Dalla Parola alla Vita
2ª domenica di Quaresima
Preghiera allo Spirito Santo di san Giovanni Paolo II   Vieni, Spirito Santo, vieni Spirito Consolatore, vieni e consola il cuore di ogni persona che piange lacrime di disperazione.   Vieni, Spirito Santo, vieni Spirito della luce, vieni e libera il cuore di ogni persona dalle tenebre del peccato.       Vieni, Spirito Santo, vieni Spirito di verità e di amore, vieni e ricolma il cuore di ogni persona che senza amore e verità non può vivere.   Vieni, Spirito Santo, vieni Spirito della vita e della gioia, vieni e dona ad ogni persona la piena comunione con Te, con il Padre e con il Figlio, nella vita e nella gioia eterna, per cui è stato creato e a cui è destinato.   Amen.  


Dal libro della Gènesi
Gen 22,1-2.9.10-13.15-18
1In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». 2Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò». 9Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna. 10Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. 11Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». 12L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito». 13Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio. 15L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta 16e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, 17io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. 18Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».
Caravaggio Sacrificio di Isacco – 1603 Uffizi di Firenze
R La legatura di Isacco. Il brano di Gen 22 è il famoso racconto del sacrificio d’Isacco. Così almeno è conosciuto nella tradizione cristiana, ma il titolo usato dagli ebrei è un po’ diverso. Nella tradizione ebraica il testo è noto come la legatura d’Isacco. Qualcuno potrebbe ritenere superficiale questa differenza, e invece è molto interessante: l’idea alla base di questo titolo è che Isacco si è lasciato legare. Il padre Abramo era un vegliardo ormai vecchio: ha avuto il figlio a cent’anni. Il brano comincia dicendo semplicemente «dopo queste cose», non chiarendo l’arco temporale intercorso. Isacco, per quanto piccolo, è in grado di portare della legna sulle spalle (Gen 22,6), quindi sembra un giovane forte: come avrebbe potuto un uomo di 115 anni circa legare un giovane adolescente se quest’ultimo non fosse stato d’accordo? Se il padre ha potuto provare a sacrificare il figlio è perché costui si è consegnato! Ci sarebbe stato perfetto accordo tra Abramo e Isacco, come testimonia il brano dove tra i due c’è un continuo scambio di consensi e approvazione («O padre mio… Sì, figlio mio…»). Questa chiave di lettura è importante per noi cristiani, perché ci mostra l’atteggiamento di Gesù che non è contro quello del Padre. Se pensiamo soprattutto al Vangelo di Giovanni, il Figlio continua a ribadire di essere totalmente obbediente a colui che lo ha mandato. Il Figlio ha deciso di abbracciare il progetto di amore di Dio, la croce e il suo sacrificio sono cose note fin dall’inizio del percorso e il Figlio non si oppone, anzi, fa suo questo progetto. È sulla base di questo modello che possiamo comprendere in maniera corretta anche il sacrificio di Gesù Cristo. Invece spesso l’arte pittorica ha rappresentato un vigoroso Abramo pronto a uccidere un giovane fanciullo. In effetti, il brano ha qualcosa di scandaloso, motivo per cui alcuni critici ritengono che Dio non possa aver chiesto una cosa così assurda come il sacrificio del figlio. Dio è il Dio della vita, come può chiedere la morte di Isacco? Il tema sacrificale è per noi moderni di difficile comprensione. E certamente la Bibbia è contro i sacrifici umani e in particolare i sacrifici di bambini. La tradizione ebraica spiega questa incongruenza dicendo che Dio avrebbe semplicemente chiesto di far salire Isacco, richiesta che Abramo avrebbe inteso male decidendo di fare un olocausto (espressione che in ebraico è legata appunto al verbo salire). Questa lettura però ci sembra in qualche modo una semplificazione, che ha certamente dei vantaggi, ma potrebbe annullare il tema sacrificale, fondamentale per capire la grandezza del gesto di un padre che è pronto a dare tutto per amore, come nel caso di Dio Padre che sarebbe disposto a dare perfino il Figlio per amore dell’umanità.   