Dalla Parola alla Vita
Domenica delle Palme e della Passione del Signore
Inno allo Spirito Santo   Vieni o Spirito Creatore, visita le nostre menti, riempi della tua grazia i cuori che hai creato.   O dolce Consolatore, dono del Padre altissimo, acqua viva, fuoco, amore, santo crisma dell’anima.   Dito della mano di Dio, promesso dal Salvatore, irradia i tuoi sette doni, suscita in noi la Parola.     Sii luce all’intelletto, fiamma ardente nel cuore; sana le nostre ferite col balsamo del tuo amore.   Difendici dal nemico, reca in dono la pace, la tua guida invincibile ci preservi dal male.   Luce d’eterna sapienza, svelaci il grande mistero di Dio Padre e del Figlio uniti in un solo Amore.   Amen.
Dal libro del profeta Isaìa
Is 50,4-7
4Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. 5Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. 6Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. 7Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso.
 
R La figura del Servo. La liturgia ci propone il terzo canto del Servo di Isaia. Si tratta di un brano magnifico, che prepara la conclusione riservata all’ultimo canto di Is 52–53. Se si considerano anche i due precedenti carmi (Is 42; 49) scopriamo il percorso del Servo che si prepara ad una sofferenza sempre più grande. Se in Is 42 costui riusciva infatti a portare la giustizia con fermezza ma senza violenza («non spegnerà lo stoppino fumigante… non spezzerà la canna incrinata», v. 3), già in 49,4 il Servo evidenziava la fatica del suo annuncio («invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze»). Nel nostro brano ecco che il Servo si prepara ad affrontare una sofferenza fisica, personale: flagellatori lo colpiscono sulla schiena, i suoi nemici gli strappano la barba e insultandolo gli sputano in faccia. Il testo insiste sul fatto che lui stesso presenta il dorso e non sottrae la faccia agli sputi: come è possibile tutto questo? Fondamentali sono i versetti precedenti: il Servo può affrontare tali sofferenze perché si è appositamente preparato per una tale vicenda. Il male raccontato non è stato improvviso: era noto e accolto dal Servo, che proprio per far fronte a una tale minaccia si è applicato come un discepolo che si prepara al faticoso studio, ascoltando il suo maestro ogni mattina. Di solito, nell’Antico Testamento, erano distinti i ruoli del sacerdote, del profeta e del sapiente. La parola di Dio veniva data direttamente dal profeta da Dio. Is 50 invece ci dice che anche il profeta ha cercato la sapienza e quindi si è dovuto applicare e l’ha fatto perché vuole vivere l’esperienza di sofferenza che ormai intravede come un’occasione per dare allo sfiduciato una Parola.   R La sapienza del profeta. La domanda sul male è forse il più grande interrogativo che tocca ogni uomo e ogni donna: non è una questione come le altre perché il male non è un oggetto al di fuori di noi ma è qualcosa che sentiamo, che viviamo, che ci può portare allo scoraggiamento. Per entrare nel mistero del male bisogna, come quando si studia, preparare l’orecchio ogni mattina: il testo ebraico ripete per due volte questa frase e a nostro avviso non si tratta di una ripetizione data da un errore dello scriba ma è proprio il richiamo alla fatica dello sforzo ripetuto, quotidiano, mai finito, che bisogna comunque fare. Oltre al tema dell’ascoltare profondamente cosa Dio ci vuol dire attraverso questa esperienza, sono interessanti anche i termini lingua e parola (dabar): questa sapienza il profeta la indaga non per sé ma per dare un annuncio a qualcun altro. La sfumatura sapienziale serve dunque per rendere ancora più forte il profeta e per rendere più efficace il suo annuncio. Ma se il testo ha già detto due volte che bisogna ascoltare ogni mattina, perché ripetere questo concetto dicendo: «Il Signore mi ha aperto l’orecchio»? E perché il profeta non deve tirarsi indietro? Una delle spiegazioni più interessanti è che con il verbo aprire qui si voglia in verità far riferimento alla foratura dell’orecchio, cioè al rito che facevano gli schiavi che volevano restare per sempre nella casa del loro padrone: dovevano mettere un orecchino che li identificasse con i servi di quella casa.   R Fedele all’unico Signore. La legge prevedeva infatti che dopo sette anni un ebreo che si era venduto come schiavo per pagare dei debiti dovesse essere liberato. Ma in una società come quella di allora, dopo sette anni di servizio, un uomo magari aveva anche preso come moglie una schiava di quel padrone e aveva avuto dei figli. Andare libero era difficile e quindi la legge proponeva un rito per il servo che volesse restare per sempre lì fedele al suo padrone. Questa antica prassi potrebbe essere alla base del senso del nostro brano: il Servo di Isaia (servo e schiavo sono lo stesso termine in ebraico) avrebbe deciso di restare per sempre con Yhwh e non si è tirato indietro di fronte a chi veniva per forargli l’orecchio. Questo, all’interno del nostro brano, significa che costui ora non può più tirarsi indietro: se non fosse diventato servo per sempre, avrebbe potuto decidere, di fronte ad una grande sofferenza come quella che lo aspetta, di svignarsela. Aver affrontato il rito dell’orecchino senza tirarsi indietro significa che il profeta ha scelto Yhwh come suo padrone per sempre e che dunque resterà per sempre in quella casa, costi quel che costi. Questa è la Parola che il servo può testimoniare allo sfiduciato: sii fedele al tuo Signore fino in fondo, sempre, e lui non farà mancare il suo sostegno anche nei momenti più difficili.
