciamo a costruire una chiara vicenda ma comprendiamo che alcuni avversari della comunità portano avanti delle tesi pericolose che il presbitero delle epistole vuole combattere. Sicuramente gli appartenenti a questo gruppo avverso si ritengono dei giusti, ma sbagliano! Inoltre questo gruppo rinnega Gesù come il figlio di Dio (1 Gv 2,22–23). In pratica l’autore delle lettere vuole insegnare che la salvezza non è data da una qualche perfezione ottenuta e raggiunta dai singoli credenti: siamo e restiamo dei peccatori, ma nell’amore perfetto di Cristo ci sappiamo dei perdonati.   R Gesù, radice della redenzione. Gesù è qui presentato come il Paraclito, l’intercessore, un avvocato che si pone accanto al suo cliente per parlare in sua vece e salvarlo. Questo termine è utilizzato nel Quarto vangelo per lo Spirito Santo ma è vero che si dice anche che Gesù manderà «un altro» Paraclito (Gv 14,16), segno che lui stesso è stato il primo consolatore. Ma il nostro brano propone anche un aspetto ancora più radicale: Gesù infatti non solo è l’avvocato che ci sostiene nei momenti di difficoltà ma è la radice stessa di ogni consolazione. In Cristo sappiamo che i nostri peccati sono stati completamente rimossi, espiati. La traduzione italiana introduce il termine «vittima» che in realtà non è presente nel testo greco. Il testo originale parla semplicemente di hilasmós, espiazione. Il termine rimanda a Lv 25, dove si parla appunto del giorno dell’espiazione, e ha una sola altra ricorrenza, proprio in questa lettera. Diciamo che il termine «vittima» non è da escludere perché l’espiazione si fa con il sangue e quindi Gesù, per espiare il peccato, ha dovuto passare attraverso il sacrificio: ma non è appunto una vittima, la sua non è certo stata un’azione subita. In questo senso, l’espiazione è davvero il vertice dell’attività di Dio che nel perdono ha saputo esprimere tutto il suo amore. Evidentemente la lettera riprende qui le antiche e fondamentali convinzioni della prima chiesa che la morte di Gesù doveva richiamare un atto salvifico come quello del Servo di Isaia che osa morire «per portare il peccato di molti e intercedere per i colpevoli» (Is 53,12) o la lezione paolina dell’unico giusto disposto a morire per noi peccatori (Rm 5,7–8). La morte di Gesù fu speciale, in essa possiamo vedere la salvezza di tutti!   R Vivere per accogliere la salvezza. L’ostacolo peggiore è dunque la superbia, il pensare di non aver peccato, di non aver bisogno di alcun intervento di Dio. Così facendo annulliamo la grazia e implicitamente rifiutiamo il sacrificio di Gesù per noi. Oppure, la stessa superbia ci può portare a dare ormai per conosciuto e scontato questo mistero della sua grazia. Come dice il nostro brano, ci sono alcuni che dicono: «Lo conosco» ma poi non vivono l’autentica carità. Anche il Vangelo di Giovanni formula una beatitudine in cui le condizioni però sono due: bisogna sia conoscere ma anche mettere in pratica gli insegnamenti scoperti, altrimenti la beatitudine non sarà veramente accolta (Gv 13,17). La nostra lettera vuole combattere queste tentazioni insegnandoci invece a stare attaccati alla vita concreta: nell’obbedienza alla sua Parola, ai suoi comandamenti possiamo vedere se veramente la fede abita in noi o se invece abbiamo ceduto all’ingannatore che ci ha portati fuori strada. Ad ogni modo, sempre possiamo fare ritorno al nostro primo consolatore che morendo per noi ci ha dato la possibilità di ripartire sempre sulla base del suo dono d’amore, che è inestinguibile.
                 
X Dal Vangelo secondo Luca
Lc 24,35–48
In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] 35narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane. 36Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». 37Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. 38Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? 39Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». 40Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. 41Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». 42Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; 43egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. 44Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». 45Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: 46«Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, 47e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48Di questo voi siete testimoni».
