Dal secondo libro delle Cronache |
2Cr 36,14–16.1923 |
In quei giorni, 14tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme. 15Il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora. 16Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio. 19Quindi i suoi nemici incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi. 20Il re dei Caldèi deportò a Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all’avvento del regno persiano, 21attuandosi così la parola del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, essa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni». 22Nell’anno primo di Ciro, re di Persia, perché si adempisse la parola del Signore pronunciata per bocca di Geremìa, il Signore suscitò lo spirito di Ciro, re di Persia, che fece proclamare per tutto il suo regno, anche per iscritto: 23«Così dice Ciro, re di Persia: “Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”». |
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R Uno strategico luogo canonico. Il testo di 2 Cr 36 non è un testo come tutti gli altri. La Bibbia ebraica infatti ha una disposizione dei testi biblici diversa dalla nostra. Un testo che per noi occupa una certa posizione non è detto che occupi lo stesso spazio nel TaNaK (acronimo con il quale gli ebrei chiamano la loro Bibbia, che noi identifichiamo come l’Antico Testamento). Il nome TaNaK dice già la tripartizione che per gli ebrei è alla base dei loro testi sacri: la Legge (T come Tôrâ) è al primo posto ed è la raccolta dei testi fondamentali; i Profeti (N come Nebhî’îm) raccolgono i libri che noi cristiani collochiamo sia come profetici sia come libri storici (per esempio, 1–2 Samuele, 1–2 Re); gli Scritti (K come Ketubhîm), dove si trovano i libri che la tradizione cristiana chiama Sapienziali, ma anche altri testi storici che non rientravano nei profeti così come intesi dalla tradizione ebraica. Tutto questo discorso ci è utile perché scopriamo che tutta la Bibbia ebraica termina con il testo di 2 Cr 36 che chiude appunto la sezione degli Scritti. Per poter collocare in questa posizione tale testo gli ebrei hanno perfino violato l’ordine cronologico del racconto (i libri di Esdra e Neemia andrebbero infatti collocati dopo). In pratica, si è voluto mettere a conclusione di tutto il canone ebraico un testo che riassumesse tutta la storia del popolo d’Israele. Una storia di salvezza che però non è una banale favoletta, con un semplice lieto fine. La storia biblica insegna, nel suo insieme, che bisogna combattere il peccato, che è sempre forte: Dio ha sempre amato il popolo e, come un padre, ha sempre cercato di guidarlo. Segni di questa sua cura sono stati i profeti. Ma Israele ha rifiutato l’amore di Dio costringendolo ad abbandonare il Tempio alla distruzione babilonese. Questo evento è centrale nella storia ebraica, un po’ come la croce è il grande evento della fede cristiana. Proprio un evento tragico e traumatico come questo è però diventato occasione per una rinascita più grande, per una fede che fosse radicale, che insegnasse a ripartire dopo ogni evento, perfino quello più triste e letale. Ecco dunque la grande promessa del profeta Geremia, profeta che ha conosciuto la distruzione di Gerusalemme che aveva prefigurato e annunciato, anche se invano. Il peccato del popolo ha portato Israele a schiantarsi contro il potere babilonese e a sperimentare l’esilio: eppure la speranza non muore, e dopo settant’anni la salvezza si presenterà ancora (Ger 25,11; 29,10). R La fede nel Dio che fa «salire». Presentando Ciro come portatore di una salvezza inattesa, il testo vuole proporre di credere sempre in Dio, anche quando ogni speranza sembra sparita. Dio è l’Unico Signore come Unico è il Creatore dell’universo. Questa era stata la grande lezione del Deutero-Isaia che aveva difeso la fede in Yhwh anche in terra d’esilio, invitando a non pensare che gli altri dèi babilonesi fossero migliori del Dio d’Israele ma semplicemente che Dio aveva permesso la distruzione del Tempio perché il popolo si convertisse dai suoi peccati e riscoprisse la fede in