 
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési
Fil 2,6-11
6Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, 7ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, 8umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. 9Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, 10perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, 11e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.
 
R Gesù, modello da seguire. Il brano di Fil 2 è particolarmente famoso: la sua forma breve e concisa eppure così densa ha sempre fatto pensare a un antico inno liturgico ripreso dall’apostolo Paolo e qui inserito nella lettera. In realtà, chi studia quei passi nota come il testo sia ben inserito nel corpo della lettera e oggi si ipotizza che il testo appartenga di più al genere dell’elogio che non a una qualche liturgia di cui comunque non ci sono giunte attestazioni. Sta di fatto che Gesù è presentato come il modello da seguire. Fil 2,5 (il versetto che introduce il nostro brano) dice che dovremmo interiorizzare lo stesso modo di pensare che fu in Cristo: pensiero esplicitato nella sua condotta espressa in questi versetti, in cui vediamo che dalla condizione di Dio egli passa alla condizione di servo. Parallelamente, si dice che era come Dio e che diventò uomo e lo diventò veramente, tanto da accogliere anche la dimensione mortale. Infatti è morto e addirittura ha scelto una morte ignominiosa come quella di croce. Il testo non voleva spiegare come è possibile unire le due nature, umana e divina o quale di queste contasse di più. Si voleva invece invitare a essere obbedienti come lo è stato Cristo. A conclusione del nostro brano, infatti, in Fil 2,12 si dice: «Quindi, miei cari, voi che siete stati sempre obbedienti, non solo quando ero presente ma molto più ora che sono lontano, dedicatevi alla vostra salvezza con rispetto e timore». Il modello dell’obbedienza è Gesù, che ha fatto la sua kenosi, l’abbassamento, per obbedienza («facendosi obbediente fino alla morte»). Questo tema è anticipato da quello dell’umiliarsi, che è un atteggiamento di Gesù che si abbassa fino alla morte ma che era anticipato anche in Fil 2,3: «Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso». In pratica, Gesù è assolutamente esemplare ma è un modello che può essere seguito. Se lui ha saputo trovare la sua libertà nel farsi servo, possiamo farlo anche noi. Paolo stesso ha vissuto così il suo servizio: tutta la lettera ai Filippesi era cominciata definendo lui e Timoteo servi/schiavi di Cristo (Fil 1,1).   R Umiltà, la gloria di Dio. Il nostro brano però non si esaurisce in un elogio dell’umiliazione. Il testo si divide infatti in due parti: nella prima c’è Gesù come soggetto e nella seconda vediamo invece Dio all’azione. Gesù ha deciso di non trarre profitto dalla sua condizione originaria e ha saputo invece attraversare i cieli, farsi uomo e addirittura servo di questa umanità per quale muore in croce; ma Dio, come è nella tradizione biblica, esalta chi si umilia. Paolo, parlando di ogni lingua che rende gloria a Dio e di ogni ginocchio che si piega, riprende Is 45,23, applicando dunque a Gesù un detto riservato a Yhwh. Capiamo in questo modo che l’umiltà di Gesù non è fine a se stessa ma ha come scopo quella di mostrare la sua gloria, che non è diversa da quella di Dio stesso, capace di ribaltare ogni nostra categoria umana. In questa maniera, la lettera ci insegna che nel consegnare la nostra vita a Dio in Cristo non subiamo una sconfitta ma seguiamo l’esempio di colui che più di tutti ha fatto della sua vita un dono. La sua morte non fu un incidente di percorso ma la continuazione coerente di un progetto che già nell’incarnazione vedeva una kenosi (v. 7) e che giunse a compimento nella morte di croce (v. 8). Non fu consegnato dagli uomini ma fu lui stesso che si consegnò e l’odio degli uomini non poté ostacolare questo suo donarsi. Il Cristo è il modello di ogni amore, perché l’amore non ha paura di umiliarsi: facendoci piccoli in realtà facciamo spazio all’altro e per chi ama allora non c’è possibilità di sconfitta (potremmo dunque legare Fil 2 ad un altro grande inno, come quello della carità di 1 Cor 13).
