Dalla Parola alla Vita
5ª domenica di Pasqua
Contemplare lo Spirito Santo   O Spirito Santo, contemplarti vuol dire immergere il nostro sguardo nell’invisibile, nella profondità del mistero di Dio.   Tu non hai un volto umano come il Cristo del Vangelo, nelle sembianze del Padre; ma rinunciando a raffigurarti in qualche modo, noi vogliamo aderire a Te con tutte le nostre forze.         O Spirito di Dio, Tu non hai volto perché sei il fuoco dell’amore, poiché unisci il volto del Padre e del Figlio, per formarne Uno solo in una fusione sublime.   O Spirito Santo, Tu che sei il soffio che emana dal Padre e dal Figlio porta il giusto respiro alla nostra vita, la luce al nostro intelletto, il vero slancio al nostro cuore in modo da poter amare i nostri fratelli.  


Dagli Atti degli Apostoli
At 9,26–31
In quei giorni, 26Saulo, venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo. 27Allora Bàrnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. 28Così egli poté stare con loro e andava e veniva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome del Signore. 29Parlava e discuteva con quelli di lingua greca; ma questi tentavano di ucciderlo. 30Quando vennero a saperlo, i fratelli lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso. 31La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa: si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero.
 
I commentatori di Atti fanno notare che Luca probabilmente non conosce la Lettera ai Galati dove Paolo parla in prima persona della sua conversione e dei suoi primi anni passati in realtà nel deserto (Gal 1,15–19).   R Il contesto storico. L’autore di Atti sa di un viaggio di Paolo a Gerusalemme ma non ne conosce bene le intenzioni. Mentre nella Lettera ai Galati Paolo dice di essere andato per conoscere Pietro e di aver visto anche Giacomo, il fratello del Signore, Luca rielabora questa tradizione e la fa diventare l’occasione per descrivere Paolo e mostrare il suo totale cambiamento. Era un persecutore dei primi cristiani e ora invece è lui il perseguitato: vogliono infatti ucciderlo e deve mettersi in fuga. Inoltre secondo At 8 Paolo era stato complice della morte di Stefano, il primo martire; ora invece è un predicatore coraggioso che si muove liberamente per Gerusalemme. Lo scopo di questo brano è dunque quello di mostrarci come la grazia di Dio può trasformare completamente le persone: questo permetterà al lettore di capire i capitoli successivi, dove Paolo svolgerà la sua azione missionaria. Interessante è anche la figura di Barnaba. Difficilmente questo può essere un dato storico: se Paolo ha passato mesi e mesi nel deserto prima di giungere a Gerusalemme, forse la sua conversione era ormai nota, non occorreva qualcuno che ne attestasse la completa conversione. Ma con questo racconto, Luca mostra l’importanza dell’azione ecclesiale. Paolo non avrebbe potuto far nulla se fosse stato solo un convertito isolato, un folle che da persecutore si era fatto mistico eremita.   R La mediazione ecclesiale. È invece la testimonianza di Barnaba che permette a Paolo di entrare nella chiesa. Barnaba era stato introdotto alla fine del capitolo 4 come un modello di virtù: aveva venduto un campo per lasciarlo ai piedi degli apostoli. Era un levita ma di Cipro: è dunque il rappresentante di una chiesa fedele al giudaismo ma di lingua greca, aperta anche ad una prospettiva più universale. Di questa comunità si occupa, al capitolo 6, Stefano, il primo diacono, posto a tale servizio proprio per i problemi che nascevano tra le due componenti linguistiche della comunità di Gerusalemme (At 6,1: «In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca mormorarono contro quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza quotidiana, venivano trascurate le loro vedove»). Barnaba è il personaggio perfetto per fare da ponte tra Paolo e il collegio degli apostoli: conosce la predicazione di Paolo a Damasco che sintetizza con un verbo legato al termine greco parresía (secondo la traduzione italiana «predicare con coraggio o apertamente»). Grazie a questa mediazione, Paolo può continuare con la stessa forza a predicare qui a Gerusalemme. Ma come Stefano, missionario per la comunità di lingua greca, anche Paolo viene minacciato di morte: capiamo che Paolo si prepara a prendere il posto lasciato vuoto dal primo martire.   