maniera ancora più profonda e radicale. Così proprio nel “deserto” dell’esilio babilonese Israele rinasce alla fede e impara che Dio comanda su tutta la storia, è in grado di punire i Babilonesi inviando Ciro di Persia e fa in modo che quest’uomo si ponga al servizio della fede ebraica invitando tutti i deportati a riscoprire la propria identità di appartenenti al popolo d’Israele («Chi tra voi appartiene al suo popolo?»). Così si scopre che la punizione dell’esilio non è l’ultima parola nella storia d’amore tra Dio e il suo popolo. In verità si trattava di un periodo determinato, concluso il quale il popolo può tornare. Fondamentale è l’ultimo verbo dell’ultima frase del nostro brano e di tutto il TaNaK: «Dio sia con lui e salga». Il tema della salita diventa così il motto finale del messaggio biblico, un invito a tornare, l’annuncio di una speranza ormai inattesa che invece proprio alla fine si dischiude. Il verbo nella sua forma originale ebraica ricorda un’altra grande esperienza: quella della fuga d’Egitto! Infatti anche in quel caso si usava la stessa espressione salire (o far salire il popolo) per dire la liberazione operata da Dio (Es 1,10; 3,8.17; Es12,38). In conclusione, questo verbo sintetizza tutta l’opera di Dio secondo l’Antico Testamento indicando Yhwh proprio come il liberatore. La fede si configura così come ciò che ci libera; certamente anche dalle strutture esterne e dai domini storici e politici, ma soprattutto da un nemico ancora più pericoloso perché interno, che è il peccato. |
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Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni |
Ef 2,4–10 |
Fratelli, 4Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, 5da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati. 6Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, 7per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù. 8Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; 9né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. 10Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo. |
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La Lettera agli Efesini vuole celebrare il grande progetto di salvezza di Dio, un progetto da sempre pensato e voluto da Lui. Al capitolo 1 infatti Paolo si rivolge ai destinatari chiamandoli santi, perché da sempre sono stati chiamati a essere figli di Dio e questo è reso possibile dal Figlio che si è sacrificato per gli uomini. Dunque, «in [Cristo] ci ha scelti per essere santi e immacolati… predestinandoci ad essere figli adottivi… secondo il disegno d’amore della sua volontà… in lui, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe» (Ef 1,4–7). R Il tema dell’ira. Che Dio ci ami è pura grazia: tutti gli uomini infatti erano sotto il peso dell’ira di Dio. Con questa formula, si intende ricordare la profondità del peccato e il testo biblico usa questa espressione in più punti. Ma non vuole dire che l’uomo è da sempre dannato! Il testo paolino propone esattamente il contrario: il tema dell’ira viene riportato all’inizio per rendere ancora più grandiosa l’azione di Dio! Anche la grande Lettera ai Romani riporta questa espressione, ma la presenta appunto nei capitoli iniziali, per introdurre il tema della grazia (Rm 1,18; 2,5.8; 3,5; 4,15). Il tema dell’ira spiega che Dio non poteva stare con noi a causa del nostro peccato: la nostra violenza, l’inseguire le logiche della carne, ci portava in lotta con i nostri fratelli e con Dio, motivo per cui la relazione della fede era rotta in partenza. Chi è dominato da un desiderio sbagliato, soltanto egoistico (sintetizzato nella terna fornicazione–impurità–cupidigia di Ef 5,3.5) disubbidisce a Dio e va incontro all’ira (5,6). Paolo però usa questa espressione «figli dell’ira» (Ef 2,3) per proporre di passare a un nuovo stile di vita. In Ef 5,1 si invita ad amare come Cristo che ha dato se stesso per gli altri. In lui conosciamo l’amore e veniamo innalzati a uno stile di vita non egoistico. R Il dono dell’amore. Dunque, questo tema del peccato, per quanto sia radicato nell’umano, non