                       
X Dal Vangelo secondo Marco
Racconto completo della Passione Mc 14,1-15,47 qui solo Mc 14,3-9
Gesù si trovava a Betània, nella casa di Simone il lebbroso. Mentre era a tavola, giunse una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande valore. Ella ruppe il vaso di alabastro e versò il profumo sul suo capo. Ci furono alcuni, fra loro, che si indignarono: «Perché questo spreco di profumo? Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!». Ed erano infuriati contro di lei. Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me. Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura. In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto».
 
R Una scena chiave. Non potendo analizzare tutto il brano della passione, abbiamo deciso di concentrarci sulla scena iniziale. A nostro avviso è infatti centrale l’episodio della donna di Betania che unge Gesù nella casa di Simone il lebbroso. Questa scena, in Mc 14,39, fornisce la chiave per comprendere anche tutto il discorso successivo, come testimonia Gesù stesso con un’espressione che dovrebbe stupirci per il suo grande spessore: «Dovunque, in tutto il mondo, sarà annunziato il vangelo, si racconterà pure in suo ricordo ciò che ella ha fatto». Cosa ha fatto di così speciale questa donna? Ha rotto un vasetto contente un profumo molto costoso, creando scandalo intorno al Maestro perché effettivamente trecento denari doveva essere una cifra ragguardevole. Considerando un denaro la paga di un operaio per un giorno (secondo la parabola degli operai «dell’ultima ora» di Mt 20,2) potremmo vedervi il corrispettivo attuale di un anno di lavoro; a 1500 euro al mese, ne risulterebbero quasi ventimila sprecati in un istante. D’altronde, sempre nel Vangelo di Marco, con duecento denari si sarebbe potuto dar da mangiare ai cinquemila uomini del racconto della moltiplicazione (Mc 6,37). E l’obiezione contro questa donna viene sollevata proprio per sfamare degli affamati. Eppure Gesù difende questa donna e il suo inutile spreco, attribuendole tutta questa importanza. Perché? Per comprendere veramente la portata di questo episodio bisogna anche considerare il contesto della scena. I versetti che costituiscono la cornice infatti si richiamano in un parallelismo perfetto. In Mc 14,1 si parla dei sommi sacerdoti e del bisogno di afferrare Gesù, e al versetto successivo si parla del problema dell’arresto che non poteva avvenire in un momento qualunque, perché avrebbe destato l’ira della folla. In Mc 14,1011 si dice che Giuda ha deciso di consegnare Gesù ai capi dei sacerdoti e che cercava l’occasione propizia per farlo. Ma cosa è successo di così grave per far scattare il tradimento di Giuda? Chiaramente il gesto della donna, e la difesa che Gesù le ha fornito, sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Da una fase di avversione esterna si è passati allo spuntare del traditore all’interno del gruppo dei discepoli, addirittura uno dei Dodici (come sottolinea il v. 10).   R Analisi di un tradimento. Il «perché» Giuda tradisca è un tema di grandissimo interesse, sul quale forse non si è abituati a meditare in maniera particolare. Molto forte è infatti il «mito» del Giuda “ladro” che avrebbe venduto Gesù per soldi: si pensa infatti al brano di Gv 12 in cui si specifica che Giuda teneva la cassa e che quei trecento denari sarebbero stati suoi. In verità, il Vangelo di Marco smentisce questa ricostruzione. Giuda ha già deciso di consegnare Gesù. Sono i sacerdoti che si rallegrano della cosa e decidono di dargli una ricompensa. Giustamente qualcuno può dire che Matteo presenta la richiesta del denaro come esplicita, quasi a condizione del tradimento: «Quanto mi volete dare perché io ve lo consegni? E quelli gli fissarono trenta monete d’argento» (Mt 26,15). Ma quante sono trenta monete d’argento? La cifra ritorna in Zc 11,12 e questo testo è di grande interesse perché Matteo lo cita direttamente, prendendolo dalla LXX, la versione greca della Bibbia. Il