R L’operato di Paolo. Grazie alla descrizione lucana però, Paolo intraprende il suo percorso ma in accordo con gli apostoli, che conosce personalmente e che avvallerebbero la sua predicazione per averla sentita per un certo periodo a Gerusalemme. D’altronde, Paolo ha visto il Signore che gli avrebbe parlato: ci troviamo così di fronte ad una certa accettazione di questo tredicesimo apostolo! In questo modo, non solo Paolo non fa più paura come persecutore ma addirittura la sua azione, particolarmente rivolta a chi era di lingua greca, ha un riconoscimento della chiesa ufficiale, quella apostolica. Questa comunità si sarebbe anche occupata di metterlo in salvo visto la nuova minaccia di morte: Paolo torna così a Tarso, la sua città natale. Si tratterebbe di una pausa, prima di intraprendere la sua grande azione missionaria. Proprio per questo il brano si conclude presentando la situazione della chiesa e il bilancio è positivo: essa si è estesa, è sia in Giudea, che Galilea che in Samaria. Il testo greco presenta due verbi apparentemente in contrasto che dicono sia la stabilità (la traduzione italiana dice «si consolidava») che la libertà di movimento (resa con l’espressione «camminare nel timore del Signore»). È questa base solida che permetterà lo svolgersi di un annuncio ancora più grande operato sia da Pietro che da Paolo e Barnaba.
 
Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo
1Gv 3,18–24
18Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità. 19In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, 20qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. 21Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, 22e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito. 23Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. 24Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.
 
La Prima lettera di Giovanni insiste, come il vangelo, su una dimensione concreta della vita di fede: dalla condotta, dall’osservanza dei comandamenti conosciamo davvero la verità di un individuo.   R Trovare pace tra sconforto e superbia. La comunità delle lettere conosceva lo strappo di qualcuno che, presuntuosamente, pensava di non aver più peccato, come abbiamo visto nelle domeniche scorse. Queste persone, dunque, dicevano di amare ma lo facevano solo a parole, ritenevano di essere già perfette e invece di fortificare la comunità probabilmente avevano provocato fratture e divisioni. I versetti precedenti al nostro brano infatti parlano dell’odio per il fratello o del ricco che non ha cura poi del povero. Chi ama invece deve farlo con i fatti e da questo conosce che la sua origine è in Dio: in questo senso, chi ama veramente ha un grande guadagno anche solo per se stesso, conosce la verità da cui i suoi gesti d’amore provengono e in questo modo guadagna la pace. L’espressione: «Dio conosce ogni cosa» ci deve far pensare al giudizio: Dio conosce tutto, conosce i nostri cuori, lui sa che veniamo da lui. Quindi, non confidiamo sul nostro cuore, sempre così fragile, e altalenante, ma in Dio, e vinciamo dunque i sensi di colpa che potrebbero sorgere, senza cadere nel rischio opposto della superbia di chi pensa di non aver peccato. Questa è la condizione dunque del cristiano che ha parresía, qui inteso non come un’autorità particolare ma come la fiducia di stare di fronte a Dio nella pace. Non ci si pensa né, arrogantemente, senza peccato, né ci si colpevolizza per nulla: nella concretezza dell’amore quotidiano facciamo ciò che è gradito a Dio ogni giorno e viviamo nella serenità.   R Amare Gesù e il prossimo. La Prima lettera di Giovanni infonde dunque pace perché insegna che il comandamento è uno solo, anche se ha due volti, come ogni moneta. Centrale è il credere nel nome del Figlio, ma questo atto è autentico solo nell’amore reciproco, come Gesù ha insegnato nel Quarto vangelo con la lavanda dei piedi. Ciò che conta in tutta l’esperienza cristiana è l’unione dei due comandamenti, fino a farne uno solo: non c’è amore di Dio senza una reale, concreta carità per i fratelli, e l’amore per l’uomo, che non è sostenuto da un vero amore per Dio, probabilmente non conosce la capacità di amare fino in fondo ogni fratello, anche quando pecca, quando tradisce, quando non corrisponde al bene che gli si è voluto. Per questo la nostra lettura si conclude con il tema dello Spirito: questo è il dono che Gesù ha effuso sulla croce! Nel momento della sua morte, egli continua ad amare e perfino in punto di morte perdona i suoi uccisori: a questo livello non è certamente giunto per caso ma attraverso un percorso consapevole e assunto in prima persona. Chi vive del suo Spirito, si apre ad un amore grande così, ossia senza limiti!
X Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 15,1–8
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
   
Il vangelo di questa domenica è la prima parte di Gv 15, che è un po’ il centro di tutta la sezione giovannea dei discorsi d’addio.   R Il contesto evangelico. Per sommi capi, potremmo dire che Gv 13 e Gv 17 riflettono sul far conoscere Dio al mondo mentre Gv 14 e Gv 16 presentano la questione della partenza di Gesù. Al centro non resta che il capitolo 15, che a sua volta ha come cardine il comandamento dell’amore (Gv 15,12.17). Il discorso della vigna dunque non è da intendersi come un fine, bensì è introduttivo al centro del messaggio che è l’amore, ne è la condizione: ne è prova il fatto che faccia pendant con la questione dell’odio del mondo (Gv 15,19–16,3). Essere radicati in Dio vuol dire riconoscere che la propria origine non è più nel mondo. Ma questo dato non è automatico. Richiede la decisione della nostra libertà credente. Il legame con Dio rappresentato dalla vigna sembra a volte fin troppo costringente, perché sembra eliminare l’iniziativa dell’uomo che dovrebbe ridursi solo a periferica estensione del divino. Frasi come «senza di me non potete far nulla», oppure la minaccia che senza Dio si diventerà come i rami secchi, buoni solo per essere gettati nella fornace, sembrano presentare una fede fondata sulla paura e sulla necessità, quasi un obbligo al credere. Posizioni di questo genere risultano difficili ad un uomo moderno, sempre così attento al riconoscimento della propria libertà. Dobbiamo allora chiarire alcuni elementi, per essere certi di portare avanti, nella nostra predicazione, gli argomenti giusti, quelli evangelici.   R L’immagine della vite. Prima di tutto, l’immagine della vite è un’antica immagine biblica, che voleva dire la cura di Dio. Anche il nostro brano riprende questo aspetto perché parla di Dio come dell’agricoltore, che ha cura della sua vigna per la quale lavora e si affanna. La vite era un’immagine che presentava però due volti: infatti, Dio aveva cura della vigna ma questa dava frutti cattivi, segno del peccato del popolo d’Israele (Os 10,1; Is 5,4). Che Gesù si presenti come la vera vite non vuol dire che Israele venga abbandonato o condannato, ma certo apre alla possibilità di una relazione stavolta esemplare, perfetta, tra il Padre e il Figlio, specchio della speranza di una vera sintonia anche tra Dio e il suo popolo. Perché la relazione cresca, occorre anche andare incontro ad alcune fatiche, ad alcuni “tagli” che l’immagine della potatura presenta. Ci sono due operazioni di questo genere: si prendono i rami secchi, che non portano frutto, e li si strappa. E poi c’è il potare (ma in greco si usa il verbo purificare), azione compiuta per i rami che hanno portato frutto ma che vengono tagliati per portare ancora più frutto.   R Scegliere di rimanere. Quindi, l’obiettivo del brano non è spaventare il lettore minacciandolo che senza Dio non può fare nulla ma invitarlo a scoprire che Dio vuole portare il credente alla massima pienezza di vita. Questa operazione è già cominciata in Gesù: la potatura di Dio in verità è già stata operata dalla parola del Figlio. Al credente viene chiesto soltanto di rimanere in questa relazione con Gesù, di non abbandonarlo altrimenti si sarebbe come un tralcio che vorrebbe portare frutti anche se ormai reciso dalla vite! La condizionale negativa («se non rimanete») non vuole affatto spaventare, anche perché Gesù non minaccia affatto di piantare in asso i suoi discepoli. Si tratta invece di rincuorare i discepoli. Certo che senza di lui non potrebbero far nulla, sarebbero solo come dei rami secchi: ma lui è lì, è possibile rimanere in lui, basta far sì che le sue parole rimangano nella comunità. Il tralcio non può decidere mentre l’uomo sì: il paragone con la vite serve in verità a scoprire la dignità del singolo che può decidere quello che invece, in natura, è un dato solo subìto. In pratica, l’uomo può scegliere in chi porre la sua origine.   