Dalla Parola alla Vita
5ª domenica di Quaresima
Sequenza allo Spirito Santo   Vieni, Spirito Santo, manda a noi dal cielo un raggio della tua luce.   Vieni, padre dei poveri, vieni, datore dei doni, vieni, luce dei cuori.   Consolatore perfetto; ospite dolce dell’anima, dolcissimo sollievo.   Nella fatica, riposo, nella calura, riparo, nel pianto, conforto.   O luce beatissima, invadi nell’intimo il cuore dei tuoi fedeli.   Senza la tua forza, nulla è nell’uomo, nulla senza colpa.   Lava ciò che è sordido, bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina.   Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, drizza ciò che è sviato.   Dona ai tuoi fedeli, che solo in te confidano, i tuoi santi doni.   Dona virtù e premio, dona morte santa, dona gioia eterna.   Amen.
Dal libro del profeta Geremìa
Ger 31,31–34
31Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. 32Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore. 33Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. 34Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato.
 
R Geremia, il vero profeta. Ger 31 è un po’ il vertice di tutta l’opera geremiana. Senza un brano come questo, Geremia potrebbe sembrare solo un profeta di sventura, colui che ha proclamato la distruzione di Gerusalemme e che alla fine l’ha vista realizzarsi. Nessun profeta biblico, però, è solo un profeta di sventura perché tutti siamo capaci di augurare il male. Geremia è un vero profeta, forse il più grande, perché questi oracoli così distruttivi gli costano moltissimo, lo fanno soffrire, lo dilaniano, come mostrano bene le sue Confessioni (Ger 11,18–12,6; 15,10–21; 17,14–18; 18,18–23; 20,7–20). A causa di questi annunci è costretto a restare solo, isolato («Non mi sono seduto per divertirmi nelle compagnie di gente scherzosa, ma spinto dalla tua mano sedevo solitario, poiché mi avevi riempito di sdegno», 15,17). Geremia è grande perché combatte il peccato dell’uomo in maniera radicale, vede proprio la menzogna degli uomini che preferiscono illudersi che Gerusalemme sarà miracolosamente salvata, che Dio punirà gli stranieri e coltivano questi falsi sogni ispirandosi a motivazioni religiose. Si pensi agli annunci di falsi profeti come Anania che così profetizzava: «Così dice il Signore degli eserciti, Dio d’Israele: Io romperò il giogo del re di Babilonia! Entro due anni farò ritornare in questo luogo tutti gli arredi del tempio del Signore… Farò ritornare in questo luogo Ieconia, figlio di Ioiakìm, re di Giuda, con tutti i deportati di Giuda che andarono a Babilonia, poiché romperò il giogo del re di Babilonia» (28,2–4). Geremia cerca invece disperatamente di dire la verità, di mostrare il peccato d’Israele e cerca di avvisare delle terribili conseguenze che si abbatteranno sul paese se non si interverrà in tempo. Ecco perché il profeta ha oracoli minacciosi.   R La conversione possibile. Senza il profeta che mostra loro il peccato, gli uomini si schianterebbero senza preavviso e questa sarebbe la fine peggiore e più dolorosa. Il profeta è invece chiamato a fare dei rîbh, delle contese, delle dispute. Con esse, cerca disperatamente la conversione dell’altro: questo è il compito di tutti i profeti. Nel caso di Geremia tutti i suoi annunci verranno respinti e Gerusalemme distrutta: ecco perché si configura come uno dei profeti più tristi, costretto a misurarsi con il totale insuccesso della sua profezia. Per questo, egli è il profeta delle lacrime (Ger 8,23: «Chi farà del mio capo una fonte di acqua, dei miei occhi una sorgente di lacrime, per piangere giorno e notte gli uccisi della figlia del mio popolo?»). Eppure, Geremia sa sperare contro ogni speranza e sa vedere la vita che rinasce perfino dopo una grande tragedia come la distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio con l’esilio e tutto quanto ne consegue. Più volte il peccato ha intaccato la relazione con Dio e la nostra prima lettura appositamente fa riferimento alla consegna del Decalogo: Mosè non aveva ancora presentato le tavole al suo popolo che già Israele aveva violato i comandamenti con il vitello d’oro! Geremia più di tutti ha visto le tragiche conseguenze del peccato e ha conosciuto che davvero il cuore di Israele è legato al male (Ger 17,1: «Il peccato di Giuda è scritto con stilo di ferro, è inciso con punta di diamante sulla tavola del loro cuore»). Eppure proprio lui, il più tragico dei servi di Dio, profetizza che Israele riuscirà a scrivere la Legge sul proprio cuore in modo che questa alleanza non venga mai più spezzata. Ecco allora la consolazione che il peccato umano sparirà, che verrà perfino dimenticato e una Nuova alleanza comparirà per l’umanità.