è il tutto dell’umanità: anzi, questo aspetto al massimo esalta e rende ancora più grandiosa l’azione di pura grazia di Dio. Il nostro brano infatti comincia dicendo subito che Dio è colui che è ricco di amore, di misericordia e la sua azione è quella di amarci di un grande amore. Noi, invece, eravamo morti, perché questo fa il peccato, porta morte; ma egli, gratuitamente, nel suo libero amore, ci ha ridato vita. Il testo riporta quindi tre verbi preceduti dalla preposizione «con» che proviamo a tradurre aggiungendo la parola «insieme». In Cristo, cioè insieme con lui riceviamo vita, insieme con lui risorgiamo, insieme con lui, sediamo nei cieli. Capiamo che Cristo è colui che permette all’uomo, non più peccatore, di partecipare della grazia di Dio, di stare con lui. In Cristo si diventa partecipi di quella ricchezza che al v. 4 era detta di Dio di cui ora invece anche gli uomini possono godere. Paolo invita a scoprire come questo amore che sentiamo dentro di noi non è un nostro frutto, non è qualcosa di cui potremmo vantarci. Tutto è venuto da Dio e noi «siamo opera sua» (v.10): anche qui lo scopo non è annullare l’umanità ma salvarla dall’orgoglio che invece farebbe ricadere il credente nel peccato, portandolo a pensare a dei meriti personali. Invece, si apre ora una nuova epoca: in Ef 2,7 si parla infatti di «nuovi eoni, di secoli futuri». Il termine eone (aiṓn) era di solito negativo in quell’epoca, indicava infatti il mondo e il tempo di quella realtà mondana da cui il credente era determinato e che gli impediva di vivere appieno la fede. In Cristo, invece, per grazia siamo introdotti in un’epoca nuova, dove possiamo camminare nelle opere buone che Dio ha da sempre pensato per noi. La dimensione etica dunque non viene meno in Paolo: semplicemente, essa non è un dovere morale e non è una correttezza formale–universale, ma è il segno che ci si è accorti della grazia che Dio ha fatto in noi in Cristo. Una nuova vita può iniziare. |
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X Dal Vangelo secondo Giovanni |
Gv 3,14–21 |
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: 14«Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, 15perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. 16Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. 18Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. 19E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. 20Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. 21Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio». |
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R Salvezza e salita. A commento del vangelo di questa domenica di Quaresima, riprendiamo il verbo salire che concludeva la prima lettura. Il Quarto evangelista infatti ci parla di una salita che viene compiuta da Gesù: è quella sulla croce, punto da cui il Figlio ci mostrerà la gloria, poiché è stato tanto fedele da obbedire in tutto al Padre che l’aveva mandato per amore. Questa salita era già stata allusa nell’Antico Testamento nell’episodio del serpente di bronzo elevato sul bastone, evento citato proprio in Gv 3. In questo episodio di Nm 21, uno strumento di morte come il serpente veniva ribaltato in uno strumento di salvezza. Questa è l’opera di Dio che può trasformare ogni cosa: in fondo, anche noi cristiani abbiamo trasformato il segno di croce in qualcosa di totalmente opposto, quello che era uno strumento di morte (la crocifissione) è diventato uno strumento che usiamo oggi per benedire e per ricordare l’azione salvifica di Dio. Il curare attraverso il principio stesso del male è un po’ il sistema che usiamo oggi per i vaccini: è un tema importante perché saper ribaltare il male in bene significa che qualunque male arrivi, Dio sarà più forte. Se Dio può trasformare il male in bene allora il male è sconfitto fin dall’origine: Dio è invincibile! R Dio ama il mondo. Questo è in fondo quanto la Bibbia da sempre vuole insegnare: Dio è amore, Dio ama l’umanità tanto da dare tutto, perfino il Figlio Unico, perché vuole che la vita sia vissuta in pienezza («Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza», Gv 10,10). Questa prospettiva così bella è ancora più interessante perché il brano sa della fragilità dell’uomo e del suo peccato: «gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce… le loro opere erano cattive» dice il nostro brano di vangelo. È una considerazione concreta che parte dall’esperienza di Gesù Cristo: lui era la luce, da Dio si è fatto uomo per venire fin da noi e noi uomini abbiamo rifiutato questo amore («Venne tra i suoi e i suoi non l’hanno accolto», Gv 1,11). Nella singola vicenda di Gesù possiamo vedere la storia dell’umanità: amare costa fatica e l’uomo cerca altre vie, preferisce trovare gloria con le proprie opere! Ma in questo modo resta rinchiuso in logiche umane: per esempio, i Giudei non osano credere in Gesù perché perderebbero il consenso degli altri, preferiscono perseguire la loro gloria che quella di Dio. È questo il caso di Nicodemo che, in questo capitolo, si è recato da Gesù di notte, probabilmente per non essere visto dagli altri Giudei: è la dimostrazione che, per quanto Gesù possa esercitare un certo fascino, resta difficile aderire pienamente a lui! Essere suo discepolo significa imparare ad ascoltare solo Dio Padre, come lui, il Figlio, ha fatto. Il nostro brano mostra bene questa obbedienza del Figlio nel verbo bisogna. C’è una volontà di Dio Padre che è da sempre, un progetto da realizzare: ma questo progetto è un progetto di salvezza! Questo è il grande messaggio del nostro brano. Dio non odia il mondo, anzi, lo ama, e lo vuole salvare. All’epoca di Gesù questa idea non era scontata, al contrario, con la parola mondo si intendeva qualcosa di passeggero, di inconsistente, di mondano nel senso anche negativo di “contaminato” da influssi stranieri e non credenti. Motivo per cui per l’apocalittica il mondo doveva essere distrutto. Anche Giovanni conosce questo pensiero: «Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo» (Gv 8,23). R Il male del mondo. Il rapporto con il mondo è dunque qualcosa di complesso: per il Quarto Vangelo non si tratta solo di uniformarsi al mondo e neanche semplicemente di negarlo. Infatti si dice che Dio ama tanto il mondo, lo ama addirittura da dare la cosa che ha di più caro. E cosa ha di più caro un padre se non il proprio figlio, soprattutto se unigenito? Con questo linguaggio Giovanni non vuole allora proporre un Dio assetato di sangue che costringe un figlio a un supplizio assurdo, ma al contrario vuole mostrare che la volontà di Dio da sempre è quella di salvare il mondo e che il Figlio è tanto legato al Padre da voler realizzare questo progetto per lui. Se Dio infatti fosse intervenuto, avrebbe dovuto portare un giudizio: ma il giudizio, data la malvagità del mondo, sarebbe stato di condanna. Il nostro brano presenta il verbo krínō che ha come primo significato quello di giudicare: ma in questo contesto è corretto tradurre questo verbo con condannare perché il mondo non può salvarsi da sé. Come dice poi Gv 3,19: «Il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie». Questa prospettiva era quella anche di Qumran e anche di Paolo: il mondo ha fatto la sua scelta, ha preferito andare contro Dio. In fondo è l’atteggiamento anche di Gesù nella sua lotta contro i farisei: costoro erano persone pie, che digiunavano, facevano elemosine e lunghe preghiere pubbliche. Ma queste loro opere erano compiute con la pretesa di guadagnarsi la vita eterna, come se un posto in cielo fosse loro garantito, motivo per cui condannavano prostitute e pubblicani. R La fede nel Figlio. Questa tensione al male non è una condanna ontologica, una forma di predestinazione: è invece una constatazione storica, è il considerare la serietà della storia in cui si vede che l’umanità, in ogni epoca, ha preferito cercare salvezza nelle proprie opere malvagie. Non resta allora che la condanna? No, assolutamente. Dio ama il mondo e ha una proposta di salvezza anche qui storica, concreta: non con la loro giustizia gli uomini salveranno il mondo ma con la loro fede. Il credente può decidere di guardare a