R Rimanere per portare frutto. Detto in questo modo, sembra paradossale, perché l’origine la si può solo ricevere. Nel caso del Quarto vangelo, invece, l’azione del credere, del decidersi per Gesù, è fondamentale, dice se veramente abbiamo assunto la nostra origine in Dio, radicandoci in lui. Perché esiste anche la scelta contraria: sarebbe assurda, come è assurdo che un tralcio cerchi di dare frutti staccandosi dal tronco, ma è la dinamica del peccato che in realtà esiste e che conosciamo bene. Ma questo destino di morte non è affatto il nostro unico esito, anzi, noi siamo chiamati ad altro, a portare frutto: e questo non per nostro vanto, ma per assistere alla gloria di Dio che sempre si manifesta più grande e più bella. Il portare frutto è un’immagine che potrebbe simboleggiare più cose come l’azione missionaria o l’impegno a compiere opere buone. In verità, la vigna era anche un simbolo matrimoniale e la fecondità di essa era segno della vita piena che lo sposo, Dio, donava alla sua sposa, Gerusalemme. In pratica, Gesù sta riprendendo l’antica immagine della vigna per dire che in Dio possiamo attingere alla pienezza della vita. I discepoli hanno già sperimentato questa ricchezza stando con Gesù: non era in loro potere il produrre tale qualità di vita, l’hanno solo ricevuta. Ma al discepolo sta il compito di perseverare, di rimanere in questa via che Gesù ha iniziato a tracciare.   R Una comunità di fedeli. Il verbo rimanere (ménō) è infatti identico ad abitare. Questo verbo indica dunque l’azione del discepolo che deve restare fedelmente con il Maestro. Anche il brano della Samaritana si conclude con gli abitanti del villaggio di Sicar che alla fine di una permanenza di due giorni (sempre il verbo ménō) con Gesù possono affermare di aver superato la testimonianza della donna e di riconoscere in prima persona che egli era il salvatore del mondo (Gv 4,40). Al discepolo non sono richieste tante cose ma una è fondamentale: restare con il Maestro, non abbandonarlo seguendo la pressione del gruppo, degli altri, che invece giungono a dire che Gesù è un indemoniato, un ingannatore, un profanatore del sabato e dunque di tutte le antiche tradizioni. Nel Quarto vangelo torna tre volte una parola che l’autore stesso ha inventato, aposynágōgos, «cacciato fuori dalla sinagoga» (Gv 9,22; 12,42; 16,2). È possibile che la comunità che ha redatto il vangelo vivesse in una situazione storica particolare, dove le due comunità, ebraica e cristiana, cominciavano a profilarsi. Era sempre più evidente che bisognava scegliere da che parte stare, non si poteva continuare a credere in Gesù come Messia e allo stesso tempo praticare la vita della sinagoga ebraica. Molti erano tentati di cedere alla pressione del gruppo, di abbandonare il percorso iniziato. Solo chi vive per la gloria di Dio è veramente libero, perché l’alternativa è cercare la gloria propria e degli altri, diventando schiavi reciprocamente. Invece, la gloria di Dio si vede nell’amare, nel moltiplicare la vita delle persone e rimanendo in Gesù viviamo in questo stile che riempie noi e gli altri senza mai schiavizzarci.
