Dalla Parola alla Vita
5ª domenica del Tempo Ordinario
Preghiera allo Spirito Santo di san Paolo VI   Vieni, o Spirito Santo e donami un cuore puro, pronto ad amare Cristo Signore con la pienezza, la profondità e la gioia che Tu solo sai infondere.   Donami un cuore puro, come quello di un fanciullo che non conosce il male se non per combatterlo e fuggirlo.   Vieni, o Spirito Santo e donami un cuore grande, aperto alla tua Parola ispiratrice e chiuso ad ogni meschina ambizione.   Donami un cuore grande, forte e capace di amare tutti, deciso a sostenere per loro ogni prova, noia e stanchezza, ogni delusione e offesa.   Donami un cuore grande, forte e costante fino al sacrificio, felice solo di palpitare con il cuore di Cristo e di compiere umilmente, fedelmente e coraggiosamente la volontà di Dio.   Amen.  
Dal libro di Giobbe
Gb 7,1-4.6-7
Giobbe parlò e disse: 1«L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli d’un mercenario? 2Come lo schiavo sospira l’ombra e come il mercenario aspetta il suo salario, 3così a me sono toccati mesi d’illusione e notti di affanno mi sono state assegnate. 4Se mi corico dico: “Quando mi alzerò?”. La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba. 6I miei giorni scorrono più veloci d’una spola, svaniscono senza un filo di speranza. 7Ricòrdati che un soffio è la mia vita: il mio occhio non rivedrà più il bene».
 
Il libro di Giobbe è un’espressione straordinaria della sapienza di Israele che ruota attorno a un’unica domanda: perché Dio permette la sofferenza del giusto? Giobbe, infatti, è il prototipo di credente perfetto, benedetto da Dio, ma che perde tutto – i figli, i beni e la sua stessa salute – perché Satana mette in questione la sua santità e chiede a Dio il permesso di poterlo mettere alla prova. Nella prima parte della lettura, Giobbe associa la condizione umana a quella di due categorie precise (v. 1). L’uomo è simile a chi sta facendo il servizio militare (cf. Is 40,2) e al lavoratore assunto a tempo determinato. Il v. 2 riprende il paragone e lo approfondisce: l’uomo vive sulla terra come uno schiavo che è costretto a lavorare per altri, non retribuito, con l’unica speranza di trovare dell’ombra per riposare; oppure egli è come un salariato che spera di ricevere un compenso mai sicuro. Di fronte alla sofferenza, quindi, le piccole gioie della vita (l’ombra, il salario), sono solo un sollievo momentaneo che appaga e inganna. Nei vv. 3-4 Giobbe riconosce quindi che la sua vita non è stata altro che «mesi di illusione» (alla lettera «mesi di vuoto»), un’esistenza miserabile e piena di dolore (cf. 3,10.20). Questa situazione lo ha portato a vivere lunghe notti insonni (v. 4) in cui non si riesce a desiderare altro che l’alba. I suoi giorni sono paragonati anche alla spola (v. 6), quel piccolo cilindro nel telaio in cui viene avvolto il filato della trama, perché muovendosi velocemente da una parte all’altra dell’ordito possa confezionare la tela. La vita è quindi una corsa rapida e spasmodica, che finisce in fretta e consegna la persona al vuoto. La lettura si conclude in maniera sorprendente, Giobbe invoca il Signore: «Ricòrdati che un soffio è la mia vita!» (cf. Sal 20,4; 79,8), consegnando all’assemblea delle parole da pronunciare quando ci si trova di fronte alla sofferenza e alla crisi. Egli non interrompe la relazione con Dio, vive il suo dolore alla presenza del Signore, si lamenta, si adira (talvolta anche in maniera sconcertante), ma rimette a Dio la sua causa, non smette di cercarlo.
     
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi
1Cor 9,16-19.22-23
Fratelli, 16annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! 17Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. 18Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo. 19Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. 22Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. 23Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.
 
