Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi |
1Cor 7,32-35 |
Fratelli, 32io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; 33chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, 34e si trova diviso! Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito. 35Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni. |
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Nella seconda lettura, Paolo, senza sminuire in alcun modo il valore del matrimonio cristiano, riconosce tuttavia che la condizione di chi rimane vergine per Gesù Cristo è particolarmente favorevole, perché può vivere una relazione con il Signore esclusiva e totalizzante. Questa considerazione iniziale è ancora più chiara a partire dal v. 35: Paolo espone la sua preferenza per la vita della persona vergine consacrata al Signore, per ricavare un bene («Lo dico per il vostro bene») e non tanto per imporre un peso insopportabile («non per gettarvi un laccio»); lo scopo delle sue parole è quindi chiaro, letteralmente suonano così: «per il buon ordine e la (vostra) costante presenza davanti a Dio, in maniera da non avere distrazioni» (v. 35). Ogni cristiano, celibe o coniugato, è chiamato ad avere un rapporto stabile e costante con Dio, combattendo le distrazioni che lo allontanano da lui. Per questo motivo, la condizione di vita del celibe è favorita, egli può preoccuparsi ed avere cura (per il greco merimnáō, cf. 1 Cor 12,25; Fil 2,20) solo di piacere a Dio. Al contrario, la situazione delle persone sposate può essere più sfavorevole, perché esse sono «divise» (v. 33) hanno due “amori” che muovono il loro interesse, Dio e il marito (o la moglie), possono allontanarsi da Dio con maggiore facilità. Quindi, insistendo sulla condizione speciale di chi si dedica specialmente alle cose del Signore, Paolo offre un’indicazione per tutti i cristiani che fa eco a quanto detto nella prima lettura: ogni fedele è chiamato alla santità (v. 34) e questa si realizza grazie al legame con Dio. |
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X Dal Vangelo secondo Marco |
Mc 1,21-28 |
In quel tempo, 21Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafàrnao,] insegnava. 22Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. 23Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: 24«Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». 25E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». 26E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. 27Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!». 28La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea. |
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Il primo capitolo del Vangelo di Marco descrive una “giornata tipo” di Gesù a Cafarnao, dalla mattina sino al tramonto del sole. Cafarnao è il villaggio in cui Gesù viene accolto in casa da Pietro. Il nome di questa località è piuttosto significativo, perché si può tradurre sia «villaggio della consolazione (naḥum)» che «villaggio della bellezza (na’um)». Il destino di Cafarnao, quindi, si compie in Gesù Cristo, vero consolatore (Is 40,1), il più bello dei figli dell’uomo (Sal 45,3); è lui che porta una Parola capace di lenire il dolore e donare consolazione. ► Il sabato. Gesù non passa per Cafarnao in un giorno qualsiasi, ma di sabato. Il sabato è un dono straordinario che Dio ha fatto a Israele (Es 20,8-11), un giorno consacrato a Dio, in cui si fa memoria della creazione (Gen 2,1-4) e della Pasqua (Dt 5,15). Interrompendo ogni lavoro (Es 35,3), il fedele manifesta con un segno materiale la sua fede in Dio: ogni opera umana può cessare per un giorno perché «se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori» (Sal 127,1). La tradizione ebraica ricorda che il sabato viene accolto con l’accensione delle candele (Mishnah, Šabbat, 2) e per questo motivo non stupisce il versetto recitato nell’Alleluja: «Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce» (Mt 4,16); Gesù entra nella sinagoga portando la vera luce. Inoltre, mentre gli altri giorni della settimana sono associati in coppia, lo šabbat è l’unico ad essere solo; per questo esso è simile a una sposa che attende il suo sposo, il Messia (Talmud Babilonese, Šabbat, 119a). Gesù si presenta nella sinagoga di sabato, compiendo questa attesa. ► L’insegnamento. Nella sinagoga Gesù Cristo insegna (la radice didáskō è ripetuta tre volte nei vv. 21-22), vale a dire compie una delle sue attività principali. La missione di Gesù è quindi qualificata come un ministero della Parola, attraverso il quale si illumina la mente degli ascoltatori e li si introduce alla vera sapienza. La parola di Gesù, tuttavia, non è solo una comunicazione di informazioni, ma si presenta come un’azione efficace: «Insegnava