Dalla Parola alla Vita
1ª domenica di Quaresima
Preghiera allo Spirito Santo di san Giovanni Paolo II   Vieni, Spirito Santo, vieni Spirito Consolatore, vieni e consola il cuore di ogni persona che piange lacrime di disperazione.   Vieni, Spirito Santo, vieni Spirito della luce, vieni e libera il cuore di ogni persona dalle tenebre del peccato.       Vieni, Spirito Santo, vieni Spirito di verità e di amore, vieni e ricolma il cuore di ogni persona che senza amore e verità non può vivere.   Vieni, Spirito Santo, vieni Spirito della vita e della gioia, vieni e dona ad ogni persona la piena comunione con Te, con il Padre e con il Figlio, nella vita e nella gioia eterna, per cui è stato creato e a cui è destinato.   Amen.
Dal libro della Gènesi
Gen 9,8-15
8Dio disse a Noè e ai suoi figli con lui: 9«Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, 10con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e animali selvatici, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca, con tutti gli animali della terra. 11Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra». 12Dio disse: «Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni essere vivente che è con voi, per tutte le generazioni future. 13Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra. 14Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, 15ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne».
   
R La fine, per un nuovo inizio. Il testo di Gen 9 ci fa comprendere dove voleva arrivare il discorso del diluvio: tutto era infatti iniziato con una espressione severa, nella quale si diceva che Dio si era pentito di aver creato l’umanità («E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo», Gen 6,6) e che l’unica soluzione possibile era la distruzione per mezzo del diluvio. In realtà, Dio è il Dio della vita e non può portare a compimento un progetto di totale distruzione. Una tale azione deve avere un altro significato, che consiste nell’eliminare il male affinché il giusto prosperi e la vita, minacciata dalla violenza, rinasca. Dio ha dunque realizzato il diluvio ma l’ha fatto in vista di una nuova alleanza che il testo definisce perfino eterna (è il v. 16 del nostro brano, che la liturgia non propone). Se Dio ha distrutto, era solo per ricostruire qualcosa di più grande e più bello. Che Dio si sia pentito non vuol dire che Dio ha rifiutato l’umanità ma è la modalità biblica con cui ci viene mostrato Dio: Dio è un Dio di pathos, un Dio che sente il male e ne prova dolore, che non può sopportare la violenza e che non può restare indifferente! Il male con le sue conseguenze va distrutto e Dio interviene: questo vuole affermare il testo biblico. Dio è costretto dall’umanità a colpire con il diluvio, gesto che viene compiuto per ricordare a tutti che Dio non è colluso con il male. Dall’altra parte, il testo biblico racconta questo evento per esplicitare che Dio, se mai ha fatto una cosa del genere, l’ha compiuta per non realizzarla mai più! Ecco dunque il segno dell’arco: come un condottiero che ha colpito e fatto guerra al suo nemico, ora Dio depone il suo strumento di guerra per non compiere più una tale distruzione. Quindi la Bibbia, anche in un brano severo come questo, attesta che Dio è e rimarrà per sempre il Dio della vita, che avrebbe dovuto eliminare il male e che ci ha provato all’origine ma che ha ripromesso di non distruggere più la terra perché il male non è estirpabile in questa maniera (si pensi anche al brano evangelico della zizzania). L’unica possibilità è dunque quella di riproporre l’antica alleanza, che dunque è eterna ma è anche sempre da ripetere.   