Amare con i fatti
 
      Il Vangelo, tratto dal cosiddetto discorso di addio di Gesù, presenta l’allegoria della vite e dei tralci (cf. Gv 15,1–8), che pone l’accento sulla comunione del discepolo con il Signore e sul come custodire e conservare tale comunione.       L’affermazione di Gesù «Io sono la vite» introduce una novità rispetto all’Antico Testamento: là si dice che Dio ha una vigna (cf. Is 5,1–7), qui si afferma che Dio stesso è la vite. Nell’Antico Testamento si parla di una vigna e di una vite che non sono all’altezza delle attese di Dio. Se qui l’evangelista Giovanni può affermare che la vite è finalmente all’altezza delle attese di Dio, è unicamente perché Gesù è la vite.       Ma qual è più ampiamente il punto di vista di Giovanni nel costruire questa allegoria? Solo un ringraziamento perché ora il discepolo, unito al Cristo, può finalmente portare frutti o anche un elemento di inquietudine, di pericolo e quindi di avvertimento? L’uno e l’altro. C’è infatti anche il tema della prova (il Padre pota), che è un’indispensabile condizione di fecondità, ma che rimane pur sempre una possibilità di smarrimento. Si sottolinea che anche il cristiano può essere un ramo secco improduttivo! E la solita paradossale e sconcertante antinomia: la comunità è in Cristo, e quindi protetta, salvata e feconda, ma la possibilità del peccato non è assente. Criterio di giudizio sono i frutti, il ramo fruttifero viene potato, il ramo sterile bruciato. Più in profondità, il criterio di giudizio è il rimanere in Cristo, cioè la più assoluta dipendenza da lui: chi rimane in Gesù dà frutto, chi si stacca inaridisce. Tutta la vita cristiana è riassunta nell’imperativo «Rimanete in me». Rimanere è indicativo di un rapporto di comunione, un rapporto tra persone. Perciò l’uomo deve comprendere che la propria consistenza si trova nell’obbedienza, non nell’autonomia. Si tratta di una dipendenza da vivere anzitutto come fede e fiducia (nel senso cioè di appoggiarsi a Cristo e non a se stessi) e poi come osservanza dei comandamenti (cioè nel senso di conformare la vita alle parole di Gesù e non ai propri progetti). Non è però la dipendenza del servo nei confronti del padrone, ma piuttosto la comunione che corre fra amici: Giovanni infatti non parla soltanto di rimanere ma di un rimanere vicendevole: «Chi rimane in me e io in lui» (v. 5).       Sulla stessa linea si pone la prima lettera di Giovanni (cf. 3, 18–24), che approfondisce la dimensione interiore della relazione con il Signore. «Rimanere in Cristo», essere uniti al Cristo come il tralcio alla vite significa essere inseriti nel suo amore. Si tratta, in altre parole, di osservare il comandamento nuovo dell’amore vicendevole (cf. v. 23). Di che tipo di amore si tratta? Non certo l’amore che si nutre di belle parole e non si traduce nei fatti, sarebbe soltanto la caricatura dell’amore. La verbosità e l’astrattezza sono una minaccia all’amore reale e profondo. E un’illusione in cui è facile cadere. L’apostolo lo sa e per questo insiste: il richiamo alla concretezza — e precisamente alla concretezza «quotidiana» — è uno dei temi maggiori dell’intero scritto: «Chi dice: “Lo conosco”, e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo» (2,4). «Se uno dice: “Io amo Dio”, e odia il fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (4,20).       Ma neppure i fatti bastano. Si ama coi fatti e col cuore. L’amore è tale se diviene concreto, sostanziato di fatti e di gesti. Si ama con la vita. Ma è altrettanto vero che l’amore è fatto di cuore e di anima. L’amore nasce dal di dentro. L’amore non è semplicemente l’aiuto, non è una serie di prestazioni, anche se è tutto questo. L’amore impegna la persona intera e scaturisce dal cuore.       E poi certo, si ama coi fatti, ma quali fatti? C’è modo e modo di intendere l’amore, c’è modo e modo di aiutare i fratelli. Nessun dubbio: è vero amore unicamente quello che si modella sui gesti di Cristo, sulla sua vita: gesti e vita che sono penetrati nel nostro cuore al punto da trasformarlo e da indirizzarlo verso una vita spesa come la sua. Tutto questo è racchiuso nell’espressione «amare nella verità» che nel linguaggio giovanneo assume una sorprendente densità. Non significa semplicemente: amare veramente, amare sul serio, e simili, ma piuttosto amare come Cristo ha amato, amare modellandosi sulla «verità» che il Cristo ci ha svelato.       