loro come uno che ha autorità» (v. 22). Il termine exusía, tradotto «autorità», ha una vasta gamma di significati: indica anzitutto la capacità, il potere (Gv 10,18), ma anche il governo effettivo (Sir 10,4; Dn 3,100); questo tipo di potere è esercitato con la parola e per questo il termine «autorità» può indicare anche l’atto linguistico che realizza quanto enuncia, la Parola che è capace di avere un effetto concreto nella realtà (Mt 9,6-8; cf. At 8,19). ► Lo spirito impuro. Un uomo che aveva uno «spirito impuro» (Zc 13,2) comincia quindi a gridare. L’impurità è la condizione di chi non può avvicinarsi al sacro e quindi entrare in contatto con la santità di Dio (Lv 10,10); lo stato di impurità si contrae spesso attraverso il contatto con l’ambito del morire (Lv 15,31; Nm 19,13.18-19; 2 Re 5,7-15): diventare impuri significa in qualche modo essere segnati dalla morte. Il demonio che abita nell’uomo si manifesta con un grido scomposto: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il Santo di Dio». La prima domanda riporta un modo di esprimersi semitico e si dovrebbe tradurre: «che c’è tra noi e te?» (2 Sam 16,10; 1 Re 17,18); con essa si esprime un forte distacco tra le persone. La seconda domanda, invece, è capziosa e si fonda su una menzogna: Gesù non è venuto per «rovinare», ma per salvare e dare la vita; i verbi apóllymi, «perdere, rovinare» (usato qui), e sózō, «salvare», infatti, sono esplicitamente considerati come contrari (Mt 8,25; Lc 6,9). L’appellativo «Santo di Dio», quindi, è usato dallo spirito impuro per esaltare ancora di più il distacco e la distanza di Dio dall’uomo (Lv 11,44-45), senza riconosce-re che Dio è santo perché ama il peccatore (Os 11,9); la santità di Dio si manifesta perfettamente in Gesù Cristo, il quale si avvicina agli uomini proprio perché non vuole che nessuno sia perduto (cf. apóllymi in Gv 3,16; 10,28; 17,12). ► Taci! (v. 25). Gesù non si limita a rispondere, ma rimprovera con autorità lo spirito impuro (epitímēsen, cf. Zc 3,2; Mc 8,32-33), senza entrare in dialogo, ma costringendolo a tacere. La tradizione cristiana ha collegato questo atteggiamento di Gesù Cristo al consiglio saggio di far tacere i pensieri che provengono dal maligno: «Nelle tentazioni Gesù non dialoga mai con il diavolo» (papa Francesco, Angelus, 21 febbraio 2021). Dopo questo segno, la gente rimane stupita e confusa di fronte alla straordinaria autorità di Gesù (v. 27: «un insegnamento nuovo, dato con autorità»). In ambiente ebraico si praticavano gli esorcismi (vi sono alcune attestazioni anche a Qumran), ma il rituale prevedeva che l’esorcista fondasse la propria azione sul nome di Dio e non su di sé. Al contrario Gesù si rivolge allo spirito impuro in maniera diretta manifestando così la forza della sua Parola sulle tentazioni e sulle forze che tengono l’uomo prigioniero. |
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Il vero profeta è scomodo e paga di persona |
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Il passo tratto dal libro del Deuteronomio (cf. 18,15-20) è preceduto da un avvertimento e si concentra su una promessa fondamentale. L’avvertimento, contenuto nei versetti che precedono il brano liturgico, mette in guardia dal pericolo dell’idolatria: «Non imparerai a commettere gli abomini di quelle nazioni» (18,9). Poco più avanti, la promessa: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me» (v. 15). Con pratiche di ogni genere i popoli pagani si sforzavano di trovare la volontà di Dio o di influire sugli avvenimenti orientandoli a proprio favore. Chi fa «queste cose è in abominio al Signore» (18, 12), Israele non deve battere queste strade. «Tu sarai irreprensibile verso il Signore, tuo Dio» (18,13): con questa frase tutto il divinatorio che popoli e religioni avevano accumulato, è cancellato con un gesto di mano, maghi e indovini, astrologia, divinazioni, superstizioni di ogni genere. Israele deve solo stare in ascolto della parola del Signore. Il popolo di Dio non ha bisogno di maghi e di indovini, perché ha già i suoi profeti, uomini autorizzati a parlare a nome di Dio e che perciò vanno ascoltati. Tuttavia occorre anche vigilare e discernere, perché falsi profeti non sono soltanto i maghi e gli indovini pagani: Falsi profeti possono sorgere anche nel popolo di Dio, lupi in veste di agnello, come si legge nel Vangelo (cf. Mt 7,15). E come distinguere il vero dal falso profeta, la vera parola di Dio dalla parola dell’uomo? È appunto su questo inquietante interrogativo che si chiude l’esortazione di Mosè. Si tratta, in sostanza, di individuare le caratteristiche del vero profeta e il testo ne indica esplicitamente una: «Quando il profeta parlerà in nome del Signore e la cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l’ha detta il Signore» (18,22). La parola di Dio è vera, efficace, e mantiene ciò che promette. È un criterio che anche Gesù ha a modo suo sottolineato: «Dai frutti conoscerete l’albero» (cf. Mt 7, 16-20). Non dalle parole, ma dai frutti che le parole producono. E questo significa che non sempre si riesce subito a distinguere il vero dal falso profeta: occorre lasciar passare del tempo, serve pazienza, è necessario aspettare che le parole diano il loro frutto, occorre vedere le conseguenze che ne derivano. Una seconda caratteristica, che nella pagina di Dt è implicitamente presente, sono l’obbedienza e la fedeltà. Il vero profeta non «si permette» di dire cose sue, né cose che la gente desidera. Dice solo le cose di Dio, e ha il coraggio e il disinteresse della impopolarità. Il falso profeta invece dice cose gradite, può persino fare prodigi, ma ciò che lo smaschera sempre, in definitiva, è il fatto che attira l’attenzione su di sé e devia il popolo dall’essere «tutto con il Signore». E infine una terza caratteristica, o meglio un gruppo di caratteristiche, che il brano riassume dicendoci e il vero profeta è «come Mosè»: «Il Signore, Dio tuo, susciterà un profeta pari a me» (v. 15). Mosè non ha soltanto parlato, ma ha vissuto: la sua mediazione fra Dio e il popolo non fu solo una mediazione di parole, ma una mediazione nella vita, nell’esempio e nella sofferenza. Mosè ha preso su di sé il destino del popolo. In questo senso ampio Mosè è una prefigurazione di Gesù, il profeta ultimo e definitivo, prospettiva nella quale è possibile leggere il racconto evangelico (cf. Mc 1,21-28). Nella sinagoga di Cafarnao Gesù insegna e la sua parola sorprende perché autorevole, nuova, diversa dalle altre parole («non come gli scribi», v. 22). «Nuova» non significa semplicemente qualcosa di mai detto prima o mai sentito altrove. Non è semplicemente una novità cronologica, nella parola di Gesù si avverte la presenza della novità di Dio, la novità qualitativa: qualcosa che rigenera, rinnova e ringiovanisce. La parola di Dio che risuona nell’insegnamento di Gesù è nuova, sorprendente, inaspettata, anche se — dopo che l’hai sentita — comprendi che era proprio la parola che andavi cercando, magari senza saperlo. L’insegnamento degli scribi (erano i teologi biblisti e i giuristi dell’epoca) mutuava la propria autorità dalle Scritture e dalla tradizione degli antichi, oppure si faceva accettare rimandando all’autorità di un celebre maestro. Non così la parola di Gesù: una parola che ha in sé la sua forza, chiara, trasparente e pone di fronte alle contraddizioni: un’evidenza che penetra e colpisce. Non rimanda ad altro. Di fronte ad essa non si può rimanere neutrali, si è costretti a prendere posizione. Oltre che all’insegnamento di Gesù, l’evangelista è interessato alla sua potenza: Gesù libera l’uomo dalle forze del male. Mentre Gesù insegna, ecco un uomo che dà in escandescenze durante il servizio liturgico. Gesù lo mette a tacere, seccamente: «Taci! Esci da lui» (v. 25). Lo spirito del male è costretto a obbedire e l’uomo, liberato dal maligno, è ridonato a se stesso. Gesù invece, diversamente dalla prassi del tempo, non fa uso di parole magiche e riti misteriosi, ma si impone allo spirito impuro semplicemente con un suo comando. Nel racconto si nota l’atmosfera di una lotta: l’indemoniato si rivolge a Gesù con un atteggiamento di difesa (avverte che è arrivato colui che lo sconfigge) e cerca, se possibile, di passare all’attacco ma poi deve cedere al più forte sia pure con un’ultima manifestazione di rabbia e di dispetto («straziandolo e gridando forte, uscì da lui», v. 26). Tutto questo vuol significare che il male è duro da vincere. A questo punto tre semplici osservazioni. La prima: l’uomo biblico è dell’opinione che le vicende del mondo e della storia non si spiegano se teniamo unicamente conto della forza della natura, dell’uomo e di Dio: c’è anche la forza del maligno. Il male non viene solo dall’uomo, ma dietro le diverse manifestazioni del male sta il nemico per eccellenza, il nemico di Dio e della creazione: Satana. In secondo luogo, il nostro episodio non deve essere visto semplicemente come un singolo caso, accaduto un tempo, quanto piuttosto come il simbolo della nostra situazione comune di uomini decaduti, in balia delle forze del male e incapaci di entrare in comunione con Dio. Solo la parola di Cristo è in grado di liberarci. Infine, non si dimentichi che il maligno è presente nel cuore di ciascuno e le forme in cui si esprime sono molteplici (come si legge in Mc 8,33: «Egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini»). Una delle espressioni di Satana è dunque «il buonsenso» di certi ragionamenti umani! |