R Un’alleanza che si rinnova. In fondo, questo è il grande insegnamento del Primo testamento, che conosce da sempre la necessità che la Legge sia ristabilita. In questo senso, la Bibbia non propone la fede in Dio come un’ubbidienza cieca e perfetta che un giorno, chissà quando, un popolo militarmente fedele saprà applicare. La Legge è soprattutto la dimostrazione che Dio ci ama, che Dio scommette su di noi nonostante i nostri fallimenti e i nostri tradimenti. Egli non rinuncia al suo progetto di giustizia e da parte sua ripropone l’alleanza di sempre a questa umanità rinnovata ma ancora peccatrice (anche il grande Noè commetterà peccato ubriacandosi e la violenza continuerà a essere praticata anche nella sua stirpe). In Gen 1,29-30 Dio aveva lasciato come cibo per tutti gli esseri viventi solo l’erba verde: non si poteva uccidere alcun animale e dunque, anche il leone, in origine, avrebbe mangiato solo fieno. È solo a partire da Gen 9 che Dio concede di mangiare carne, a indicare che una qualche violenza ormai veniva tollerata da Dio (anche se il suo progetto originale resterà in diverse visioni profetico-escatologiche, dove alla fine dei tempi si tornerà a non praticare alcun genere di violenza, neanche tra gli animali, come in Is 11,6-8). La sostanza dell’alleanza però viene mantenuta, perché ci si impegnerà a non toccare il sangue, segno della vita, che rimane solo di Dio («Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè con il suo sangue. Del sangue vostro, ossia della vostra vita, io domanderò conto», Gen 9,4-5). Se è dunque vero che all’uomo viene chiesto un impegno (quello di non dedicarsi alla violenza, rispettando la vita dell’altro), dall’altra parte bisogna notare che questa alleanza non è un contratto. È un regalo di Dio: è lui che in prima persona dona all’uomo questa relazione paritaria, scommettendo che l’uomo prima o poi saprà praticarla. Il patto però non parte con un elenco di condizioni, come in alcuni passi del Deuteronomio («Se ascolterete… se metterete in pratica le mie leggi e i miei precetti…»): qui Dio dice la sua volontà unilaterale di fare alleanza con l’umanità come un dono di grazia, che dunque regala per suo libero amore e di cui lascia un segno che è l’arcobaleno. Questo segno da parte di Dio inoltre non servirebbe agli uomini ma a Dio stesso, che si impegnerebbe a non colpire mai più la terra («L’arco sarà sulle nubi, e io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra», Gen 9,16).

 
Dalla prima lettera di san Pietro apostolo
1Pt 3,18-22
Carissimi, 18Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito. 19E nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, 20che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua. 21Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi; non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo. 22Egli è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze.
 
R Chiamati alla conversione. La Prima lettera di Pietro è un testo scritto per cinque regioni che costituivano quattro province dell’Impero romano (Ponto e Bitinia, che erano una provincia; Cappadocia, Galazia e Asia). Di fatto si trattava di varie comunità sparse in tutta l’attuale Turchia: lo sfondo è dunque diverso dalle lettere paoline che invece di solito erano destinate a una chiesa più localizzata, limitata a una città (Roma, Corinto, Efeso ecc.). Ricostruire lo sfondo sociologico è dunque più difficile. Di fatto, comunità sparse in una regione così vasta sono comunità miste, dove ci saranno stati cristiani provenienti dal giudaismo ma altri, la maggior parte, provenienti dal paganesimo. La lettera accenna più volte a una conversione già compiuta a cui bisogna restare fedeli: si invita spesso a non tornare a una condizione precedente, che evidentemente è una fase ancora paganeggiante (1 Pt 1,14; 2,10; 4,3-4). Possiamo immaginare che dopo un certo tempo, la nuova condotta praticata da chi si era fatto cristiano fosse risultata incomprensibile ai vecchi compagni pagani che avranno cominciato ad avversare questi primi credenti (cf. 4,3-4). In questa situazione, lo scritto petrino chiede di non temere la sofferenza, ma anzi di affrontarla con coraggio: «E chi potrà farvi del male, se sarete ferventi nel bene? Se poi doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non sgomentatevi per paura di loro e non turbatevi» (3,13-14). I versetti appena visti incorniciano esattamente il brano che la liturgia ci propone e capiamo che proprio per incoraggiare i credenti viene presentato il modello del Cristo: egli ha sofferto e addirittura è morto, ma l’ha fatto per noi ingiusti, quindi la sua sofferenza ha un senso, uno scopo, è redentiva. La morte fisica non conta quanto la vittoria nello Spirito, una vittoria assoluta che addirittura ha avuto conseguenze negli inferi!   