Dalla Parola alla Vitahttps://www.lachiesa.it/liturgia/allegati/icone/BP060.jpg
6ª domenica di Pasqua
Colletta allo Spirito Santo   O Padre, che nella luce dello Spirito Santo guidi i credenti alla conoscenza piena della verità, donaci di gustare nel tuo Spirito la vera sapienza e di godere sempre del suo conforto. Per Cristo nostro Signore. Amen.
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Se restiamo uniti al Signore come le viti di un vitigno porteremo molto frutto e la nostra gioia sarà piena. Nel disegno vediamo che gli alberi della vigna proiettano le ombre di figure umane che si tendono la mano, perché il frutto dell’unione con Dio è l’amore tra i fratelli.
Dagli Atti degli Apostoli
At 10,25–27.34–35.44–48
Avvenne che, 25mentre Pietro stava per entrare nella casa di Cornelio, questi gli andò incontro e si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio. 26Ma Pietro lo rialzò, dicendo: «Àlzati: anche io sono un uomo!». 34Poi prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, 35ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga». 44Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. 45E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; 46li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio. 47Allora Pietro disse: «Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?». 48E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Quindi lo pregarono di fermarsi alcuni giorni.
 
At 10 è un capitolo importante perché attesta il superamento, da parte di Pietro, della rigida dottrina giudaica per la quale solo ai circoncisi poteva essere annunciata la salvezza.   R  Una chiamata universale. Le leggi levitiche che organizzavano il culto infatti chiedevano uno stato di purità particolare per poter accedere alle parti più sacre del Tempio. Stare con dei pagani portava un devoto ebreo a contaminarsi e quindi quest’ultimo non avrebbe potuto accedere al Tempio per compiere dei sacrifici. Eppure il testo ci presenta un centurione romano devoto, che prega secondo il ritmo della liturgia ebraica e fa elemosine. Questo è chiaramente il segno che il disegno di una chiamata universale non è un capriccio umano: l’intervento dello Spirito confermerà la volontà divina di realizzare questo progetto!   R  Il dono dello Spirito. L’episodio che la liturgia ci propone inizia presentando Pietro che rifiuta di essere adorato: lui e Cornelio sono sullo stesso piano, sono due uomini sottomessi all’unica volontà che conta che è quella divina! Dio può trovare dei servi giusti in qualunque nazione: il concetto di giustizia è universale, permette a ogni uomo sincero di aver accesso a Dio. La giustizia era il cardine anche di un libro come quello del Deuteronomio che sanciva una alleanza particolare con Israele: ma lo stesso criterio può diventare base per un nuovo patto rivolto a ciascuno. Già Paolo nella Lettera ai Romani riconosceva che Dio, proprio perché Signore di tutti (At 10,36), poteva essere a capo di un patto che non faceva più distinzioni tra i popoli (Rm 10,12). In questo modo, si realizzava l’annuncio del Vangelo, la buona notizia contenuta in Isaia e rivolta a tutti i poveri (Is 52,7; 61,1). Chiaramente è Dio che qui prende l’iniziativa: già nel sogno di Pietro dice non ritenere profano ciò che Dio ha purificato (At 10,15) ma in maniera ancora più evidente qui si assiste al dono dello Spirito che anticipa perfino il rito del battesimo. La Pentecoste è già stata regalata a questi stranieri: come privarli allora del battesimo? Questo è praticamente dovuto, vista l’azione di Dio così dirompente. Pietro per questo incontro riceverà diverse critiche nel capitolo successivo e si difenderà proprio ricordando che Dio per primo aveva agito donando lo Spirito direttamente ai pagani (At 11,18).   R  Battesimo e agire di Dio. Interessante è allora la riflessione sulla pratica battesimale: essa è la risposta della chiesa a un Dio che chiama tutti alla salvezza, non una clausola per far accedere alcuni ed escludere altri. Dio ha il primato sulla salvezza e viene prima di ogni sacramentalizzazione: poi, giustamente, il sacramento sancisce una salvezza che è già operata da Dio ma chiede di essere vissuta in una comunità di credenti dove il dono dello Spirito può continuare a crescere. Ci piace sottolineare anche l’espressione «al pari di noi»: davvero non c’è differenza tra il battesimo affidato a chi era già circonciso e chi invece accede direttamente dal paganesimo. Questo evento che, storicamente, deve aver creato non pochi problemi, viene qui risolto in Atti in maniera teologica, con un intervento diretto di Dio. Queste indicazioni sono preziose per la chiesa di ogni epoca perché ci ricordano che dobbiamo restare sottomessi alla volontà salvifica universale che Dio ha manifestato in Gesù Cristo (come bene ha ricordato Pietro nei versetti che la liturgia non ha riportato) e ha poi confermato nei fatti della prima chiesa.