Cristo, al Figlio che non ha paura del mondo, anzi, vi entra per amore e proprio per questo insegna a salire fino in cielo. Il versetto immediatamente precedente al nostro brano dice infatti: «Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che ne è disceso, il Figlio dell’uomo» (Gv 3,13). Salire al cielo non è possibile per l’uomo; se lo volesse fare con le sole sue forze sarebbe un atto di arroganza. L’espressione giovannea è incredibilmente forte perché elimina ogni sogno apocalittico di salire al cielo: l’unica possibilità per andare al Padre è vivere profondamente la propria umanità come ha insegnato il Figlio dell’uomo, che è disceso, cioè si è incarnato come affermato nel Prologo: «Il Verbo si fece carne» (Gv 1,14). La figura del Figlio dell’uomo, un’immagine di potenza e di vittoria escatologica ripresa dall’apocalittica giudaica attestata in Dn 7 viene riletta così da Giovanni che la vede realizzata, in maniera paradossale, in Gesù. È lui il Figlio dell’uomo, colui che unisce cielo e terra, e lo fa incarnandosi e morendo per l’umanità intera. Credere che in lui si è manifestato il progetto di Dio per salvare il mondo significa entrare nella vita eterna già ora: chi ha questa consapevolezza è liberato dalla paura del giudizio, si sa già salvato e per questo è libero. Infatti, dice Gv 8,36: «Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero». Questa libertà è però da vivere concretamente, perché la fede non è una teoria, un’idea! Ecco perché il vangelo giustamente si fa anche concreto, e dice che chi fa il male odia la luce. Il credere o no nel Cristo, come fonte generale di salvezza, è una dimensione pratica! Infatti, «chi fa la verità viene verso la luce»: l’uomo, dunque, è anche in grado di fare cose buone, ma siccome la verità per il Quarto vangelo è Gesù stesso («Io sono la via, la verità e la vita», Gv 14,6), fare la verità significa operare in lui e quindi in Dio. A questo punto le azioni non sono compiute per innalzarsi al cielo, per ergersi “comprandosi” un seggio in paradiso, ma sono frutto della fede che ci ha salvato e liberato da ogni giudizio e da ogni pretesa. Gesù ci insegna la via della salvezza, che punta al cielo ma sapendo che la via di salita passa per l’umile discesa, rappresentata da Gesù nella sua incarnazione e dal suo coraggio di amare fino in fondo, fino alla morte di croce. |
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La storia della salvezza: infedeltà e misericordia |
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Dopo l’alleanza con Noè, un’alleanza misericordiosa, universale e stabile; dopo la prova di Abramo, il quale diede un esempio luminoso di fedeltà al Signore fino alle ultime conseguenze; dopo il dono della legge sul Sinai, dove venne proclamata l’appartenenza del popolo al Signore e vennero tracciate le grandi linee lungo le quali vivere nella libertà; dopo tutto questo, che cosa avvenne? L’autore delle Cronache, concludendo il suo libro e offrendo come uno sguardo all’indietro (cf. 2Cr 36,14–16.19–23), sembra cogliere nella storia che ne è seguita uno «schema», cioè un comportamento ripetuto al punto da sembrare una costante, quasi una legge. Uno schema fatto di tre momenti: l’infedeltà del popolo («Tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà», v. 14), il castigo e la conversione («Il re [dei Caldei] deportò a Babilonia gli scampati alla spada», v. 20), la conversione e la ripresa («Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio sia con lui e salga!», v. 23). L’autore (il Cronista sta pensando all’esilio e alla liberazione che ne seguì, secondo lo schema prima descritto e rintracciabile anche altrove, per altri fatti. Uno schema talmente valido e costante che Gesù stesso riprenderà nella parabola dei vignaioli malvagi (cf Mc 12,1–11). La storia della salvezza è come una lotta tra due ostinazioni: la nostra che moltiplica le infedeltà e quella di Dio che continua a inviarci i suoi profeti («Il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora», v. 15). Di qui un avvertimento, l’infedeltà porta all’esilio