R Cristo, fondamento di salvezza. Il nostro brano accenna al fatto che Gesù non solo sarebbe morto per i nostri peccati ma che sarebbe appunto anche disceso negli inferi. Il testo non è molto chiaro, non è facile interpretare lo scopo della discesa di Gesù (1 Pt 4,6 infatti accenna a una funzione anche punitiva di questo annuncio: «Infatti anche ai morti è stata annunciata la buona novella, affinché siano condannati, come tutti gli uomini, nel corpo, ma vivano secondo Dio nello Spirito»). A nostro avviso, al di là della questione teologica di chi si parli in questo brano (se degli angeli decaduti, che si erano contaminati con donne, e che meritavano la condanna definitiva, o con tutti i non-credenti che quindi, nel giudizio, avrebbero ricevuto l’annuncio di salvezza e si sarebbero convertiti), lo scopo di questo brano è farci capire che l’esempio di Cristo è speciale, è infatti un evento unico («una volta per tutte», ápax), che ha permesso la salvezza universale di tutti. L’esempio di Noè dice che è possibile che qualcuno ascolti l’invito di Dio e che non bisogna farsi condizionare dai grandi numeri. Dio ha salvato il mondo con Noè e un pugno di altre persone: sulla salvezza operata da Gesù e con l’esempio di personaggi come l’antico patriarca si potrà rivivere la stessa azione di salvezza restando fedeli al proprio battesimo. Il testo ci offre un grande invito a vivere la nostra vita di fede in un mondo che non capisce più il significato di certe pratiche: questo non dovrebbe spaventarci! La fede è sempre stata difficile, in ogni epoca: sempre c’è chi l’ha combattuta e ogni credente può solo sforzarsi, sull’esempio di Cristo, di lasciare una testimonianza coerente e coraggiosa, pronta a sfidare anche certe incomprensioni. Le fatiche incontrate possono diventare dunque occasioni per rafforzare la nostra fede e la nostra salvezza.
 
X Dal Vangelo secondo Marco
Mc 1,12-15
In quel tempo, 12lo Spirito sospinse Gesù nel deserto 13e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano. 14Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: 15«Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Marco è stato il primo dei vangeli a essere redatto e con questa operazione ha creato un vero e proprio genere letterario, quello appunto evangelico, che è una qualche forma di biografia (bisogna raccontare la storia di Gesù) ma anche qualcosa di molto diverso. Infatti, Marco non ha la pretesa di raccontare tutto di quest’uomo: non racconta, per esempio, la sua infanzia ed evidentemente il suo obiettivo è che la storia raccontata porti a credere che costui sia il Messia. Storia e fede si intrecciano in questo testo tanto che non sono più “scomponibili”: non possiamo più risalire al puro dato storico e, viceversa, non possiamo neanche dire che una certa vicenda sia solo un racconto teologico senza alcun fondamento storico. Sta di fatto che Marco ci presenta Gesù come l’annunciatore di un tempo nuovo: questa doveva essere la sua occupazione. A un certo punto della sua vita, quest’uomo era partito per annunciare, nella sua terra, la venuta del regno di Dio. Sentiva questa realtà come qualcosa di prossimo, di vicino che nessuno poteva arrestare. Anzi, Gesù comincia il suo annuncio proprio nel momento peggiore, quando Giovanni, il precursore, viene arrestato. Se hanno arrestato Giovanni, chiaramente sarebbero venuti anche a prendere lui: e invece Gesù non scappa, ma vede nell’arresto di colui che lo aveva battezzato l’occasione per portare l’annuncio in maniera più chiara ed evidente. Già questo è un grande insegnamento: quando ci sembra che il vangelo sia minacciato, schiacciato, condannato, proprio in quel momento il cristiano rilancia l’annuncio della buona notizia, perché il contenuto di questo Vangelo è proprio che la vita non muore ma rinasce ogni volta.   