R Una comunità aperta al compimento. Il vangelo di questa domenica appartiene alle apparizioni post-pasquali. Spesso queste scene hanno come sfondo dei fraintendimenti. Evidentemente la prima comunità cristiana ha voluto riflettere su cosa fossero queste manifestazioni di Gesù e non ha voluto nascondere la fatica di riconoscere il Signore risorto. Sicuramente centrale è il ruolo delle Scritture: in Lc 24 troviamo per tre volte il ricorso alla Scrittura per reagire all’incredulità dei discepoli. Per primi sono gli angeli a usare questo argomento con le donne (Lc 24,5–8). Nel brano successivo, quello di Emmaus, Gesù rimprovera i due discepoli e spiega loro le Scritture (vv. 25–26). Il terzo episodio è quello del vangelo di questa domenica dove si esplicita in maniera ancora più chiara che in Gesù si ha il compimento dell’intera Bibbia, che all’epoca della prima chiesa non era ancora un canone chiuso, motivo per cui veniva identificata, secondo la struttura ebraica, in Tôrâ (Legge di Mosè), Nebî’im (profeti) e una terza parte, oggi nota come Ketubîm (gli Scritti) e che all’epoca della redazione lucana non era ancora una parte conclusa. Con l’espressione «Salmi» certamente volevano richiamare questa terza sezione non ancora totalmente definita. Queste osservazioni ci sono utili perché ci fanno comprendere chi fosse la chiesa nascente: una comunità con radici ebraiche ma aperta a un compimento che non passa. La figura di Gesù Cristo diventava infatti il centro di tutto il racconto biblico: la salvezza di Dio si era adempiuta in quest’uomo perché il Cristo tanto atteso si era presentato come un uomo in grado di affrontare la sofferenza e la morte.   R Dio che si fa corpo. Dio da allora non è più un essere impassibile, lontano dall’uomo: non è un’entità solo spirituale ma conosce profondamente la dimensione umana perché non solo si è incarnato ma ha sperimentato anche il punto più faticoso dell’essere creatura, quella finitudine che porta alla morte. Vorremmo leggere tutto questo capitolo dunque come un elogio del corpo: davvero valgono le parole dei Padri della Chiesa «caro cardo salutis / la carne è il cardine della salvezza». Non che mancasse la dimensione storico-concreta nelle promesse dell’Antico Testamento, anzi, Dio ha sempre parlato nella storia, appunto attraverso uomini come Mosè e attraverso le vicende del suo popolo, Israele. Ma il senso di tutte queste storie doveva manifestarsi in maniera chiara, diventare un grande annuncio che fosse pieno, concreto, che dicesse definitivamente l’amore di Dio per l’umanità. Il sacrificio del Messia è dunque un’offerta operata da Dio stesso, secondo un progetto voluto da sempre (ecco il senso del verbo «bisogna» del v. 44) e accolto da Gesù.   R La storia, fondamento di salvezza. Il testo dice che Gesù apre la mente dei discepoli alla comprensione delle Scritture (v. 45) e questa chiave è quella che vediamo nei versetti successivi che potremmo mettere in parallelo. Il v. 46 presenta il tema del nome di Cristo e due verbi (patire e risorgere dai morti). Il v. 47 riprende questi tre elementi mostrandoci però come evolvono: nel nome di Cristo si formula infatti un annuncio, un kerygma, costituito da due elementi, la conversione e la remissione dei peccati (questi due elementi corrisponderebbero ai due verbi precedenti). La vicenda di Gesù non è dunque una storia finita, chiusa in se stessa, ma è la base solida per annunciare al mondo che Dio è in pace con noi, che non vuole la distruzione dell’umanità ma la sua salvezza. Molte volte nell’Antico Testamento il popolo d’Israele, peccatore, avrebbe meritato di essere distrutto ma sempre Dio l’aveva perdonato: questa vicenda di perdono e d’amore è detta ora per ogni uomo, per ogni carne, perché nel Figlio il Padre ha mostrato con che forza d’amore vuole attirare tutti a sé e allo