e alla disgregazione, ma soprattutto una grande consolazione: Dio non abbandona mai, neppure nel castigo, e appena scorge un po’ di ravvedimento, apre di nuovo il cammino. La storia della salvezza, guidata dall’amore misericordioso di Dio per il suo popolo peccatore, come proposta dal libro delle Cronache, si approfondisce nel solco della lettura dell’apostolo Paolo (Ef2,4–10), che è un inno alla misericordia di Dio: «Per grazia siete salvati» (v. 5b), non per merito. È la lieta notizia che Paolo non si stanca mai di ripetere: «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatti rivivere con Cristo» (vv. 4–5). Sulla stessa scia si inserisce il brano evangelico (Gv 3, 14–21), una meditazione sull’amore di Dio, un amore immenso da contemplare soprattutto in quell’evento che più di ogni altro lo manifesta, cioè la croce: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito» (v. 16). Accanto al tema della croce (che sta al centro della fede e che è sempre bene ribadire), il dialogo notturno di Gesù con Nicodemo mette in luce le radici dell’incredulità: mette a nudo le paure, le resistenze e le esitazioni del cuore dell’uomo. Una prima parola che ritorna con frequenza è «credere». Credere in che cosa? La realtà da credere, accettare e vivere è la croce di Gesù. Bisogna credere nel Figlio «innalzato» e nell’Unigenito «donato». In altre parole bisogna credere nell’amore di Dio verso di noi, quell’amore che è apparso in Gesù sulla croce. Una seconda parola ripetuta con insistenza è «giudicare». Gesù non è venuto per giudicare, ma per salvare. Ciononostante la sua venuta opera un giudizio. Di fronte alla sua rivelazione si deve scegliere: o accoglierlo o rifiutarlo. Non è Dio che ci giudica, ma siamo noi che ci giudichiamo. Accogliendo il suo amore ci costruiamo la salvezza, rifiutandolo ci costruiamo la condanna. E il giudizio non è soltanto un fatto futuro, ma presente; giorno per giorno ci costruiamo tenebra o luce, diventiamo ciechi o veggenti. E le tenebre possono divenire così fitte da essere poi impermeabili alla luce. ln questi casi si parla di buona fede, ma in realtà c’è responsabilità. E come di un uomo che resta chiuso a lungo, in una stanza buia; posto di fronte alla luce del sole, chiude gli occhi accecato. Si è abituato alle tenebre e non sopporta la luce, si è assuefatto alla menzogna e non comprende la verità. Così è dell’uomo che opera il male. Può stabilirsi nell’animo una tale connivenza con la menzogna che la verità viene rifiutata proprio perché verità, come Gesù dice ai giudei: «a me […], voi non credete, perché dico la verità» (Gv 8,45). Gesù è convinto che chi opera il male chiude gli occhi alla luce. L’agire condiziona il comprendere. Chi ha il disordine in casa non apre la finestra perché nessuno scopra ciò che egli vuole rimanga nascosto. Chi fa il male vuole giustificarlo; demolisce la verità e la deride. Si difende. Gesù si dimostra un profondo conoscitore del cuore dell’uomo. Ha ragione: solo una vita corretta permette di aprirsi alla verità, chi invece ha il cuore tenebroso non la comprende. Per scorgere la verità — non una verità qualsiasi, ma una verità che impegna la vita, come la verità religiosa o sociale o politica — non basta l’intelligenza, occorre la pulizia del cuore e molta libertà. Si noti la precisione delle parole di Gesù che non dice «chi cade nelle tenebre», ma chi «ama» le tenebre più che la luce (cf. v. 19). Il verbo amare (in greco «agapào») è pieno di significato: indica amore, preferenza, attaccamento, scelta consapevole. Non è dunque semplicemente questione di fare il male, perché può anche accadere di fare il male per debolezza, quasi un incidente (che però non denota una scelta di fondo). Non è questo che impedisce di giungere alla verità. Gesù pensa invece a coloro che amano la menzogna, la scelgono, la giustificano con ragioni plausibili. E un’altra precisazione: Gesù dice «fare la verità» (cf. v. 21). Non conoscere, ma fare, perché la verità di cui Gesù parla non è un complesso di idee da imparare, ma un progetto di vita da vivere e costruire. |