R Tutti siamo messi alla prova. D’altronde, dal nostro brano cogliamo che Gesù era stato preparato fin dall’inizio a combattere il male. Anzi, stranamente, proprio nel momento più alto, quando al battesimo lo Spirito era sceso su di lui e la voce dal cielo gli aveva detto: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (Mc 1,11), proprio allora Gesù viene messo alla prova. Il testo dice che «subito lo Spirito lo spinse nel deserto». La liturgia ha tolto l’avverbio subito che invece noi riportiamo perché dice l’atteggiamento marciano: questo avverbio, nel solo capitolo 1, ricorre undici volte e dice l’impellenza dell’annuncio del Vangelo che davvero nessuno può ostacolare e fermare. Come lo Spirito subito era sceso su di lui (Mc 1,10), ora subito spinge Gesù nel deserto, evidentemente per metterlo alla prova, come dice poi l’espressione «tentato da Satana». Non può non stupire quest’azione dello Spirito che prima esalta il Figlio e poi al versetto dopo sembra proporre l’azione contraria! In verità le due azioni sono correlate: come dice bene la tradizione sapienziale, un padre che ama un figlio lo mette alla prova, perché vuole vederlo davvero crescere e maturare. Il tema del mettere alla prova non è negativo ma al contrario dice la solidità della relazione. È così con gli amici, secondo il Siracide: «Se vuoi farti un amico, mettilo alla prova e non fidarti subito di lui» (Sir 6,7). Fa così anche Dio con il suo popolo nel deserto nei quarant’anni dell’esperienza esodica. Dt 8 dice che il Signore vi ha condotto il suo popolo per metterlo alla prova, per umiliarlo (vv. 3-4) ma poi spiega che questo è stato fatto per scoprire che cosa c’era nel cuore dell’uomo e perché quest’ultimo imparasse a vivere non solo per il cibo, come le bestie, ma di ogni Parola che esce dalla bocca di Dio. Il Deuteronomio aveva certamente il bisogno di spiegare, con l’immagine dei quarant’anni nel deserto, quell’esperienza tragica che era stata l’esilio, provocato dal peccato del popolo. In questo senso il deserto era stato anche un’esperienza di remissione dei peccati. Questo non può valere per Gesù, che non aveva peccato: ma questa indicazione allora rafforza l’importanza della messa alla prova che non è qualcosa appunto da scontare, un prezzo da pagare per rimettere un debito, ma è un esercizio che fa bene a tutti, anche a chi è già perfetto! Proprio l’essere stato messo alla prova in quei quaranta giorni ha permesso a Gesù di essere pronto nel momento dell’arresto di Giovanni: grazie al deserto che lo Spirito gli aveva fatto provare, sa come affrontare le difficoltà della vita non rinunciando ma anzi rilanciando l’annuncio del Vangelo! In questo suo sostare, Gesù si confronta con Satana, con le “fiere” del deserto e con gli angeli che lo servono. Impara così, in un ambiente ostile, a lottare con il male ma a trovare anche i suoi consolatori (gli angeli). È questa una descrizione affascinante del cristiano che deve imparare appunto a permanere in ambienti ostili (non possiamo sempre aspettare le condizioni migliori per un annuncio più bello, più efficace, più chiaro) portando avanti con coraggio la passione per il Vangelo. Imparando a sopportare le nostre prove, impariamo a non arrestarci di fronte alle difficoltà.   R La fede cresce nella prova. La fede si configura così come un’esperienza da vivere e non soltanto come una teoria; è vivendo sulla base della fede che scopriamo la potenza del Vangelo, la sua energia che ci permette di affrontare ogni tipo di prova, motivo per cui il cristiano non teme più le tentazioni, dato che certe fatiche sono più che altro delle occasioni per sperimentare ancora una volta la cura di Dio che, nella prova, non fa mancare il suo sostegno. Marco non si è espresso sul contenuto della buona notizia ma aveva cominciato così il suo testo: «Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio». Giocando sul significato della parola archḗ, potremmo comprendere che il Vangelo ha come suo principio, come sua base, Gesù Cristo: è lui stesso la buona notizia, di morte e risurrezione, che insegna ad affrontare sul suo esempio e con la sua forza ogni sfida della vita, fino a sperimentare che perfino nella morte Dio non ci abbandona mai. In questo modo, riscoprendo tutte le volte che Dio è con noi e non ci abbandona, possiamo davvero convertirci e vincere le nostre paure che ci fanno invece dubitare di lui, ci fanno pensare che non ci sia o, se esiste, sia lontano, distaccato. Non è così: egli è sempre con noi e lo è soprattutto nei momenti di prova.