 
Dalla lettera agli Ebrei
Eb 5,7–9
7Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. 8Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì 9e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.
 
R La classe sacerdotale. Il capitolo 5 della Lettera agli Ebrei vuole descrivere Gesù come il vero sommo sacerdote. In realtà, si diventava sacerdoti per nascita, bisogna essere discendenti di Levi e avere per padre un sacerdote. Non era il caso di Gesù che invece apparteneva alla discendenza di Davide, il che permetteva di legarlo alle promesse sul Messia. Ebrei però non vuole rinunciare a parlare di Gesù anche secondo le categorie del sommo sacerdote, che era una figura affascinante dell’Antico Testamento. Costui era l’uomo più vicino a Dio, era colui che poteva accedere al Santo dei Santi, il cuore del Tempio. Il sommo sacerdote non era certo solo nel suo ufficio, vi erano gli altri sacerdoti e anche questi svolgevano l’importante ruolo di partecipare ai sacrifici che il popolo offriva a Dio. Il loro compito era soprattutto quello di gestire il sangue: questo infatti rappresentava la vita stessa e nessuno poteva toccarlo senza rendersi impuro. La vita infatti è solo di Dio: per questo motivo gli Ebrei facevano dei sacrifici animali, perché volevano rendere a Yhwh un po’ di vita, per ringraziarlo di quella che aveva loro concessa e per rinnovare la loro che, per l’impurità, andava corrompendosi.   R Il sommo sacerdote. Rispetto agli altri sacerdoti, però, il sommo sacerdote aveva un compito ancora più importante: era l’unico infatti che andava oltre il velo del Tempio nel giorno dello Yom Kippur (Lv 16). Questo rito rappresentava un grande rischio perché esponeva quest’uomo al più grande dei pericoli, quello di vedere Dio. Non si poteva infatti vedere Yhwh e restare in vita, secondo la raccomandazione di Dio stesso in Es 33,20 («tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo»). Per questo motivo essere il sommo sacerdote era un compito molto impegnativo: lo sapeva bene Aronne che aveva perso due dei suoi quattro figli dopo la loro ordinazione sacerdotale perché avevano trasgredito un semplice comando, accendendo un fuoco illegittimo (Lv 10). I sacerdoti e in particolare il sommo sacerdote erano persone totalmente al servizio di Dio, che dovevano astenersi da ogni impurità e da ogni peccato. Infatti, il sommo sacerdote rappresentava l’intero popolo agli occhi di Dio e un suo peccato avrebbe portato come conseguenza una piaga che avrebbe colpito non solo lui ma tutto Israele. Proprio in quanto rappresentante di tutto il popolo egli aveva il compito di eliminare i peccati di tutto Israele nello Yom Kippur, non solo facendo la purificazione dell’Arca ma anche confessando le colpe del popolo pubblicamente e trasferendo i peccati sul capro che veniva poi allontanato nel deserto, ad Azazel.   R Gesù, sommo sacerdote. Un’altra antica legge diceva che chiunque era scappato in una città rifugio avendo compiuto involontariamente un omicidio poteva tornare a casa alla morte del sommo sacerdote; con la sua dipartita infatti sparivano anche tutti i peccati che il sommo sacerdote aveva assunto su di sé finché era in vita (Gs 20,6). Poter paragonare Gesù al sommo sacerdote deve dunque essere stato fondamentale per l’autore alla Lettera agli Ebrei. Egli è diventato tale attraversando i cieli (quindi con l’incarnazione, Eb 4,14) e non è stato un atto d’orgoglio di Gesù pretendere di essere sacerdote perché a questo era stato chiamato, come fu chiamato Aronne (5,4); anzi, egli diventò sacerdote perché Dio, come lo ha chiamato Figlio, l’avrebbe anche fatto sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek (5,56) cioè secondo un sacerdozio antichissimo, dei tempi di Abramo. In questo senso Gesù è il più grande dei sommi sacerdoti perché ha portato a perfezione questa figura, dimostrando una ubbidienza assoluta. Se i sommi sacerdoti si purificavano, si vestivano di lino ed entravano nel Santo dei Santi per lo Yom Kippur avvolti da nubi d’incenso rischiando la propria vita, Gesù ha osato affrontare patimenti ben più grandi. In questo si è reso ancora più vicino agli uomini, deboli e peccatori, non perché lui avesse peccato, ma perché voleva condividere in tutto la loro condizione, per salvare tutti gli uomini, mortali, di ogni tempo, che gli obbediscono.