stesso tempo ha mostrato in Gesù che l’uomo può amare fino a vincere il peccato e la morte. Questo annuncio così grandioso, inciso nella Scrittura, ora è inciso per sempre anche nella carne di Cristo: che Luca faccia mangiare al personaggio di Gesù un pesce dice chiaramente che le verità di fede non sono inconsistenti, non hanno una dimensione solo spirituale, non sono sogni e visioni di fantasmi. Ancora di più, il fatto che Gesù dica: «Sono io» mostrando le mani e i piedi che evidentemente portano i segni della crocifissione, ci dice che il sacrificio di Gesù non è stato una passeggiata e che la risurrezione non è un colpo di spugna sulla sofferenza e sulla storia vissuta. Il Risorto porterà per sempre, nel suo corpo, i segni del Crocifisso: le due dimensioni non si annullano!   R Il corpo della fede. Tali verità sono così grandiose che portano nel cuore dell’uomo sentimenti contrastanti che il brano mette in luce: i discepoli sono definiti infatti spaventati, impauriti (v. 37), addirittura increduli per la gioia (v. 40) e stupiti. L’esperienza del corpo è necessaria ma non porta automaticamente alla fede. È necessario che le Scritture si facciano carne, diventino esperienza del cuore, non rimangano idee velleitarie, ma è anche vero che il corpo, da solo, sarebbe spaesato, portando a sentimenti perfino contraddittori: questo a nostro avviso il senso di una gioia che spinge a non credere (v. 41). È sulla promessa della Parola di Dio che le storie umane trovano un punto d’equilibrio ed è grazie ad esse che verità impossibili possono invece essere avvistate e intraviste. Nell’eucaristia i discepoli di Emmaus dicono di aver riconosciuto Gesù: è lì che Parola e Corpo si fondono, permettendo all’intelligenza di Dio di manifestarsi e di entrare nei cuori delle persone. Ciò che più conta è scoprire che Gesù Cristo è ancora presente.   R L’annuncio di un nuovo volto di Dio. Se guardiamo tutto il capitolo di Lc 24 ci accorgiamo che nella prima parte, con i discepoli di Emmaus, assistiamo ad un Gesù che non viene riconosciuto subito, che è presente in maniera velata e che appena colto nella sua essenza, sparisce; nella seconda parte invece assistiamo ad un Gesù concreto, totalmente diverso da un semplice spirito o fantasma, che chiede di essere accolto come una presenza forte, perfino fisica (ecco perché il gesto di mangiare un pesce arrostito). È questa relazione, così forte, anche se misteriosa, che spinge a continuare il racconto. La vicenda di Gesù non è finita: egli sta in mezzo ai suoi, come è avvenuto in entrambe le scene di Lc 24. La sua presenza può assumere forme diverse ma grazie alla Scrittura riconosciamo che egli non è sparito ma ha realizzato il progetto previsto dal Padre per combattere il male e il rifiuto che gli uomini hanno opposto a Dio. Tale rifiuto doveva essere punito da un Messia giustiziere che invece ha fatto sì giustizia ma senza violenza, anzi patendo in prima persona. In Gesù abbiamo così la vera immagine del volto di Dio e chi ne ha fatto l’esperienza non può tacerla, questa notizia è così bella che va portata a tutti. Anzi, tutta la storia d’amore tra Israele e Dio era volta proprio a mostrare che il Padre ha un amore grande, che perdona i suoi figli, prima Israele e quindi tutti gli altri. La vicenda d’Israele è servita per mostrare concretamente al mondo che il rifiuto di Dio è vinto dall’amore del Creatore che non rifiuta e non rinnega le sue creature. Per questo Gerusalemme diventa il centro di questo annuncio, perché è la città che simbolizza il popolo ebraico ed è il luogo in cui questa vicenda si è svolta fino alla manifestazione più grande, quella della croce. È dunque bene che da Gerusalemme si irradi questo annuncio che lì è stato vissuto, non per chiudersi a quell’angolo di terra ma perché diventasse davvero modello per tutta l’umanità.