Tradizioni che cadono, muri che crollano 11/ Atti. La conversione di Pietro (At 10,1-11-18) - Amico
Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo
1Gv 4,7–10
7Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. 8Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. 9In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. 10In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.
Una parola cloud con amore in tutte le lingue dell'Unione europea Foto  stock - Alamy
Abbiamo già avuto modo di apprezzare l’insistenza della Prima lettera di Giovanni per la dimensione concreta della fede: credere significa osservare i comandamenti e nel cristianesimo questi si riassumono in un unico ma duplice ordine: amare Dio e il prossimo.   R  Amore di Gesù e conoscenza di Dio. In questo brano veniamo portati al vertice teologico della lettera che afferma chiaramente che amare è conoscere Dio perché l’essenza stessa di Dio è l’amore. Sempre per la dinamica pratica dello scritto, questo significa che chi non ama non è da Dio e non lo conosce: l’amore è dunque la categoria regina da tenere in considerazione. Ma l’amore non è qui inteso in modo vago o con riferimento ad un semplice affetto personale tra singoli individui: è nella vicenda di Gesù che si è conosciuto davvero cosa sia l’amore e questo concetto ora ha una base storico–concreta che permette di definirlo. In questo senso, la lettera non divinizza l’amore, non dice «l’amore è Dio» ma al contrario chiede di riconoscere Dio come amore. Non si tratta di sottomettere una delle due categorie all’altra, ma cercare la loro virtuosa reciprocità, che ha un punto di partenza: la storia di Gesù Cristo.   R  Il primato dell’amore di Dio. La definizione «Dio è amore» è la base per la riflessione successiva, che è un cercare “in che cosa” consista l’amore. L’autore della lettera in fondo ci vuole far capire che Dio ci ha amati per primo: non ha aspettato che noi fossimo perfetti per potersi fidare e solo alla fine rivelarci la cosa più preziosa che il Padre aveva, ossia il Figlio. Dio nella sua bontà ha dato subito Gesù per noi e così egli è stato anche strumento di espiazione. Eravamo ancora peccatori e mai ne saremmo usciti se lui non fosse intervenuto nella storia offrendo all’umanità una possibilità di autentica redenzione. La lettera dice chiaramente qual era lo scopo di questo gesto: «affinché noi viviamo per mezzo di lui». Il suo essersi caricato il peso dei peccati dell’umanità offre agli uomini la possibilità di vivere in maniera diversa, rispondendo alla grazia di Dio che in Gesù ci è stata regalata. In questa vicenda capiamo davvero che Dio vuole la nostra salvezza e sarebbe pronto a morire per amore.   R  La natura concreta dell’amore. Questa verità su Dio dice anche la verità dell’amore, che è un darsi completamente, prima ancora di sapere con certezza che la risposta a questo amore sarà positiva. Amare vuol dire scommettere sull’amore dell’altro. E questa fiducia smisurata è la chiave che può portare l’uomo al cambiamento. Infatti, il testo (nei versetti che la liturgia non riporta) continua dicendo che l’amore ha raggiunto la perfezione perché ora tra i membri della comunità c’è fiducia nel giorno del giudizio. Se Dio ha tanto amato il mondo da mandare il Figlio e se il Figlio è strumento di espiazione, allora non c’è più timore, il giudizio non deve farci paura. In conclusione, la lettera afferma che Dio è amore ma è vera anche l’affermazione reciproca, che l’amore è Dio, perché solo in questo modo possiamo scoprire la vera natura dell’amore, che viene davvero dall’alto, da Dio, perché solo in Dio trova la forza per questo totale esporsi all’altro. In