R Il sacrificio della fede. Ci sembra dunque che convenga leggere il testo per quello che esso propone: la richiesta del sacrificio è presente, per quanto paradossale. E Abramo non si sottrae ad essa. Il testo dice che camminò per tre giorni verso il monte Moria. Ogni lettore è chiaramente invitato a immaginare i suoi pensieri, terribili, la sua lotta interiore: da un lato procede verso l’esecuzione dell’ordine chiesto da Dio, dall’altra parte il desiderio di fermare tutto, di tornare indietro e salvare così Isacco. Chiaramente il testo ha un intento drammatico, e questo ci sembra il punto chiave: alla fine Gen 22 non raccomanda i sacrifici umani (che alla fine Dio non vuole) ma chiede il sacrificio della fede, un atto totalmente libero, disinteressato. La fede o è per nulla o non è fede. Abramo avrà creduto finora solo per la promessa del figlio? Questa è la domanda sottesa al brano. E se questo figlio, tanto atteso, alla fine invece venisse tolto? L’assolutezza della fede è la posta in gioco di questo testo, così terribile ma anche così profondo. Certo che la fede è una cosa bella, una relazione che dona una pienezza garantita dalle promesse di Dio. Ma crediamo a Dio per Dio o per la garanzia che ci offre? E se queste garanzie non ci fossero più? La fede di Abramo insegna a credere in Dio per nulla e così anche Gesù. Se giunge fino al sacrificio della croce è perché non dubita che anche da una situazione così tragica Dio verrà a salvarlo.
      Orazio Gentileschi Il sacrificio di Isacco – 1615 Galleria Nazionale della Liguria di Palazzo Spinola    
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Rm 8,31-34
Fratelli, 31se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, 32che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? 33Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! 34Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!
 
R Al centro: Cristo. Il capitolo 8 di Romani è forse il vertice della teologia paolina, il punto più alto della lettera, quello in cui Paolo afferma l’assolutezza della fede: se si crede nel Dio di Gesù Cristo, si ha tutto. «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?» è una grande frase che riassume tutta la tradizione biblica. Infatti, anche nel Primo testamento il grande profeta Isaia parlava dell’Emmanuele che significa «Dio è con noi» (Is 7,14) indicando che con lui la salvezza sarebbe arrivata anche nei momenti più oscuri e tragici (9,1). La novità paolina consiste ovviamente nell’evento di Gesù Cristo, che Paolo legge come la più grande dimostrazione dell’amore di Dio. In Cristo è stato vinto il male antico, la caducità del mondo è risolta in Cristo. In Cristo Dio ha compiuto quello che da sempre voleva, cioè renderci come lui. Questo era il senso della Legge, come dicono diversi capitoli di Levitico: «Siate santi, come io sono santo». Il serpente antico invece aveva infuso in noi il dubbio contrario, che Dio ci volesse solo come schiavi, come subordinati, e l’inganno è proprio quello di pensare di poter diventare come Dio “rubando” questa identità con la propria bramosia, afferrando qualcosa di magico che in un istante ci trasformi (Gen 3). La fede però non è magia: Dio ci vuole come lui, ma questo avviene appunto nella giustizia, nell’amore, nella fedeltà, perché è vivendo come lui, che è amore e giustizia, che diventiamo come lui.   R Solo Dio dona salvezza. La Legge ha potuto soltanto mostrare il peccato, non era uno strumento in grado di vincerlo. L’osservanza di alcuni era al massimo uno strumento di giudizio contro altri: in questa maniera però non si creava un mondo di giustizia ma di condanna. L’unica salvezza viene appunto dallo Spirito di adozione che, in Cristo, Dio ha trasmesso all’umanità. Con il sacrificio del Figlio, Dio dona a tutti la possibilità di rinunciare alla vita precedente per entrare in una vita nuova, da figli di Dio. Non per meriti nostri, ma perché resi giusti (appunto giustificati nella terminologia paolina) da Gesù Cristo. Questo è quanto afferma la nostra seconda lettura quando definisce Dio come colui che giustifica: solo lui, vero giudice, poteva intervenire, ma ha rinunciato a eseguire una sentenza e in Gesù ha mostrato il suo amore. L’unico giusto ha preferito mostrare che il vero volto della giustizia è l’amore e l’ha mostrato morendo per noi quando ancora eravamo peccatori (Rm 5,6-8). Così facendo ci ha liberato dal gioco di schiavitù per darci invece uno statuto diverso, da figli. E questo è reso possibile dallo Spirito, che Cristo, dalla croce, ha effuso su tutti coloro che credono in lui. Dice infatti Rm 8,15: «E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”». La nostra trasformazione non è allora nominalistica, non è solo un’etichetta diversa da altre: il cambiamento è radicale, fin nel nostro intimo. In Gesù scopriamo la vera identità