 
X Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 12,20–33
In quel tempo, 20tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. 21Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». 22Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. 23Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. 24In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. 25Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. 26Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. 27Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! 28Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». 29La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». 30Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. 31Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. 32E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». 33Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.
Il nostro brano di vangelo incomincia con la misteriosa comparsa di alcuni Greci, personaggi che in realtà poi non compariranno più nel testo e che non troveremo in altri passi a discutere con Gesù. Cosa significa la venuta di costoro? E perché non parlarne? In realtà, questo evento è molto significativo perché provoca una svolta: in Gv 12 infatti si conclude il ministero pubblico di Gesù, e se nei primi undici capitoli il lasso di tempo trattato è stato di tre anni, ora manca solo una settimana a Pasqua (12,1) e quindi i restanti capitoli copriranno un arco di pochi giorni. Tutta la storia prende una forte accelerazione e la venuta dei Greci sottolinea proprio questa dimensione. Non conta chi siano, se siano veramente degli abitanti della Grecia, se siano degli ebrei in diaspora e quindi di lingua greca provenienti magari da città ellenizzate collocate in Egitto o in Siria: ciò che interessa è far notare che il mondo sta convergendo su Gesù. La loro presenza è un segno e Gesù la interpreta come la venuta del momento più solenne, quello della sua Croce, perché è lì che si manifesterà in maniera più alta l’amore di Dio che in quella Pasqua mostrerà di amare tanto il mondo da dare perfino il Figlio unigenito (come diceva il vangelo di domenica scorsa). R Un amore radicato. In Gv 1 la vicenda della primissima chiesa era cominciata con una catena di testimonianze (Andrea aveva chiamato Pietro suo fratello; Filippo aveva chiamato Natanaele). Lo stesso avviene qui in Gv 12 con i Greci che prendono contatto con Filippo, che essendo di Betsaida di Galilea era abituato ad una società più ellenizzata, e costui chiama Andrea che va da Gesù. Questo indica una nuova fase nella vita della chiesa che si apre così al mondo intero (in Gv 1 il capitolo finiva riconoscendo in Natanaele «un Israelita in cui non vi è dolo», rinviando a uno sfondo più limitato ad Israele). Ma Gesù non parla con i Greci: questa dimensione più universale non verrà condotta da Gesù in prima persona. Lui insegnerà ad andare oltre ogni confine ma lo farà mostrando di saper morire per la sua gente, quella con cui è sempre stato, quei Giudei che l’hanno sempre avversato ma dai quali Gesù non fugge. Si allontana in alcuni momenti di maggior tensione, ma solo per tornare da loro, come hanno sempre fatto i profeti che, nonostante il popolo d’Israele sia stato un popolo dalla dura cervice, non è mai stato sostituito da Yhwh con altri popoli. È stando con il popolo che da sempre ha sposato che il Dio della Bibbia mostra il suo grande amore per tutti le genti del mondo. In questa vicenda d’amore si vede la gloria di Dio, che raggiunge tutti non disperdendosi in un annacquato messaggio universale ma amando fino in fondo, fino a dare tutto. Ecco dunque l’immagine del chicco di grano, che dice l’andare in profondità nell’amare.   R La morte, solo se porta alla vita. Bisogna stare attenti ad evitare alcune letture masochiste e a fraintendere espressioni come l’invito a «odiare la propria vita». Non basta morire per portare molto frutto! Certo, la morte è condizione necessaria perché il chicco si trasformi. Ma lo stile del proprio sacrificio è fondamentale. Bisogna che il «morire» non sia semplice odio per la vita ma che sia obbedienza a un progetto più grande, finalizzato alla gloria di Dio (termine che compare al v. 23, ripreso poi al v. 28, a mo’ di cornice). Se osiamo perdere la vita è perché la amiamo («Chi ama la propria vita la perde», v. 25) e allo stesso modo va inteso l’odio per questa vita: in verità l’obiettivo finale è conservare la vita perché