profeta Zaccaria avrebbe provato a pascolare il popolo d’Israele e avrebbe svolto bene il suo ministero all’inizio, con i bastoni chiamati Benevolenza e Unione ed eliminando i cattivi pastori (Zc 11,8): ma le pecore non lo avrebbero più sopportato e allora, dimissionario, avrebbe richiesto la sua buona uscita che gli venne calcolata proprio in trenta denari, cifra irrisoria, che per disprezzo Dio gli ordina di gettare nel tesoro del Tempio (Zc 11,13; cf.Mt 27,9). Trenta denari d’argento sono la somma “del venduto”, prezzo per riscattare uno schiavo straniero (Es 21,32): non si tratta dunque di un grande cifra, neanche nella versione matteana che sembrava invece sostenere la spiegazione del Giuda-ladro. E se invece quest’ultima spiegazione fosse tardiva, una semplificazione per evitare di prendere sul serio l’obiezione dell’aiuto ai poveri?   R La logica di Gesù. In questo caso, bisognerebbe imparare a vedere nello spreco il grande tema contro il quale Giuda si scaglia (e non solo lui, visto che nel nostro brano di Marco l’obiezione dello spreco è presentata da alcuni dei discepoli stessi di Gesù di cui si dice anche che «si adirarono», v. 4). In greco, l’espressione apṓleia, spreco, riprende il verbo «disperdersi, andare in rovina». In questo senso l’obiezione di Giuda non sarebbe poi così diversa da quella di Pietro di Mc 8, in cui il principe degli apostoli viene apostrofato come Satana e costretto a tornare al suo posto dietro a Gesù non pretendendo di passargli davanti per insegnargli a fare il Messia. Il Messia insegna a perdersi, senza riserva alcuna: «Il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato» (Mc 8,31; 9,31). E questo non rientra nei progetti umani che ricercano potenza e gloria. Il testo dunque vorrebbe insegnare a entrare nell’ottica di Gesù che percepisce la sua missione come uno spendersi completamente per gli altri, con un consegnarsi agli uomini per insegnar loro quella docilità al Padre che solo il Figlio poteva inaugurare sulla terra. È questa una comprensione che anche i primi cristiani hanno ottenuto solo dopo la Pasqua. Proprio per questo il gesto della donna è così centrale! Qualcuno è riuscito a cogliere che Gesù si stava donando, che la croce non era un incidente di percorso o un’assurdità voluta dal caso o dalla cocciutaggine di un megalomane. In quel «consegnarsi» c’era un Dio che si abbandonava agli uomini, per non cedere al giudizio di condanna che avrebbe dovuto colpirli. Per tale riscatto non c’era prezzo e ben valeva allora lo spreco del nardo purissimo, semplice gesto con cui rendere onore a chi offre un servizio impagabile.   R Il rilievo del femminile. È interessante che sia una figura femminile a cogliere e intuire, prima che avvenga, la logica del sacrificio di Gesù. Per questo motivo egli non può che lodarla e davvero il cristianesimo farà memoria di lei, perché ricordare il suo gesto significa affermare che l’umanità è capace di corrispondere all’amore di Dio. Anche il Vangelo di Giovanni copierà questa scena, attribuendola non a una donna anonima ma a Maria, sorella di Lazzaro. Avendo colto che risuscitando suo fratello, facendo un miracolo così pubblico, Gesù sarebbe andato incontro a morte certa, lo unge in vista della sua morte. In Giovanni però il brano è costruito ad hoc, prendendo anche spunto da Lc 7,36–50 dove una donna peccatrice si era avvicinata a Gesù e aveva lavato i suoi piedi bagnandoli con le lacrime. Questo gesto così affettuoso è ripreso da Maria in Gv 12 perché anche lei asciuga i piedi con i capelli (gesto che si capisce solo come riferimento alla peccatrice di Luca che, piangente sopra i piedi di Gesù, è già lì con i suoi capelli per asciugarli). Che i vangeli abbiano avuto questa attenzione per il gusto e l’intuito femminile è molto interessante e trova una conferma in Marco: la donna di Mc 14 va infatti in parallelo con la povera vedova di 12,4044. Questa povera donna fa un dono al tempio e si riporta anche in questo caso la cifra versata (due spiccioli). Nei due brani è diverso lo status sociale di queste due donne ma l’idea è che entrambe abbiamo donato tanto, se non addirittura tutto: abbiamo già accennato alla grande somma sprecata in Mc 14, mentre della vedova si dice espressamente che non ha gettato del superfluo come facevano tutti gli altri ma «nella sua miseria ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere» (14,44). In entrambi i brani si parla poi di poveri e in entrambi si critica invece il potere maschile, Giuda al capitolo 14 e gli scribi in 12,40 (in questo versetto si mette in mostra l’ipocrisia di questi uomini che fanno lunghe preghiere in pubblico ma poi divorano le case delle vedove). Cristo nella sua passione e morte ci insegna a dare tutto, senza paura: a noi suoi discepoli è chiesto da che parte stare, se seguire il suo esempio sprecandoci per Lui e per gli altri (con la soddisfazione di chi ha speso la propria vita amando), oppure se tradirlo come Giuda. Cederemmo così alle logiche del mondo, che ci insegna a risparmiarci, a non faticare, a lasciar passar avanti gli altri pensando in questo modo di essere più furbi. Mentre scopriremmo alla fine di essere solo più tristi, come il giovane ricco che non sa rinunciare a se stesso per seguire Gesù (10,22).
 
Protagonisti sotto la croce
 
      La liturgia della domenica delle Palme si prefigge due scopi: ricordarci il festoso ingresso di Gesù a Gerusalemme e introdurci nella settimana santa con la lettura dell’intero racconto della passione.       Per quanto riguarda il primo fine ci limitiamo a ricordare che l’entrata di Gesù a Gerusalemme (cf. Mc 11,1-10) deve essere letta sullo sfondo di un oracolo profetico: «Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina» (Zc 9,9). Una scena regale, che però parla di un re umile e mansueto, povero, incamminato verso la croce. In questo contrasto è racchiuso il senso della passione e, più in generale, il senso della vita di Gesù: una vita che trova il suo momento di intelligibilità proprio nella passione.       Il racconto della passione (cf. Mc 14,1-15,47) non è da commentare: è da contemplare. Tuttavia alcune indicazioni possono aiutare il lettore a penetrare più profondamente il senso della narrazione.       La prima: durante la passione Gesù parla poco. Ha già detto tutto quello che doveva dire, ora può stare in silenzio. Tuttavia nonostante questo silenzio, la passione è eloquente, parla da sé. Rivela i tratti più profondi di Gesù, quei tratti che si sono manifestati in tutta la sua vita, che ora diventano più chiari: l’innocenza, l’incondizionata obbedienza al Padre, la solidarietà con i peccatori, l’abbandono senza riserve all’amore.       La seconda indicazione: nel costruire il racconto della crocifissione (il momento più significativo dell’intera passione), l’evangelista sembra anzitutto preoccuparsi di mettere in risalto la solitudine di Gesù: lo insultano i passanti, i sacerdoti, i due crocifissi che gli si trovano accanto, e nessun discepolo gli è vicino: una solitudine tanto profonda che diventa preghiera: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (15,34). Incontriamo la piena umanità di Gesù, che non è fuggito dalle nostre angosce, ma — in un certo senso — le ha riassunte tutte.       E tuttavia Gesù non è solo. L’evangelista ha disseminato nel racconto diversi riferimenti alle antiche Scritture (cf. Sal 22, Sal 69 e Is 53), passi che raccontano l’esperienza dei giusti e dei profeti: uomini smentiti, derisi e messi dalla parte del torto. Allora Gesù non è solo: fa parte di una storia, in compagnia di tutti i giusti e di tutti i profeti. Se si guarda alla croce, si comprende che alle volte Dio è un amore che tace, un amore silenzioso, quasi una lontananza, esperienza questa che tutti i grandi uomini di Dio hanno fatto.       