questo senso, chiunque sperimenta l’amore ha già conosciuto Dio perché ha sperimentato il coraggio di dare tutto come ha fatto Gesù sulla croce e come ha fatto il Padre offrendo il Figlio. La Prima lettera di Giovanni non è deduttiva, non chiede di conoscere prima Dio, il Figlio e la Trinità per poi poter amare, ma chiede per prima cosa di amare i fratelli come ha insegnato Gesù, esponendosi anche al rischio del rifiuto e del tradimento. Dall’amare come Gesù dunque scopriamo la verità di Dio e dell’amore: in questo senso, è il Cristo davvero l’unico fondamento di tutto!   S. Agostino Commento alla prima lettera di Giovanni VII,8   https://www.augustinus.it/iconografia/immagini/augustinus_126.jpgUna volta per tutte dunque ti viene imposto un breve precetto: ama e fa’ ciò che vuoi; sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene.
X Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 15,9–17
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 9«Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. 10Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. 11Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. 12Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. 13Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. 14Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. 15Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. 16Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. 17Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».
   
Il vangelo di questa domenica completa il discorso sul rimanere che aveva caratterizzato i versetti precedenti. Scopriamo ora che il verbo ménō del discepolato chiede di rimanere nell’amore. Non si tratta dunque di una richiesta costringente, malevola, oppressiva. L’amore è vita, dimorare nell’amore è la condizione per vivere bene, senza amore siamo davvero dei tralci che non portano frutti, buoni solo a essere tagliati e buttati via. Il primo che dà l’esempio è Gesù stesso: si sente amato dal Padre, non vede la sua vicenda terrena come una condanna, una maledizione, un destino avverso. La sua incarnazione è la possibilità per il Figlio di partecipare all’azione d’amore di Dio per gli esseri umani: questi erano di Dio ma il Padre li ha donati a lui, di modo che la relazione Padre–Figlio diventasse un’unica azione d’amore in favore dell’umanità.   R  L’amore che vince l’odio. In pratica, Gesù vive la sua vita come un servizio che non ha subìto ma che ha accolto come un dono. Adesso chiede ai suoi discepoli di entrare in questa stessa logica d’amore. Lui ci ha amato con lo stesso amore del Padre: possiamo dunque partecipare a questa azione di libertà che ci rende soggetti capaci d’amare il mondo, nonostante il mondo non sempre corrisponda. Questi versetti del capitolo 15 infatti vanno letti sullo sfondo dell’intero capitolo che affronta proprio la questione dell’odio del mondo. Per poter affrontare questa ferma opposizione del mondo, l’unica chiave sarà l’amore con Dio Padre, il Figlio e i membri della comunità. La dimensione d’amore non è affatto qualcosa di spirituale, poco concreta, sganciata dal reale: ecco il riferimento, assolutamente pratico, ai comandamenti. L’amore si vede dai frutti, non è solo un sentimento, si vede nelle azioni pratiche intraprese dalla libertà di ciascuno nei confronti degli altri. I Giudei, nel Quarto vangelo, per esempio, si sono continuamente opposti a Gesù, la loro azione è stata spesso quella di cercarlo ma solo per afferrarlo o ucciderlo (Gv 5,28; 7,1.19.25; 8,37.40; 11,53). Dal loro atteggiamento concreto si deve comprendere che non c’era amore per Gesù e neanche per Dio che invece dicevano d’amare. In realtà, amavano di più la loro osservanza dei comandamenti più che l’obbedienza a Dio e la Legge era diventata più che altro la loro Legge, ossia il modo in cui loro avevano deciso di intenderla.   