di Dio, una forza d’amore che per la nostra salvezza darebbe tutto, perfino il figlio primogenito. La frase «non ha risparmiato il figlio» presente nella nostra lettura ovviamente non può non far pensare al gesto di Abramo, pronto a dare Isacco a Dio se questo glielo avesse chiesto. Ma se è pronto a tanto, è perché, nella fede, aveva già intuito che Dio è amore e avrebbe fatto lo stesso per noi, come poi ha evidenziato nella vicenda storica di Gesù. Nasce allora dentro di noi un gemito: sappiamo di poterci rivolgere a lui con tutto noi stessi, anche nei momenti più disperati. Come ha fatto Gesù: anch’egli nel Getsemani si rivolge con questa espressione aramaica: «Abbà! Padre!». Capiamo che il termine «Abba» non è riducibile a un banale «papà», ma è il grido dell’uomo maturo e sofferente che sa però di non essere solo anche quando apparentemente tutti lo hanno abbandonato. Il legame con Dio è come quello con un padre, è un legame originario, per sempre, non può venir meno neanche nella disperazione più nera. Scoprire questo legame vuol dire davvero non aver più paura di nulla perché nulla ci potrà più separare dall’amore di Dio, che in Cristo si è dimostrato assoluto.
 
X Dal Vangelo secondo Marco
Mc 9,2-10
In quel tempo, 2Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro 3e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. 4E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. 5Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». 6Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. 7Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». 8E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. 9Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. 10Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.
 
Nel brano della Trasfigurazione i discepoli vengono introdotti in questo misterioso disegno divino: sentono dire da Dio che Gesù è il Figlio amato dal Padre. Questa stessa voce era all’inizio del vangelo: «Venne una voce dal cielo: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento”» (Mc 1,11). L’evangelista ha dunque legato da sempre la figura di Gesù, figlio, con quella del Servo di Isaia, che inizia proprio affermando che di questo Servo Dio si compiace (Is42,1) perché è perfettamente obbediente e perché porterà a compimento la missione affidatagli da Dio Padre. Tra il Padre e il Figlio c’è quindi perfetta sintonia, come tra Abramo e Isacco: anzi, ancor più che nella storia patriarcale, Dio sacrificherà veramente il Figlio dimostrando un amore enorme, tale da dare la cosa che ha di più caro per salvare l’umanità.   R Rimando e compimento. Il brano della Trasfigurazione è dunque un testo che vuole introdurre i discepoli in questo mistero d’amore. Per questo il racconto è denso di riferimenti al Primo testamento. Per tutti gli ebrei, fondamentale è il racconto di Esodo in cui Mosè sale sul monte e riceve le tavole della Legge: lì sul Sinai Dio incontra l’umanità e insegna la sua volontà di giustizia, che permetterebbe di vivere in pace tra gli uomini e con Dio. L’evangelista Marco richiama questa scena solenne non solo con il riferimento alla salita sul monte, ma anche con i richiami alla nube (che sul Sinai simboleggiava la gloria di Dio che avvolgeva la montagna) e alla voce di Dio che interviene. Inoltre, Gesù si confronta con Mosè (che rappresenta la Tôrâ, la Legge, la parte più sacra della Bibbia) e con Elia (che sintetizza la seconda parte del testo biblico, ossia i profeti). In pratica, in Gesù si trovano condensate tutte le esperienze del Primo testamento e anzi il suo essere trasfigurato dice un superamento: Mosè ed Elia non parlano ai discepoli, perché ormai la rivelazione di Dio passa direttamente attraverso il Figlio. Qui ci interessa sottolineare che la Legge, la giustizia di Dio, tutti gli antichi insegnamenti hanno come unico vertice e compimento il sacrificio di Gesù, che in Marco viene definito «Figlio dell’uomo». La vera Trasfigurazione si vedrà sul volto del Crocifisso: per la sua totale capacità di donarsi, per il suo non giudicare e non condannare, Gesù è il figlio prediletto. La voce di Dio interviene proprio per dirci che lui è il Figlio amato, proprio come amato era Isacco per suo padre Abramo. Eppure, come Abramo è stato disposto a sacrificare il suo unico figlio, anche Dio insegna che per amore degli uomini sarebbe pronto a dare tutto quello che ha, ciò che ha di più caro, il figlio unigenito.   