Nella seconda lettura, Paolo si rivolge ai Corinzi dichiarando che l’annuncio del Vangelo non è stato per lui motivo di vanto o di orgoglio personale (v. 16), ma una condizione necessaria del suo ministero (Gal 1,15; cf. Ger 20,7). Per esprimere l’urgenza dell’annuncio, Paolo usa una forma tipica del lamento, «guai a me (uái emói, cf. 1 Sam 4,7-8; Lam 5,16) se non annunciassi il vangelo». Se Paolo non annunciasse la Buona notizia, la sua esistenza sarebbe da commiserare. Inoltre, Paolo oppone la condizione del lavoratore dipendente, che ha diritto al salario (v. 17), alla condizione dello schiavo. Il suo servizio è simile a quello del servitore a cui è stata «affidata l’amministrazione della casa» (oikonomían pepísteumai). Il simbolo usato mette in risalto la gratuità del ministero: servire il Signore con l’annuncio del Vangelo è parte della sua condizione di vita e non solo un lavoro per cui essere retribuito. In quanto «amministratore» di una casa, vive la propria missione con un orientamento deciso nei confronti degli altri, confermato dal v. 19 e dal v. 22: annunciare il Vangelo significa per lui «farsi servo di tutti» (v. 19) per guadagnare il maggior numero. Proprio come per Gesù (Mt 18,15), per Paolo portare (o riportare) un fratello al Vangelo e alla chiesa significa «guadagnarlo»; se il ministero non ha una ricompensa materiale, non per questo non c’è un guadagno (il verbo kerdáinō è usato per le transazioni commerciali, Mt 25,16): non c’è ricchezza più grande di condurre le persone a Gesù Cristo e di servirle. Quindi, Paolo ha rinunciato al diritto che conferiva il Vangelo per annunciarlo gratuitamente, senza ricevere compenso, come farebbe uno schiavo. Questa condizione lo ha reso particolarmente vicino ai più poveri, ai deboli nella società («mi sono fatto debole per i deboli», v. 22). La lettura finisce con un’espressione enigmatica, «tutto faccio a causa del vangelo, per diventarne partecipe» (v. 23), che si può interpretare in due modi: il ministero consente di essere partecipi degli stessi benefici che il Vangelo porta a coloro a cui viene annunziato; l’annuncio consente a Paolo di condividere la stessa natura del Vangelo, quella di Gesù Cristo.
 
X Dal Vangelo secondo Marco
Mc 1,29-39
In quel tempo, 29Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. 30La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. 31Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. 32Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. 33Tutta la città era riunita davanti alla porta. 34Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.35Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. 36Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. 37Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». 38Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». 39E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.
 
Dalla sinagoga alla casa.Dopo aver partecipato alla liturgia sinagogale e aver liberato un uomo prigioniero dello spirito impuro (Mc 1,21-28), Gesù e i discepoli si spostano nella casa di Pietro a Cafarnao, luogo che diventerà il quartier generale dell’attività missionaria di Gesù in Galilea. Il brano comincia con l’avverbio «subito» (euthýs); ripetuto molte volte in Mc 1 (vv. 10.12.18.20.21). Esso rende palpabile lo zelo di Gesù che mette in atto il suo ministero, in fretta, con un grande amore per gli uomini. I due fratelli Simone e Andrea accolgono Gesù in casa e questo dato ha un significato simbolico, aprono le porte della loro residenza a Gesù perché questi trasformi tutta la loro vita. Il vangelo è quindi un invito rivolto all’assemblea liturgica perché ognuno apra le porte della propria casa, faccia entrare Gesù Cristo, lasciandosi trasformare da lui. ► La febbre. La suocera di Simone è a letto con la febbre (v. 30). Siamo al momento del pranzo dello šabbat. In questa circostanza, la donna di casa aveva una funzione importante, era proprio lei ad esempio a occuparsi della cucina, ma soprattutto era lei ad accendere le candele il venerdì sera al tramonto, per riparare all’atto con cui Eva aveva spento la luce nell’anima di Adamo con il peccato e riportare la luce di Dio al mondo (cf. Bereshit Rabbah 17,8). In questo caso troviamo una donna stesa a letto con una febbre molto alta e che è incapace di servire a tavola, paralizzata da una malattia, segno di maledizione (Dt 28,22). Prontamente i discepoli parlano di lei a Gesù (v. 30); la scena è simbolica e l’atteggiamento dei discepoli diventerà un modello per la chiesa futura, soprattutto riguardo alla sua missione di intercessione in favore dei deboli.   ► Risurrezione e servizio. Gesù si avvicina, dimostra immediatamente che la sua è una mano potente (cf. Sal 18,17; 73,23-24; cf.  Mc 5,41) e rialza la suocera di Pietro. Il verbo impiegato per l’azione di Gesù è egéirō, «far alzare, risuscitare», usato anche per la risurrezione di Gesù (Mc 14,28). Con l’incarnazione, Gesù prende l’iniziativa e va incontro a ogni uomo, piagato fisicamente e interiormente, per farlo partecipare della forza di vita e di risurrezione che è capace di risollevare dalla sofferenza fisica e interiore. L’effetto è immediato: la donna passa a servirli. Il verbo usato è diakonéō, il cui significato basilare è «servire a tavola» (Lc 17,8), ma che riferito a Gesù serve per esprimere il senso profondo del suo ministero (Mc 10,43-45) e di quello dei discepoli (cf. Gv 12,26): come il servitore dimentica se stesso perché altri possano mangiare, così Gesù stesso è venuto nel mondo per dare la vita e non per avere qualcosa in cambio. La suocera di Pietro, quindi, dopo l’incontro con Gesù può orientare la propria vita verso gli altri, come una vera discepola.   ► La porta. La soglia della casa di Pietro diviene così un luogo di raduno e il brano del vangelo insiste sulla portata universale di questo movimento: «tutti i malati e gli indemoniati» (v. 32) sono condotti da Gesù e «tutta la città» è riunita davanti la porta (v. 33). Questo fiume di persone accorre di sera, alla fine dello šabbat, quando cessano alcune restrizioni legate a questo giorno santo, e trasforma la porta della casa di Pietro in uno straordinario luogo di grazia.   ► La relazione con Dio. Il v. 35 descrive un atteggiamento essenziale di Gesù Cristo: quando ancora è buio si ritira da solo, nel deserto, a pregare. Gesù vive le proprie giornate di fronte a Dio, non si lascia trasportare dagli eventi; per questo non è completamente assorbito dal suo ministero, né annullato nel servizio, custodisce una “stanza segreta” in cui coltivare la relazione con Dio.   ► Andiamocene altrove. I discepoli si mettono sulle sue tracce; il verbo usato è katadiókō, «perseguitare», e può implicare una sfumatura negativa: lo cercano spasmodicamente. Gesù invece non si lascia condizionare dai bisogni della gente e dai loro “appetiti”; invece, richiama i discepoli al motivo per cui è stato inviato: «Andiamocene altrove […] perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!» (v. 38). Il piccolo episodio quindi stabilisce alcuni elementi essenziali per comprendere la missione di Gesù Cristo e della chiesa: Gesù può contraddire le attese delle persone, perché ha una speciale relazione con il Padre; la sua missione consiste essenzialmente nella predicazione della buona notizia (si usa kērýssō, «proclamare, annunciare», come in 1,15, cf. At 28,31). Il ministero di Gesù non è statico o limitato a una regione in particolare, non viene condizionato solo da una logica “provinciale”, di paese, ma possiede un dinamismo straordinario che lo porta ad andare sempre altrove, a spingersi verso i più lontani. Dopo la risurrezione, Gesù Cristo pro-lungherà questo movimento spingendo i discepoli a portare il Vangelo a ogni creatura (Mc 16,15) e costituendo la chiesa come una comunità di missionari dinamici.
Il lamento di Giobbe: perché devo soffrire?
 