diventi vita eterna. Senza entrare in tecnicismi, semplicemente bisogna ricordare che Giovanni utilizza due termini per dire vita: il primo è psychḗe il secondo è zōḗ. Il primo indica l’esistenza personale, individuale: va amata ma bisogna sapere che è limitata, mortale, si perderà. L’altro termine invece è spesso legato all’aggettivo aiṓnios che significa eterno: rinvia dunque a una vita che non perisce, che certamente coinvolge una sfera anche ultramondana ma che è qualcosa che tocca la nostra vita attuale, che comincia già ora. Dio è vita per il testo biblico e in Giovanni vediamo che il Padre condivide con il Figlio proprio il potere di dare vita: «Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi egli vuole» (Gv 5,21). Capiamo dunque che la volontà di Dio è quella di donare vita e una vita piena come ribadisce Gesù in Gv 10,10: «Io sono venuto perché abbiano la vita (zōḗ) e l’abbiano in abbondanza». Per questo motivo, quando si usa l’espressione odiare si deve intendere quel sano distacco dal mondo senza il quale ci si attacca alla propria esistenza terrena vivendola con disperazione, senza la consapevolezza che invece questa è un dono di Dio che presto o tardi finirà. La dobbiamo perdere, perché la vita, la psychḗ, si perde comunque: ma a chi la dona senza paura, Dio la conserva. Il corrispettivo del verbo perdere sarebbe il verbo trovare: invece Giovanni cambia appositamente il verbo per farci capire che la vita futura è qualcosa di diverso da quello che abbiamo adesso. Sarà legata a questa vita e infatti conservare dice una continuità ma non sarà solamente un ritrovare la condizione attuale. Conserveremo qualcosa ma allo stesso tempo ci apriremo a una novità che non sappiamo neanche pensare. Quello che possiamo cogliere ora è la logica, già iscritta nella natura, che il senso della vita è dare la vita: il seme che non muore rimane solo e marcisce. Come il seme per dare frutto deve morire, così anche l’uomo deve imparare ad amare fino alla fine.   R Donarsi senza paura. È questo dunque il senso del brano e infatti vediamo Gesù adempiere per primo a questa sua stessa richiesta: in Gv 13,1 infatti, all’inizio della passione, si dice che «sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine». Per questo motivo il Gesù giovanneo non presenta il Getsemani come gli altri evangelisti: nel nostro brano troviamo un richiamo al dramma che Gesù vive nell’affrontare la morte ma il testo vuole mostrarci che è possibile entrare in questa logica dell’amore senza paura. Per questo motivo vediamo Gesù rinnovare subito la sua volontà di amare fino in fondo, di vivere l’amore più grande, quello che dà la vita per i propri amici (Gv 15,13), perché questo era il senso della sua missione. E Dio, con la voce dal cielo, conferma questa intenzione. Come dice il testo, Gesù non aveva bisogno di conferme; la voce di Dio serve a noi per comprendere che se vogliamo glorificarlo, lo facciamo offrendo la nostra vita per amore, come Gesù ha fatto. Andiamo così al di là del tema del giudizio e delle opere individuali perché con il sacrificio di Gesù il giudizio è già stato realizzato: il principe di questo mondo è già stato giudicato e sconfitto con la croce di Gesù e noi viviamo liberi dal giudizio. Non amiamo per conquistarci un posto in paradiso o per presentare opere buone a Dio ma semplicemente viviamo nella fede che ci ha salvato. Certamente, vivere così vuol dire seguire il maestro che ci ha insegnato a dare tutto. La sua morte è il più grande insegnamento, perché è l’atto d’amore con il quale lui ha voluto raggiungere tutti perché non si perdessero (come dice bene Gv 6,39 la volontà di Dio è questa: «…che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno»). La qualità del morire di Gesù è speciale, come riporta il nostro brano di vangelo quando dice «con quale morte doveva morire». In questo senso, amare fino a donare la propria vita non è una cosa banale, non basta odiarsi o farsi del male o buttar via la propria vita. Bisogna trovare il modo di spendersi che realizzi la volontà di Dio, che è un amore grande, che attira tutti gli uomini alla salvezza. Gesù, il Figlio, ha realizzato questo amore in maniera sublime sulla croce, insegnandoci che quella morte, da tutti disprezzata, era invece la gloria di Dio. A ciascuno di noi spetta seguirlo e cercare come, andando al di là delle nostre piccole esistenze, possiamo partecipare a questo grande amore che ancora oggi ci viene disvelato.