R Incomprensione e paradosso. Questo messaggio bello e intenso è però misterioso, come mostra l’incomprensione di Pietro che in questo brano cerca di dire la sua ma sbaglia i riferimenti fondamentali: chiama Gesù solo maestro, mettendolo sullo stesso piano con Mosè e Elia, assegnando a ciascuno una tenda. Inoltre, questa visione non è una grazia da trattenere per sé: la salita al monte è in funzione dell’annuncio, dello scendere per proclamare a tutti che la gloria di Dio si manifesta sul Golgota più che sul Sinai. Dio dona se stesso per l’umanità, dimostrando così la sua giustizia misericordiosa, nella quale saranno benedetti tutte le donne e tutti gli uomini della Terra (compiendo in modo ancor più superlativo la benedizione annunciata ad Abramo nel Primo testamento). L’incomprensione di Pietro non è però l’unica del brano. Questa prima gaffe a proposito delle tende è solo introduttiva all’altra questione, decisamente più importante, che è quella della risurrezione. In realtà, il capitolo 9 di Marco viene subito dopo il primo grande annuncio della passione di Mc 8,31, seguito dal famoso rimprovero a Pietro: «Vade retro Satana» (Mc 8,33). Al centro del mistero di Cristo c’è l’evento pasquale. Dio ci ha salvato non con un evento di gloria, con una manifestazione di potenza, ma con la morte del Figlio. È questo il centro dell’annuncio cristiano ed è il mistero con il quale ogni credente deve confrontarsi. Il cristianesimo nasce in verità quando in quella morte i primi cristiani hanno riconosciuto qualcosa di grande. Certamente, senza aver visto la vita di Gesù non avrebbero potuto comprendere il gesto della sua morte, ma è vero che fin quando non l’hanno visto morire non avevano veramente compreso chi fosse e quale fosse l’importanza che egli rivestiva per il mondo intero. Finché sono stati i semplici seguaci di uno dei tanti predicatori della storia non sono stati ancora vera Chiesa: questa nasce nel momento in cui annuncia non un uomo che fa molti miracoli e predica con magnifiche parabole, ma il fatto che Dio muoia per noi. Che la salvezza passi attraverso la croce è la grande sfida con la quale l’uomo sempre si confronta e alla quale in fondo sempre si oppone. In effetti, giustamente l’uomo cerca la vita e la fede certamente non è una via al dolorismo, alla sofferenza. Eppure, la vita è piena solo quando giunge al dono di sé per gli altri.   R Vita dalla morte. Che cosa fosse la risurrezione dei morti doveva essere ben noto a degli uomini del I secolo: quando il testo dichiara la loro ignoranza riguardo a questo tema significa che attendevano la salvezza in una maniera gloriosa, che non contemplasse la morte. Non a caso, questo brano di vangelo era stato introdotto da Mc 9,1 che la liturgia non riporta ma in cui Gesù dichiara: «Vi sono alcuni, qui presenti, che non morranno prima di aver visto giungere il regno di Dio nella sua potenza». Il testo della Trasfigurazione in tutti i vangeli sinottici è stato posto dopo un versetto come questo. I primi cristiani (e anche Paolo testimonia questo) pensavano di non morire: attendevano una parusía imminente e credevano che la fede portasse una vittoria sulla morte già al presente. Il testo della Trasfigurazione mostra invece che la promessa di vedere il regno di Dio venire in potenza non si riferiva alla parusía ma appunto a questo privilegio di aver assistito alla Trasfigurazione del Signore. In conclusione, la fede non evita la morte ai credenti, come non lo è stato per Gesù. Certo che chi crede in Cristo ha già la vita eterna: Giovanni lo dice in più passaggi e soprattutto lo afferma in Gv 14,6 definendo Gesù «via, verità e vita». Questa vita però si ottiene non evitando la morte ma attraversandola. Questo è il mistero di morte e risurrezione: credere nella risurrezione vuol dire saper vivere la propria vita senza paura di donarla, sapendo che il senso della vita è l’amore e proprio per questo non temiamo di spenderla per gli altri. Con il suo sacrificio, Cristo insegna a dare tutto e questi annunci sono posti proprio a cornice del nostro brano sulla trasfigurazione. In questo cammino di Quaresima la Trasfigurazione ci insegna dunque a indirizzarci in maniera corretta verso la gloria di Dio, che non sta in grandi visioni celesti ma nel contemplare il Figlio dell’uomo che soffre per noi. Sul suo esempio, i cristiani possono imparare a sfidare il male senza paura di soffrire per questo loro dono d’amore che non è una sconfitta o un perdersi inutile ma è essere già partecipi della vittoria di Cristo. Questa si è compiuta ed è già ora efficace: si realizza ogni volta che qualcuno sa soffrire o morire per un fratello o una sorella.