R  Diversi modelli d’amore. L’amore senza obbedienza diventa la pretesa propria di fare il bene dell’altro secondo le proprie categorie: più che l’amore si tratta della perversione di quest’ultimo. Quante persone dicono di amare e invece fanno il contrario! Il vero amore è invece disinteressato, non cerca se stesso, è pronto a dare tutto: ecco perché si propone l’esempio dell’amicizia, che è il legame che chiede più libertà. Esistono vari tipi d’amore, c’è quello filiale e c’è evidentemente l’amore coniugale. E questi modelli sono usati ampiamente nel testo biblico per parlare della relazione tra Dio e l’umanità. Ma questi legami sono caratterizzati da vincoli, di sangue o affettivi, come è giusto che sia. Nei confronti di un figlio ci sono dei doveri e ogni padre sarebbe pronto al sacrificio per il proprio figlio. E certamente un marito sarebbe pronto a morire per la propria moglie. Nell’amicizia invece bisogna scegliersi e se un figlio o una figlia sono per sempre, l’amicizia invece può morire. Va continuamente alimentato questo legame che non è dovuto a vincoli dati dalla natura ma è radicato nella storia di chi ha voluto scegliere l’altra persona come un partner di cui fidarsi e con cui condividere la propria vita. Non a caso compare in questo brano anche il termine gioia: è la felicità condivisa che spinge le persone a cercarsi, a legarsi. Si scopre, vivendo, che si è felici non da soli ma con gli altri. La felicità stessa, quando viene vissuta, vuole essere raccontata a qualcuno: in questo senso, non può essere un’esperienza solipsistica perché, chiusa in se stessa, sarebbe già morta. Vivere la propria vita senza amici sarebbe insopportabile, sarebbe una vita senza gioia. Viviamo per stringere e costruire relazioni, per rimanere gli uni negli altri. E l’importanza di questi legami ci fa scoprire come non potremmo vivere senza i nostri amici: per loro saremmo perfino pronti a dare tutto.   R  Un’amicizia disinteressata. L’amicizia era una categoria della cultura classica e qui l’evangelista vuole probabilmente tendere la mano anche a lettori greci e romani che dibattevano volentieri sulla natura di questo sentimento. Una delle questioni, per esempio, era se l’amicizia si basasse su una certa utilità o su un sentimento totalmente disinteressato. Proponiamo dunque di vedere come il nostro brano di vangelo proponga di non contrapporre le due dimensioni del comando e della massima universale sull’amicizia: le due infatti si sostengono a vicenda. Sulla base, più generale, della grandezza dell’amicizia ora possiamo vedere il sacrificio di Gesù che conferma e rilancia questo impegno. Il fatto che Gesù proponga un comando non è fatto per annullare il bel messaggio dell’amicizia che bisognerebbe vivere quasi naturalmente. La proposta di Gesù è invece quella di ricordare il suo amore, che è stato per tutti, anche per il traditore. Centrale nel brano è il verbo «scegliere» che Gesù ripete in altri passi del Quarto vangelo. In pratica, Gesù sta chiedendo a suoi discepoli un amore come il suo, cioè capace anche di affrontare il tradimento. Questa possibilità è da mettere in conto e la vicenda di Giuda non è una smentita dell’azione di Gesù: al contrario, diventa l’occasione per chiedere al gruppo di discepoli di essere ancora più fedeli, di non separarsi mai perché è solo così che potranno reggere allo scontro ancora più difficile dato dal nemico esterno, l’odio del mondo che inevitabilmente si scaglierà sulla comunità (Gv 15,18–19).