 
 
Il seme è il sangue di Cristo e di tutti i martiri cristiani che morendo hanno dato vita alla speranza. Nel disegno si vede nel sottosuolo la croce di Cristo il seme che è diventato radice e fonte di amore che da sempre nuova linfa per l’albero della vita.
Il seme muore per dare frutto
 
      Sul compiersi dell’itinerario quaresimale, al culmine della riflessione sulla storia della salvezza, ci viene in contro la profezia di Geremia che annuncia un’alleanza nuova (cf. 31,31-34), idea centrale della prima lettura.       L’espressione «alleanza nuova» è coniata dallo stesso profeta, ripresa poi in passi famosi anche da Isaia, Ezechiele e dallo stesso Gesù (cf. Lc 22,20).       L’alleanza è un rapporto di mutua appartenenza: «Io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (v. 33). E una formula che il profeta dissemina in tutto il libro. Deriva dal formulario dei contratti di matrimonio e di adozione: «Io sono suo marito ed ella la mia sposa»; «Io sono suo padre ed egli mio figlio». E difatti il rapporto fra Dio e il popolo non è semplicemente un rapporto che lega due alleati: è il rapporto che lega il padre al figlio e lo sposo alla sposa.       Un secondo elemento costitutivo dell’alleanza è la «conoscenza del Signore»: «Tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande» (v. 34). Non è una conoscenza qualsiasi, superficiale o semplicemente intellettuale: è una conoscenza intima, un’esperienza che coinvolge l’intera esistenza.       I due elementi costitutivi che abbiamo finora rilevato non sono ancora lo specifico dell’alleanza nuova, non sono una vera e propria novità. Perché Geremia parla di «alleanza nuova»? Certo perché la prima alleanza, secondo il profeta, si è infranta irrimediabilmente: non è possibile una semplice restaurazione. E come la brocca che egli ha spezzato sotto gli occhi degli abitanti di Gerusalemme: non è più possibile accomodare i cocci (CE 19,11), occorre rifare la brocca da capo. E non basta. Se il profeta parla di «alleanza nuova» non è semplicemente perché l’antica alleanza è stata rifatta da capo, ma perché in quest’ultimo intervento di Dio c’è di più. Ecco la novità: Dio stesso produrrà la conversione, e la sua legge — è questo il tratto più specifico — non sarà più posta davanti agli occhi, ma scolpita nell’intimo del cuore. La caratteristica della «nuova alleanza» è l’interiorità: «Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni […]: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore» (v. 33).       La profezia dell’Antico Testamento trova il suo pieno compimento e significato nell’ultimo discorso pubblico di Gesù (cf. Gv 12,20-33), che annuncia il raduno universale di tutti gli uomini attraverso l’assunzione della croce fino al dono totale di sé.       Alcuni greci esprimono il desiderio di vedere Gesù. Con ogni probabilità non sono giudei, ma pagani. E così diventano il simbolo o l’anticipo, di quella universalità che sarà appunto il frutto della croce. I greci vogliono vedere Gesù: non è una curiosità, ma un desiderio di conoscere e di credere. Questo è il senso del verbo «vedere» in Giovanni: è un «vedere» profondo, che va oltre le apparenze o le spiegazioni superficiali, per cogliere il significato vero e nascosto. Ogni uomo dovrebbe far propria la domanda dei greci: «Vogliamo vedere Gesù» (v. 21).       La risposta di Cristo sembra, a prima vista, eludere la loro richiesta. E invece va al cuore della questione. Gesù risponde con una breve parabola che illustra il senso della sua vita intera: egli è come un seme che sprofonda nella terra (cioè che si dona sino alla morte) per portare frutto. E il frutto è descritto poco più avanti: «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (v. 32). Gesù si dona e muore per radunare gli uomini. Questo è il frutto.       I greci, che volevano sapere chi è Gesù, sono così invitati a comprendere il mistero della croce. E sempre interessante notare come Gesù per farsi conoscere, per svelare la sua persona e il suo significato, parli della croce, parli della sua vita come un continuo progetto di donazione. Alla domanda: «Chi è Gesù?», i primi cristiani non rispondevano con una definizione (non basta dire è vero Dio e vero Uomo), ma raccontando concretamente la sua vita e la sua morte.       