Raffaello – Giulio Romano Trasfigurazione – 1518-1520 Pinacoteca Vaticana
L’autentico credente
 
      Non è possibile trascurare la pagina tratta dal libro della Genesi: è troppo importante in quanto illustra il tema di fondo, continuamente ripetuto, della fede, e senza di essa anche l’episodio evangelico della trasfigurazione perderebbe molto del suo vigore.       In tutta la tradizione biblica Abramo è considerato il simbolo della fede, la figura dell’autentico credente. Il Signore si rivolse a lui con un ordine e una promessa: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò» (Gen 12, 1-2). Con questo messaggio — che esige obbedienza e fiducia (le due componenti della fede) — Dio si inserisce nella vita di Abramo e la spezza in due: spinge Abramo a una scelta radicale e senza compromessi, senza nostalgie; vuole un cambiamento di esistenza, vuole che Abramo lasci le proprie umane sicurezze e cammini appoggiandosi unicamente alla parola del suo Dio. Tutto questo è la fede. Tuttavia la fede non è una scelta che si pone una volta per tutte, è sempre in movimento ed è sempre provata. Gli anni passano, i figli non vengono, le promesse di Dio, quelle promesse per le quali si è tutto rischiato, sembrano sempre più allontanarsi. Dio non ha fretta di mantenere le promesse: sembra continuamente differirle. Il sacrificio di Isacco ci svela il centro della storia di Abramo, ma anche — come si può intuire — il centro della fede del popolo di Dio e di ogni vero credente.       In questo racconto (cf. Gen 22,1-2.9a.10-13.15-18) molti sono gli aspetti da osservare. Anzitutto l’«eccomi» con cui Abramo risponde alla voce di Dio: un «eccomi» che apre (v. 1) e chiude (v. 1 1) la narrazione. La statura morale di Abramo è tutta riassunta in questo «eccomi»: la sua pronta obbedienza e la sua fede illimitata. Poi la ripetuta sottolineatura che Isacco era l’unico figlio (cf. vv. 2.12), «il figlio che ami» (v. 2). Il ragazzo porta la legna lungo il viaggio, ma gli oggetti più pericolosi — il coltello e il braciere del fuoco — li porta il padre. Tanto attento e premuroso è l’uomo che si accinge a perdere il figlio! E il colloquio carico di tenerezza: «Padre mio […] Eccomi, figlio mio!». E la risposta del padre alla domanda del ragazzo, che non è una pietosa bugia, ma la verità: «Dio stesso si provvederà l’agnello» (v. 8), esprime il completo abbandono di Abramo, come se dicesse: «Lasciamo fare al Signore!». Un abbandono che gli fa dire una cosa più vera di quanto egli stesso, in quel momento, era in grado di comprendere: un’inconsapevole profezia che puntualmente e felicemente si realizzerà, ma alla fine, dopo essere passato sino in fondo attraverso la prova, «Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio» (v. 13). Non soltanto, dunque, Dio sembra non affrettarsi a mantenere la promessa, ma addirittura sembra smentirla: ha promesso ad Abramo una numerosa discendenza, ora gli chiede l’unico figlio. È un Dio misterioso. La sua salvezza è oltre gli schemi dell’uomo e le sue vie non sono le nostre: è questa la lezione che scaturisce dall’episodio e che Israele deve continuamente meditare. Israele ricordi che in simili situazioni, per esempio l’esilio, nelle quali Dio pare contraddirsi sino a un limite insopportabile (ha promesso ad Abramo una discendenza e gli chiede l’unico figlio, ha promesso al popolo una patria e ora lo disperde in terra straniera), in realtà compie le sue promesse in modo inatteso. Si tratta di prove, grazie alle quali il Signore saggia la fede. È in questo senso che la storia di Abramo contiene una lezione per i credenti di tutti i tempi. La vicenda del primo patriarca mostra dunque il dato più profondo e sconcertante della fedeltà di Dio: Dio è fedele ma la sua fedeltà riguarda progetti più ampi dei nostri. In questo senso l’esperienza di Abramo prepara in profondità lo «scandalo» della croce: una via che si direbbe segno dell’abbandono di Dio, e che invece è il segno della sua fedeltà e del suo amore.       