               
«Aprì loro la mente per comprendere le Scritture»
 
      L’incontro del Risorto con i suoi discepoli è l’evento che conclude il percorso durante il quale Gesù ha progressivamente offerto prove sempre più convincenti della sua risurrezione: il sepolcro vuoto, la testimonianza degli angeli, l’incontro con i discepoli sulla strada di Emmaus e, per finire, l’apparizione agli undici, come si narra nella presente pagina evangelica (cf. Lc 24,35-48).       In questo racconto soltanto Gesù agisce: parla, saluta, domanda e rimprovera, invita a rendersi conto della sua verità, mostra le mani e i piedi e, infine, mangia davanti ai discepoli. L’evangelista insite nell’affermare che Gesù ha un vero corpo, che il Risorto non è un «fantasma» (v. 37), un ideale, ma una presenza reale.       I discepoli, invece, di fronte al Risorto sono fermi e silenziosi, tranne il gesto di offrire a Gesù una porzione di pesce. Di loro, però, sono descritti con attenzione i sentimenti interiori: lo sconcerto e la paura, il turbamento e il dubbio, lo stupore e l’incredulità, la gioia. Sono sentimenti che tradiscono una difficoltà a credere nella risurrezione: non è facile credere nel Risorto. Persino la gioia — che si direbbe andare in senso contrario — è presentata come una ragione che, se pure in modo diverso dalla paura, rende increduli: «per la gioia non credevano ancora» (v. 41). Dopo la risurrezione l’uomo resta dubbioso e incredulo, sia perché si trova davanti a un fatto assolutamente insolito, sia perché si imbatte in una sorpresa troppo bella, desiderata ma ritenuta impossibile.       Davanti al dubbio e al turbamento dei discepoli, Gesù «aprì loro la mente per comprendere le Scritture» (v. 45). Senza l’intelligenza della Scritture il discepolo può trovarsi accanto al Signore senza riconoscere chi egli sia. Comprendere le Scritture significa capire che esse parlano di lui, e che soprattutto passione, morte e risurrezione, come pure l’annuncio della conversione e del perdono, rientrano nel piano di Dio. Annuncio e testimonianza apostolica non sono dunque ai margini dell’evento cristologico, ne fanno pienamente parte, come si evince dal discorso di Pietro dopo la guarigione miracolosa dello storpio (Cf At 3,13-15.17-19).       Di fronte all’accaduto la gente rimane stupita e meravigliata: «tutto il popolo, fuori di sé per lo stupore, accorse verso di loro» (At 3,11). Molto stupore, ma non comprensione. E Pietro prende la parola per spiegare il vero senso della guarigione avvenuta, un senso che la gente non vede: «Perché continuate a fissarci come se per nostro potere o per la nostra religiosità avessimo fatto camminare quest’uomo?» (3,12). La prima preoccupazione del discepolo è di distogliere l’attenzione da sé per indirizzarla verso il Cristo. Il miracolo prova al di là di ogni dubbio che Gesù è vivo e operante. Fu infatti compiuto «nel suo nome». Ecco ciò che a Pietro interessa spiegare, e lo fa evidenziando un primo contrasto fra l’agire di Dio e l’agire degli uomini: questi hanno disapprovato Gesù e lo hanno condannato alla morte, Dio invece lo ha approvato e lo ha fatto risorgere. Pietro si rivolge direttamente ai giudei: «Voi lo avete consegnato e rinnegato» (v. 13). Ma ciò che è detto dei giudei vale per tutti e in quel «voi» dobbiamo collocare anche noi stessi. L’errore dei giudei fu infatti di valutare l’operato di Gesù secondo gli schemi di una mentalità esattamente come la nostra. Pietro non sta condannando i giudei, tanto è vero che più avanti parla di «ignoranza»: «Io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi» (v. 17). Se insiste sul contrasto è per far prendere coscienza — a loro e a noi — di tutta la cecità che ci portiamo dentro: la nostra vista è corta, meschina, incapace di cogliere le profondità del volto di Dio; occorre un modo nuovo di ragionare.       