                   
Dio si conosce solo nell’amore
 
     Il comando dell’amore — che apre e chiude la pagina evangelica (cf. Gv 15,12-17) — trova in Gesù il modello, la ragione e la misura: «Come io ho amato voi» (v. 12). E un amore vicendevole: «amatevi reciprocamente». Ed è un amore che esce dal chiuso della comunità e si dilata, missionario, fecondo: spinge a una partenza «perché andiate e portiate frutto» (v. 16).      Si osservi poi l’antitesi servo/amico, che struttura l’intero passo. L’amore di Gesù, modello dell’amore fraterno, è un amore di amicizia, dunque un rapporto confidente fra persone, un dialogo. Tre sono le caratteristiche di questo rapporto amicale: l’estrema dedizione («Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici», v. 13); la confidente familiarità («Tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi», v. 15); la scelta gratuita, la predilezione («Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi», v. 16).      Gesù insiste sulla reciprocità dell’amore, ma al tempo stesso la sconvolge, perché a modello e fondamento dell’amore reciproco pone il «come io ho amato voi», cioè la croce, dunque la gratuità. La reciprocità cristiana nasce dalla gratuità. L’amore cristiano è asimmetrico: il dare e il ricevere non sono sullo stesso piano. La reciprocità evangelica non è il semplice scambio, la nota che la caratterizza è la gratuità, che è la verità dell’amore di Dio e al tempo stesso la verità del nostro amore. Certo, l’amore — quello di Dio come quello dell’uomo — tende alla reciprocità: la costruisce. Ma la reciprocità non è la sua radice né la sua misura. Se ami solo nella misura in cui sei ricambiato, il tuo non è vero amore. E se sei amato solo nella misura in cui dai, non ti senti veramente amato. Soltanto chi comprende questa gratuità nativa, originaria, dell’amore, è in condizione di comprendere Dio e se stesso. L’uomo è fatto per donarsi gratuitamente, totalmente: qui, nel farsi gratuità, trova la verità di se stesso, qui tocca il suo essere «immagine di Dio».      Il comandamento dell’amore vicendevole è tanto importante che viene ripreso e approfondito nella sua dimensione teologica nella prima lettera di Giovanni (cfr 4,7-10).      «Dio è amore» non è una definizione filosofica, ma una constatazione. Con questa frase — che con tanta chiarezza è unica nell’intera Bibbia — Giovanni non fa che riassumere quanto la storia di salvezza continuamente testimonia: Dio sceglie, perdona, rimane fedele al suo popolo nonostante i tradimenti, e in Gesù Cristo si manifesta come amore che si dona e si lascia crocifiggere. L’affermazione lapidaria di Giovanni deve essere letta con tutta questa densità.      Per esprimere quest’amore gli scrittori del Nuovo Testamento hanno scelto una parola rara nel greco: «agape». C’era la parola «éros», che significa amore nato dal bisogno o nato dalla passione, ma l’amore di Dio non nasce dal bisogno e non è passionale. E c’era la parola «filia», che indica amicizia reciproca, spontanea, ma che è priva di quegli aspetti di gratuità e fatica che invece l’amore cristiano comprende. E così hanno scelto «agape», che significa «preferenza», per indicare che l’amore di Dio è anzitutto generosità.      L’amore che viene da Dio è gratuito, perché Dio ama per primo: «Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi» (v. 10). L’amore che viene da Dio non si risparmia, ma si dona sino all’estremo limite: «Ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito» (v. 9). Ed è un amore che libera, non che imprigiona; che strappa dal male e converte, non che illude e giustifica: «come vittima di espiazione per i nostri peccati» (v. 10).      