Il racconto evangelico (cf. Mc 9,2-10) riprende e approfondisce la prospettiva tratteggiata nella storia di Abramo. La trasfigurazione ha uno scopo preciso: rivelare ai discepoli disorientati il senso profondo e nascosto della croce di Cristo. I discepoli hanno capito che Gesù è il Messia e si sono persuasi che la sua strada conduce alla croce, ma non riescono a comprendere che la croce nasconde la gloria. Per questo hanno bisogno di un’esperienza, sia pure fugace e provvisoria, hanno bisogno che il velo si sollevi. E questo il significato della trasfigurazione nell’itinerario di fede del discepolo: è una verifica. Dio concede ai discepoli, per un istante, di contemplare la gloria del Figlio, di anticipare la Pasqua, di comprendere che la strada di Dio non è chiusa ma aperta.       Nel cammino della fede non mancano momenti chiari, gioiosi, all’interno della fatica dell’esistenza cristiana. Occorre saperli scorgere e saperli leggere, senza però dimenticare che il loro carattere è fugace e provvisorio: la strada continua a essere quella della croce. Il discepolo deve sapersi accontentare, di queste esperienze ne devono bastare poche e brevi. Pietro desiderava prolungare all’infinito quell’improvvisa e chiara visione: «Facciamo tre capanne» (v. 5). E un desiderio che manifesta un’incomprensione dell’avvenimento, che non è l’inizio del definitivo, non è ancora la meta, ma solo l’anticipo profetico di essa. Al discepolo viene offerta una verifica, una caparra: poi bisogna fargli credito, senza limiti. C’è anche un altro aspetto su cui riflettere: il comando «ascoltatelo!» (v. 7). L’ascolto è ciò che definisce il discepolo. La sua ambizione non è quella di essere originale, ma di essere servo della verità, in posizione di ascolto. L’ascolto è fatto di obbedienza, conversione e speranza. Richiede non solo intelligenza per comprendere, ma coraggio per decidersi: quella che ascolti è infatti una parola che ti coinvolge e ti strappa a te stesso.
 
Gesù si trasfigurò sul Tabor, sulla croce e nella risurrezione, così ogni cristiano diventa immagine di Dio nella gioia, nel sacrificio e per la vita eterna.
Preghiera di Roberto Laurita
 
Signore Gesù, quel giorno, sulla montagna, tu hai voluto offrire ai tre discepoli un anticipo della tua gloria e hanno visto risplendere sul tuo volto, sulla tua persona, sulle tue vesti, la bellezza straordinaria di Dio.   Quel giorno, sulla montagna, hanno visto accanto a te il profeta Elia, interamente afferrato dall’amore per l’unico Dio, e Mosè, la guida che ha condotto Israele fuori dall’Egitto, verso la libertà.   Quel giorno, sulla montagna, hanno udito la voce del Padre che invitava a riconoscere in te il figlio amato, e ad ascoltarti. E tu hai chiesto loro di tacere fino al giorno della tua risurrezione.   Signore Gesù, anch’io ho bisogno di salire ogni tanto sulla montagna, di essere rincuorato e consolato per riprendere il cammino che passa per il Calvario e partecipare così alla risurrezione.

Colletta
 
O Dio, Padre buono, che hai tanto amato il mondo da dare il tuo Figlio, rendici saldi nella fede, perché, seguendo in tutto le sue orme, siamo con lui trasfigurati nello splendore della tua luce.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
Amen.