     
L’unica strada
 
       Nel tempo di quaresima le letture dell’Antico Testamento sono disposte in modo da formare un itinerario che ripercorre le grandi tappe della storia della salvezza, i grandi eventi che rivelano il disegno di Dio sull’uomo. Sono la «memoria» del credente.        Il racconto dell’alleanza di Dio con Noè (cf. Gen 9, 8-15), che apre l’itinerario quaresimale, richiederebbe, per maggiore chiarezza e comprensione, la lettura dell’intera storia del diluvio (cf. Gen 6,5-9,17).        Infatti leggendo interamente il racconto del diluvio ci si accorge subito che la parola «alleanza» ritorna con frequenza: nel breve passo scelto dalla liturgia ritorna ben cinque volte. E il filo conduttore della narrazione, il filo rosso della speranza! Al centro del lungo racconto — come spartiacque tra il castigo e il perdono, la distruzione e il rinnovamento — c’è un’espressione brevissima: «Dio si ricordò di Noè» (8, 1). È questo «si ricordò» che imprime agli avvenimenti una svolta: prima la terra piena di violenza, le acque che la ricoprono e un inarrestabile ritorno al caos primitivo; dopo quel «si ricordò» tutto cambia: le acque si ritirano, riappare l’asciutto e inizia una nuova creazione. E in forza di quel «si ricordò» che tutto ritorna alla vita. E questo è forse l’insegnamento più importante di questa pagina grandiosa, certo il più consolante ma anche il più impegnativo: Dio ama il mondo ostinatamente e per sempre («Ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi», v. 15). Quali sono le caratteristiche di questa alleanza rinnovata? Colpisce, anzitutto, la sua universalità: essa è rivolta a tutta la terra (cf. v. 13) e all’intera creazione, ed è un’alleanza nuova, stipulata dopo che la terra fu ripiena di violenza, dunque un’alleanza di perdono e di misericordia. Dio non ama soltanto quel mondo «pulito» che uscì dalle sue mani; Dio continua ad amare questo mondo rovinato dagli uomini, questo mondo sfigurato che è il nostro. Lo giudica, certo, ma non lo dimentica: gli basta scorgere «un giusto» in mezzo alla malvagità dilagante, ed ecco che subito riformula la sua alleanza, e la storia della salvezza riprende con nuovo slancio. Basta un giusto come Noè (cf. Gen 6,9) per salvare l’avvenire.        Infine, l’episodio si conclude con la proclamazione del diritto sovrano di Dio sulla vita umana: essa è inviolabile, e non per volontà dell’uomo, in virtù di una legge, ma perché la vita appartiene a Dio ed è sua immagine. Dio vigila su ogni vita del mondo: «Domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno chiederò di suo fratello» (v. 5).        Sullo sfondo dell’alleanza misericordiosa e universale di Dio con Noè, si colloca il breve e denso testo evangelico (cf. Mc 1,12-15). Sono visibili due parti: la prima — il racconto della tentazione — si collega strettamente alla scena precedente del battesimo di Gesù al Giordano; la seconda introduce il ministero pubblico e contiene l’imperativo che costituisce il programma dell’intera quaresima: convertitevi!        Gesù percorre la Galilea proclamando la «lieta notizia» di Dio. La parola «vangelo» (o «lieta notizia») era conosciuta al tempo di Marco, ma egli la riempie di un contenuto nuovo. Lieta notizia non è per Marco l’annuncio di una vittoria sui barbari ai confini dell’impero, né le promesse di pace e di giustizia di un nuovo imperatore salito al trono. Lieta notizia è invece la proclamazione che la solidarietà di Dio è definitiva, stabile. Dio si è talmente avvicinato a noi da farsi uomo, nostro fratello: è entrato nella storia, coinvolto nella nostra avventura senza possibilità di pentimenti. Dio non può più tirarsi indietro. Questa solidarietà di Dio nei nostri confronti è universale: Cristo ama ogni uomo e dichiara decadute tutte le barriere. Se c’è una predilezione è per gli ultimi. L’amore di Dio è apparso in Gesù di Nazaret, che è vissuto mettendosi dalla parte degli umili. Il Vangelo non parla semplicemente di lieta notizia e di conversione. Parla prima ancora di tentazione. Vuol dirci che l’annuncio ella lieta notizia e lo sforzo della conversione sono continuamente minacciati, continuamente messi alla prova.        