Giobbe è un uomo malato e la sua sofferenza lo induce a riflettere sul senso della vita umana, che gli appare faticosa e tormentata, fuggevole, e a essere perennemente in cerca di una pace che non trova. In tutto questo Giobbe è il portavoce dell’uomo universale. C’è però un tratto che imprime alla sua riflessione una chiara dimensione religiosa: egli parla della sua sofferenza con Dio e il suo sfogo si conclude con una preghiera: «Ricordati» (Gb 7,7). Il tema del passo liturgico (cf. Gb 7,1-4.6-7) dunque, non è semplicemente l’uomo nella sofferenza, ma l’uomo sofferente di fronte a Dio. L’uomo che qui parla è infatti un credente, che sa che Dio è giusto e buono, ma proprio da qui sorge la domanda: se Dio è giusto e buono, perché all’uomo è toccata un’esistenza così faticosa e perché la sofferenza è la compagna inseparabile dei suoi giorni? È questa la domanda che percorre il libro di Giobbe (un capolavoro che tutti i cristiani dovrebbero leggere e rileggere). Nel libro ci sono tre tentativi di spiegazione. Del primo sono portavoce i amici di Giobbe, rappresentanti di una mentalità diffusa e tradizionale: la sofferenza, dicono, è la conseguenza del peccato; Dio è giusto e non può permettere che un uomo soffra senza colpa; ognuno ha ciò che si merita. Un’opinione, questa, che troviamo ancora molto più tardi sulla bocca degli stessi discepoli di Gesù quando, di fronte al cieco nato, chiedono: «Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori?» (Gv 9,2). Questo è tuttavia un modo sbagliato di vedere le cose, e il nostro libro lo condanna apertamente. Davanti alla sofferenza di Giobbe gli amici non cercano di capire, hanno già le risposte pronte, povere risposte che Giobbe — con molta amarezza e non senza ironia — definisce «sentenze di cenere» e «un cumulo di frottole»! Ed ecco allora un secondo tentativo di spiegazione: la sofferenza è una prova, non una punizione. Il libro di Giobbe si apre appunto con questa tesi: la malattia è inviata al giusto come una prova per saggiarne la religiosità e la fede, per purificarlo. È nella sofferenza infatti che si manifesta se cerchiamo Dio o noi stessi, se lo serviamo per interesse o per amore. Giobbe è uscito vittorioso dalla prova. Ha perduto i figli, i beni, la sua stessa salute, ma il suo attaccamento a Dio non è venuto meno: «Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!» (1,21). Eppure anche questa spiegazione (che pure contiene tanta parte di verità) non risolve compiutamente il mistero, anzi, ne lascia intatto il nocciolo fondamentale. Ed ecco perché il Giobbe della parte centrale del libro non è più l’uomo paziente e rassegnato dei primi due capitoli, ma l’uomo in crisi, l’uomo che si scontra con il mistero di un Dio che dice di amarci ma che poi sembra smentire il suo amore. Certo la sofferenza non smentisce l’amore di Dio, però ne rivela il volto misterioso e sconcertante. Ed è soltanto quando ci si imbatte in questo volto sconcertante che si può dire di avere incontrato il vero Dio: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto» (42,5). La sofferenza è insomma un luogo di rivelazione, non soltanto una prova: un luogo da leggere per purificare la nostra concezione di Dio, non soltanto una situazione che mette alla prova il nostro coraggio. E in questo senso profondo che l’ammalato è il segno del mistero dell’amore di Dio. Ed è per questo che di fronte all’ammalato serve soltanto il silenzio, la condivisione, la partecipazione profonda: non c’è posto per le spiegazioni scontate, per le risposte già fatte. Il Vangelo (cf. Mc 1,29-39) racconta che Gesù guarì gli ammalati, e questo significa che la malattia non rientra nel piano originario di Dio (essa sparirà con l’avvento del suo regno) ed è una condizione da combattere: gli ammalati vanno aiutati a guarire. Il racconto della guarigione della suocera di Pietro è semplice e vivace, sembra di udire la voce dei testimoni oculari. Se vogliamo leggere questo racconto (e gli altri simili) con gli occhi dei primi cristiani, non dobbiamo semplicemente vedervi un prodigio, bensì cogliervi una parola che offre un messaggio. In proposito due frasi sono da evidenziare: l’espressione «la fece alzare» (letteralmente «la fece risorgere», v. 31) e la frase «ella li serviva» (v. 31). Alla luce delle due espressioni indicate il gesto di Gesù acquista un valore simbolico: è l’intervento di Gesù che ci fa risorgere per incamminarci sulla strada del servizio. Il servizio è appunto l’atteggiamento che definisce il discepolo. Gesù guarisce in casa di Simone la suocera, poi, a sera, si riunisce attorno a lui tutta la città e guarisce ammalati e indemoniati venuti da ogni dove. Tutta la miseria della gente si dispiega davanti a Gesù che annuncia un intervento di Dio — il regno, appunto — che risana l’uomo nella sua interezza: malattia, sofferenza, prigionia del male. Le guarigioni di Gesù avvengono per lo più con modalità che non hanno lo scopo di esaltare la potenza di Dio, bensì di manifestare la sua passione per l’uomo. La compassione di Gesù per i sofferenti di ogni genere è lo specchio più luminoso dell’amore di Dio per ogni uomo. Tuttavia, Gesù non ha guarito tutti gli ammalati, e questo significa che la malattia ha un suo significato per il regno, un valore salvifico e redentivo. In particolare, va ricordato che Gesù ha condiviso personalmente la sofferenza umana, e l’oscurità e l’abbandono che essa comporta. Gesù è morto sulla croce con sulle labbra la domanda dell’antico Giobbe: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). La risposta ultima è la risurrezione.
 