All’interno di questo primo scontro, e cioè fra le valutazioni di Dio da una parte e le nostre valutazioni dall’altra, Pietro indica un secondo contrasto, che svela tutta l’ottusità del nostro rifiuto di Cristo: «Avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che fosse graziato un assassino» (v. 14). Non è paradosso ma realtà storica, persino quotidiana. Si rifiuta Gesù e si sceglie Barabba, perché non si può rifiutare Dio e basta. Se rifiuti il progetto di Dio, sei costretto a sceglierne un altro, non puoi vivere senza un progetto. Rifiutiamo il progetto evangelico perché ne abbiamo paura, o perché non vogliamo cambiare, o perché la sua novità ci disturba, e così continuiamo a vivere secondo vecchi progetti che non hanno mai risolto nulla, progetti senza sbocchi e senza vita.       Ci si potrebbe, a questo punto, chiedere: quali sono i segni che ci assicurano di conoscere Dio e di essere in comunione con lui?       La questione è talmente importante che l’apostolo Giovanni vi allude due volte in poche righe nella sua lettera (cf. 1gv 2,1-5a): «Da questo sappiamo di averlo conosciuto» (v. 3); «Da questo conosciamo di essere in lui» (v. 5b, non riportato nel brano liturgico). La risposta dell’apostolo è la più semplice del mondo: «Se osserviamo i suoi comandamenti» (v. 3b), «chi osserva la sua parola» (v. 5a). Il criterio indicativo è dunque uno solo: la prassi concreta della sequela, cioè l’osservanza dei comandamenti e l’ascolto della parola. Risposta semplice, addirittura ovvia, ma che tuttavia urta costantemente contro una menzogna, la pretesa di coloro che dicono «lo conosco» (v. 4) e nel contempo continuano a vivere una prassi mondana. Non è l’atteggiamento di chi pecca e riconosce il suo peccato, ma l’atteggiamento di chi giustifica il proprio peccato. «È un bugiardo e in lui non c’è la verità» (v. 4b), afferma l’apostolo Giovanni. Non si tratta di una mancanza di sincerità orale, ma di una falsità esistenziale: una menzogna nella vita, non semplicemente nelle parole. Si pensa di conoscere Dio e invece si stravolge il suo messaggio, si crede di servirlo e invece si inseguono falsi valori.
 
Gesù mostra agli apostoli increduli la sua mano ferita, rivela come le scritture hanno parlato di Lui e infine indica la missione nel mondo e la strada del Vangelo. Nel Disegno la mano ferita di Gesù poggia sul rotolo a significare che le sacre scritture parlavano di Lui e il dito indice indica la strada della missione.
Preghiera di Roberto Laurita
 
Sono turbati e pieni di dubbi, sorpresi e senza parole: la tua presenza, inaspettata, rimette tutto in discussione. Sono felici di vederti vivo, ma hanno anche bisogno di riconoscere che non sei un fantasma: sei proprio quel Gesù che hanno visto soffrire e morire, sulla collina del Golgota.   È a quel punto, Gesù, che tu ricordi loro tutto quello che le Scritture annunciavano riguardo a te, alla tua missione, alla tua identità di servo, disposto ad affrontare la sofferenza per la liberazione dell’umanità.   Sì, Gesù, anch’io ho bisogno, dopo che ti ho incontrato risorto, di rinvenire le tracce di un disegno che il Padre ti ha affidato per portarlo a compimento.           Anche a me, infatti, tu affidi una missione e, nonostante la mia fragilità, fai di me un testimone, mi metti nelle mani il tuo Vangelo perché lo annunci a tutti coloro che attendono misericordia e speranza.
Colletta
 
O Padre, che nella gloriosa morte del tuo Figlio hai posto il fondamento della riconciliazione e della pace, apri i nostri cuori all’intelligenza delle Scritture, perché diventiamo i testimoni dell’umanità nuova, pacificata nel tuo amore.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
Amen.