Il mistero da comprendere è dunque la croce. Ma deve essere capito bene. Può succedere, infatti, che il senso genuino sia, non raramente, offuscato, impoverito e banalizzato. La croce è divenuta, alle volte, sinonimo di fatica, di sofferenza e di fallimento. Ma la croce è ben altro!       La croce è la manifestazione dell’amore di Dio, della sua comunione e della sua solidarietà nei nostri confronti. È questo il senso principale da cui deriva no tutti gli altri, come dichiara l’evangelista: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito» (3,15); «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (15,13).       Nel quarto Vangelo Gesù parla della croce in termini di gloria: «E venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato» (12,23). Non è un paradosso. La croce è gloria, purché si intenda la gloria dell’amore, non certo la gloria della potenza. Sulla croce vediamo un amore forte, ostinato, che gli uomini cercano di scoraggiare ma che non si lascia abbattere: è un amore grande, forte e glorioso. Sulla croce è apparsa la potenza dell’amore.       Tuttavia la croce non è soltanto la rivelazione dell’amore di Dio, è anche la via della solidarietà e della comunione, della solidarietà a oltranza. Gli altri possono emarginarti o tradirti, ma tu devi rimanere solidale con loro, aggrappato a una fedeltà che va oltre il rifiuto che incontri. La via della croce è la via della solidarietà ostinata e universale. Come il Cristo che morì per coloro che lo crocifissero. Oltre che rivelazione dell’amore di Dio la croce è anche un progetto di vita che il Cristo ha vissuto e che ogni discepolo deve condividere.       La croce contiene un ulteriore aspetto: la debolezza dell’amore. Il Cristo non è sceso dalla croce con schiere di angeli per imporre il suo discorso. Non ha usato la sua potenza di Figlio di Dio per sottrarsi al rifiuto. Si è affidato alla libertà degli uomini, ha lasciato loro la possibilità di dire di sì e di dire di no. Tutti si aspettavano un dio che, proprio perché tale, si imponesse a tutti. Invece Dio ha preferito percorrere la via dell’amore e della libertà, accettandone sino in fondo la debolezza.       Infine, la via della croce è la via della risurrezione. Questo significa che l’amore sembra sconfitto, ma in realtà è vittorioso, sembra incapace di fare storia e invece fa storia, sembra debole e invece è forte. Come si potrebbe altrimenti percorrere la via della croce se non ci fosse questa fede?       Alla fine di queste riflessioni due conclusioni molto semplici, aperte a diverse possibilità. Anzitutto: vivere la croce significa condurre una vita quotidiana che permetta all’amore di Dio di trasparire. Non basta la semplice fatica o la sofferenza, occorrono la solidarietà, l’accoglienza, la fraternità, il servizio.       In secondo luogo la croce ci invita a scorgere Dio non là dove c’è la potenza o la forza del genio, o il fascino della bellezza, ma là dove c’è l’amore: là dove c’è il seme che muore per dare frutto.
Preghiera di Roberto Laurita
 
Non è facile, Gesù, tu lo sai bene, vivere l’esperienza del chicco di grano: scendere nell’oscurità di tante situazioni e raccogliere la sfida di amare, senza limiti, senza misura, privi del conforto di un sostegno, di un’approvazione, di un riconoscimento.   Non è facile accettare di marcire nel grembo delle vicende umane, rinunciando a sogni di gloria, paghi solo di compiere la propria parte, ogni giorno, con impegno, con determinazione, con coraggio.   Non è facile scegliere una fecondità che si realizza nel nascondimento, autentica, reale, ma anche ignorata perché lontana da quelli che contano, dai loro circoli ristretti, dalle loro logiche di potere.             Eppure è questo che tu mi proponi, dopo averlo tu stesso sperimentato. Tu non mi sottrai al tempo della prova, ma mi dai la certezza di essere custodito, amato, sorretto dal Padre. Tu mi assicuri che resterai vicino in qualsiasi frangente, anche quando emergeranno la mia fragilità, i miei dubbi, i miei limiti.
Colletta
 
O Padre, che hai ascoltato il grido del tuo Figlio, obbediente fino alla morte di croce, dona a noi, che nelle prove della vita partecipiamo alla sua passione, la fecondità del seme che muore, per essere un giorno accolti come messe buona nella tua casa.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
Amen.