Tuttavia il punto più importante è ancora un altro: la convinzione che solo nell’amore si conosce Dio: «Chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio» (vv. 7-8). Dio non lo si raggiunge anzitutto con l’intelligenza, ma lo si sperimenta all’interno di una prassi concreta di vero amore: «Dio è amore», e di conseguenza egli si svela unicamente a colui che ha imparato ad amare. E sempre in un’esperienza di amore — quella del Cristo prima e quella della comunità che lo imita poi — che si possono trovare le categorie umane, storiche, alla nostra portata, per intravedere il volto del divino.      Il Dio che si è fatto visibile e raggiungibile nella prassi d’amore del Figlio e dei credenti è il Dio che non fa preferenze di persone, come si legge nell’episodio della conversione di Cornelio (cf. At 10,25–27.34–35.44–48).      «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone» (v. 34): queste parole di Pietro alludono ad alcuni passi delle Scritture, ad esempio: «Il Signore, vostro Dio […], non usa parzialità e non accetta regali, rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito» (Dt 10, 17). Oppure: «L’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» (1 Sam 16,7). Dunque, ciò che sta accadendo non è qualcosa di nuovo. I convertiti ebrei se ne meravigliano come se fosse una novità: «Si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo» (v. 45). Eppure non è una novità: è la volontà di Dio già stabilita e nota da sempre, mostrando come la rigidità dei giudei convertiti non era fedeltà alla volontà di Dio ma attaccamento alle proprie abitudini. E c’è un altro aspetto da osservare: si tratta di passi biblici che Pietro conosce da sempre, ma solo ora comprende nella loro vera intenzione. Una cosa è conoscere astrattamente, altro è comprendere a fondo e vederne le conseguenze pratiche. Perché questo avvenga non basta l’intelligenza, occorrono coraggio e capacità di rinnovamento.      Che Dio non faccia differenze (sono gli uomini che gliele attribuiscono!) è mostrato con evidenza dallo stesso comportamento dello Spirito, che ripete per la famiglia di Cornelio lo stesso miracolo della Pentecoste: «Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola» (v. 44).      In conclusione, Dio non bada al popolo, alla razza o all’origine, neanche al passato religioso, ma unicamente alla pietà e alla giustizia. Ecco la radice della vera mentalità cattolica, parola che significa «universalità». La prima universalità consiste proprio nell’adeguare il nostro giudizio al giudizio di Dio: non guardare alle apparenze ma alla sostanza, non perdersi nel secondario ma puntare al centro. In altre parole, occorre essere uomini di profonda unità, ma unità nella fede e nell’essenziale, non nei costumi, nelle abitudini, negli interessi di superficie. Uomini diversi — di diversa cultura e di diversa mentalità — devono trovare la loro unità nella fede in Cristo, non nei rispettivi costumi e nelle rispettive tradizioni, anche se da onorare.
Preghiera di Roberto Laurita
 
Il mio rapporto con te, Signore Gesù, non è basato solo sui sentimenti. Del resto talvolta potrebbero rivelarsi dei cattivi consiglieri, perché nel mio cuore si mescolano insieme tante cose.   Tu mi chiedi di dare un fondamento solido alla mia fede, alla mia relazione con te, e nello stesso tempo mi offri una prova certa dell’autenticità dei miei propositi.   Sì, il mio amore per te si misura attraverso l’osservanza dei tuoi comandamenti. Tu dai valore alle mie scelte, quelle che compio nella vita di ogni giorno e rivelano se cerco veramente la giustizia o invece mi assicuro i miei vantaggi.   Tu apprezzi i miei comportamenti quando recano con sé il profumo della mitezza e della misericordia, della generosità e della compassione, del sacrificio e della purezza del cuore.   Tu mi riconosci come tuo amico se rimango fermo nelle mie decisioni di trattare ogni uomo come un fratello, di riservargli qualcosa di mio perché tu mi domandi di spartire con equità i beni della terra.
Colletta
 
O Padre, che nel tuo Figlio ci hai chiamati amici, rinnova i prodigi del tuo Spirito, perché, amando come Gesù ci ha amati, gustiamo la pienezza della gioia.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
Amen.