Il racconto della tentazione contiene tre elementi in apparenza tra loro slegati: lo Spirito spinge Gesù nel deserto; Gesù dimora nel deserto quaranta giorni, tentato da Satana; dimora in compagnia delle bestie selvatiche e gli angeli lo servono. Marco, diversamente dagli evangelisti Matteo e Luca, non racconta nulla della natura della tentazione, del suo svolgimento e del suo esito. Gli preme dirci, semplicemente, che Gesù fu tentato: senza specificare in che cosa è consistita la tentazione. Da questo punto di vista il suo racconto è incompiuto e rinvia al resto del Vangelo: per ora l’evangelista si limita a raccontare che Gesù, in risposta al battesimo, ha iniziato il ritorno al deserto, cioè un’esistenza nella quale c’è il confronto con Satana e contemporaneamente l’aiuto di Dio («gli angeli lo servivano», v. 13). Marco ha strettamente congiunto battesimo e tentazione («e subito») appunto per mostrare che lo Spirito, donato al battesimo, non separa Gesù dalla storia e dalle sue ambiguità, al contrario, colloca Gesù all’interno della storia e all’interno della lotta che in essa si svolge.        Dal seguito della narrazione evangelica non è difficile ricostruire quella tentazione che Gesù ha incontrato non soltanto nel deserto, ma lungo tutto il suo ministero, dall’inizio alla fine: percorrere la strada suggerita dalla parola di Dio oppure preferire i suggerimenti degli uomini che sembrano scorciatoie più sicure e convincenti? Se il Vangelo ricorda questo episodio della vita di Gesù non è soltanto per chiarirci le idee su di lui e sulla sua strada messianica, bensì sul cammino che noi stessi dobbiamo percorrere. Il Vangelo ci fa riflettere sulla nostra esistenza, sulle tentazioni che incontriamo e così il senso è chiaro: chi si pone alla sequela di Cristo deve sapere che incontrerà a ogni passo la tentazione. Di conseguenza occorrono lucidità e vigilanza. C’è la tentazione di far coincidere il progetto di Dio con un progetto costruito dall’uomo. C’è la tentazione di pretendere da Dio segni chiari e risolutori, dominatori (e se Dio non li compie, non è raro che siano gli uomini stessi a tentare di compierli, al suo posto). C’è, soprattutto, la tentazione di allearsi — sia nelle grandi come nelle piccole situazioni quotidiane al dominio e al potere per imporre dall’alto il regno di Dio.        Tutte queste tentazioni hanno alla radice una paura molto precisa, la paura di affidarsi completamente e unicamente alla parola di Dio, una parola che troppe volte sembra debole, non competitiva nei confronti di altre parole e di altre strade che la saggezza umana suggerisce: strade suggerite li uomini che sembrano addirittura più adatte per realizzare quella stessa missione che Cristo ha affidato ai discepoli! Si cade così nel compromesso col mondo, e questa è la tentazione.
 
Il Signore ci chiede di seguirlo fino alla fine, perché dopo la croce c’è sempre risurrezione, ci esorta a scegliere la corona dell’amore e non la corona del mondo che brilla solo nelle tenebre. Come Gesù fu tentato nel deserto anche noi siamo tentati di indossare la corona d’oro che oscura l’amore per Dio e per gli altri.
Preghiera di Roberto Laurita
 
Anche tu, Gesù, hai dovuto affrontare le tentazioni; lungo tutta la tua vita la fedeltà al Padre è stata messa a dura prova. E ti sei trovato davanti a scelte difficili in cui non era affatto spontaneo decidere di essere il Messia povero, disarmato, mite, misericordioso.   Come hai fatto a resistere alla seduzione del successo, della popolarità assicurata? Come hai fatto a rinunciare a ogni garanzia, a ogni privilegio e a metterti nelle nostre mani, a correre il rischio di essere tradito, catturato, condannato, crocifisso?   C’è un’unica spiegazione a tutto questo ed è la fiducia incrollabile che hai nei confronti del Padre, ed è l’amore che hai per l’umanità. In fondo è proprio questo il Vangelo che ci hai annunciato con tutta la tua vita.       Se Dio è in mezzo a noi e agisce dentro ogni nostra storia, non ci resta che far nostro il suo stile e convertirci all’amore che solo può trasformare questo mondo, anche se esige che ognuno si doni fino in fondo, come hai fatto tu.
Colletta
 
Dio paziente e misericordioso, che rinnovi la tua alleanza con tutte le generazioni, disponi i nostri cuori all’ascolto della tua parola, perché in questo tempo di grazia sia luce e guida verso la vera conversione.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
Amen.