Le mani del Signore guariscono il nostro corpo e la nostra anima. Sullo sfondo di un tramonto Gesù guarisce tutti i malati che gli venivano portati. L’autore ha immaginato la sua mano trafitta perché è dal sacrificio di Cristo che siamo stati definitivamente guariti.
Preghiera di Roberto Laurita
 
Di solito, Gesù, tu non guarisci a distanza di sicurezza, per evitare il contagio. Tu accetti il rischio di essere a tua volta segnato dalla malattia, anche quando si tratta della lebbra e di tante infermità oscure.   E allora ti avvicini, come il buon samaritano, ti fai prossimo, tocchi con la tua mano i nostri corpi doloranti e fragili, per farci avvertire prima di tutto il tuo amore, il tuo desiderio di offrirci un’esistenza risanata.   Tu ci prendi per mano e ci fai alzare. È un gesto pieno di tenerezza e di forza: porta con sé i tratti della fraternità, della compassione e della misericordia, ma anche i connotati di un’autorevolezza simile a quella di un padre.   Tu continui a farlo anche oggi e ti servi delle persone più diverse e inaspettate, strumenti della tua provvidenza, uomini e donne che con naturalezza si accostano a noi per aiutarci, si mettono al servizio degli altri, con gesti semplici di bontà.
Colletta
 
O Padre, che con amorevole cura ti accosti all’umanità sofferente e la unisci alla Pasqua del tuo Figlio, insegnaci a condividere con le sorelle e i fratelli il mistero del dolore, per essere con loro partecipi della speranza del Vangelo.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
Amen.