E così l’amore di cui si parla non si confonde con la semplice solidarietà o filantropia. E invece una imitazione dell’amore di Dio e un prolungamento dell’esistenza di Cristo. Giovanni condannerebbe senza remissione ogni concezione secolarizzata dell’amore cristiano. La capacità di amare in questo modo è il segno che siamo «nati dalla verità», cioè che la parola evangelica è veramente penetrata dentro di noi ed è diventata parte di noi stessi.       Vivere il comandamento dell’amore vuol dire, in altre parole, mostrare e testimoniare visibilmente la fede nel Risorto, come sembrano suggerire i primi passi di Paolo cristiano, raccontati nella prima lettura (cf. At 9,26–31).       Due sono gli aspetti che emergono. Il primo: «Barnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli» (v. 27); «così [Paolo] poté stare con loro […], predicando apertamente nel nome del Signore» (v. 28). Dietro queste due brevissime annotazioni c’è la convinzione che nessun predicatore del Vangelo — si trattasse pure di un uomo, come Paolo, convertito direttamente e personalmente dal Signore — può annunciare un Vangelo personale e può svolgere nella chiesa una missione senza l’approvazione del collegio apostolico. Paolo si reca a Gerusalemme perché vuole confrontarsi con i testimoni privilegiati e autorevoli della tradizione della fede. Un secondo tratto: «In Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù» (v. 27); «andava e veniva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome del Signore» (v. 28); «parlava e discuteva con quelli di lingua greca» (v. 29). A costo di ripetersi, Luca insiste nel presentare Paolo come un annunciatore del Vangelo. Conversione e missione fanno tutt’uno. Il convertito si trasforma in missionario. Chi incontra veramente il Signore non può tenere per sé la propria scoperta, ecco la conclusione. Il vero convertito è necessariamente un annunciatore, non un silenzioso possessore di una fede da vivere privatamente e nascostamente. Paolo parla di Cristo, e il suo parlare ha il tono della franchezza, della libertà e dell’audacia: tale è il significato del verbo che Luca utilizza. E non solo parla, ma discute, cioè dimostra, indica le ragioni della propria fede, controbatte le obiezioni.       Nessuno più di Luca sottolinea che il cristiano è anzitutto un testimone, e per testimone si intende uno che vive e pratica la fede: a che servirebbero le parole prive di vita? Ma è altrettanto vero che nessuno più di Luca evidenzia che la testimonianza è anche racconto, predicazione, rendere ragione della propria fede. Il cristiano degli Atti non è un venditore di parole, e neppure semplicemente un uomo che vive, ma vive, parla e discute.
 
Il vignaiolo si prende cura della sua vigna. Ogni tralcio che resta nel suo amore può solo portare frutti di amore. Sulla sinistra vediamo la mano del vignaiolo che cura il tralcio a destra un grande grappolo di uva che forma un cuore simbolo di amore.
Preghiera di Roberto Laurita
 
Credere in te, Gesù, non significa avere di tanto in tanto un contatto superficiale: la fede non assomiglia a un fuoco di paglia e non è neppure fatta di esperienze esaltanti.   Credere in te, Gesù, non vuol dire riservarti solo una quota determinata delle mie energie, delle mie capacità, e non è neppure considerarti come una polizza di assicurazione quando da solo non riesco ad uscirne.   Credere in te non è neanche lanciarti ogni tanto dei messaggi, quando non ho altro da fare e mi piace ricordarti fugacemente, senza impegnarmi troppo.   Se ci diciamo tuoi discepoli tu ci domandi di rimanere sempre connessi con te: di ascoltare la tua Parola, di cercare la tua volontà, di accettare anche la nostra parte di sofferenza quando si tratta di amare, senza misura.       E se questo avviene tu ci prometti di far fluire dentro la nostra povera storia la tua vita, la stessa vita di Dio.
Colletta
 
O Dio, che ci hai inseriti in Cristo come tralci nella vite vera, confermaci nel tuo Spirito, perché, amandoci gli uni gli altri, diventiamo primizie di un’umanità nuova.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
Amen.