Gesù muore solo, ma appena morto tutto si rovescia, Dio non abbandona il suo Messia. Il velo del tempio che si lacera dall’alto in basso è un simbolo: il tempio di Gerusalemme è finito (Gesù aveva dunque ragione), un’epoca nuova si apre. E un pagano, vedendolo morire, riconosce in lui il Figlio di Dio. La storia di Gesù non è dunque finita, ma ricomincia.       Una terza indicazione: Gesù è negato nella sua duplice identità. Negato in quella logica di donazione (donazione che qui viene capovolta, incompresa e ritorta contro di lui): «Ha salvato altri e non può salvare se stesso!» (15,31); e negato nella sua origine, nella sua messianicità e nella sua filiazione, nella sua comunione con Dio.       Tuttavia Gesù è accolto e riconosciuto dal centurione come Figlio di Dio e Messia proprio perché accetta di morire, di non salvare se stesso: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (15,39). Gesù è riconosciuto dunque nella sua duplice identità. Di fronte a lui si scontrano due tipi di fede e Gesù in croce ne è lo spartiacque: da una parte la fede di chi pretende che il Messia abbandoni la croce e compia miracoli («Scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo!» 15,32); dall’altra, la fede di chi, come il centurione, coglie la divinità di Gesù proprio sulla croce.       Infine un’ulteriore indicazione: il racconto della passione di Gesù non deve essere ascoltato come gli spettatori che assistono, sia pure con commozione, a un dramma di cui altri sono protagonisti. Dobbiamo invece considerarci protagonisti; siamo fra i personaggi. Ma quale è il nostro ruolo?       Ci sono le autorità: hanno deciso di eliminare Gesù e cercano soltanto un pretesto ragionevole per condannarlo. Al processo — racconta l’evangelista — cercavano una falsa testimonianza. Lo condannano innocente.       C’è Pilato. Egli si presenta con una pretesa di obiettività, giudica e riconosce l’innocenza di Gesù. Ma la sua obiettività ha un limite: egli non è disposto a compromettere se stesso. È obiettivo fin quando non entra in gioco la sua vita. Il suo amore alla verità non giunge sino al dono di sé. Preferisce la ragion di stato e la propria salvezza, e abbandona Gesù al suo destino.       C’è la folla. Ha simpatia per Gesù ma è perennemente indecisa. E, alla fine, si lascia convincere: preferisce Barabba.       Ci sono i discepoli. Mentre Gesù vive il suo dramma, essi dormono. E poi spariscono completamente dalla scena (si parla soltanto di Pietro, che lo seguiva «a distanza» e che poi lo rinnega): li ritroviamo soltanto alla risurrezione. I verbi che il Vangelo usa per descrivere il loro comportamento durante la passione sono molto significativi e fanno riflettere: tradire, dormire, abbandonare, rinnegare, osservare a distanza.       Ecco dunque i personaggi. Certamente sono personaggi storici, ma sono anche nel contempo personaggi tipo, punti di riferimento ancora attuali.       In quali di essi ci riconosciamo?
All’interno della foglia si vede la crocifissione e nell’altra foglia la risurrezione. Le due foglie formano un cuore.
Le palme verdi che accoglievano Gesù in festa (Osanna) si trasformano insanguinate nel (Crocifiggilo)
Preghiera di Roberto Laurita
 
Ti acclamano, Gesù, e tu non fai nulla per farli tacere perché sta per giungere la tua ora. Riconoscono in te il Messia e sai bene che coltivano segreti sogni di potenza, di riscatto, di gloria.   Tu scegli di entrare nella città di Gerusalemme a dorso di un asino, non come un generale vittorioso, ma come un uomo mite.   Non c’è alcun percorso trionfale che ti attende dietro l’angolo: sarà piuttosto la strada che porta alla collina del Golgota.                 Sì, Gesù, tu mi insegni a non illudermi quando qualcuno mi riempie di lodi, di apprezzamenti. Tu mi chiedi di amare senza pretendere di essere compreso e stimato da tutti, di andare incontro alla croce con la serena determinazione di chi ha previsto anche le ostilità, ma sa di poter contare in ogni momento sull’amore del Padre, sulla sua vicinanza.
Colletta
 
Dio onnipotente ed eterno, che hai dato come modello agli uomini il Cristo tuo Figlio, nostro Salvatore, fatto uomo e umiliato fino alla morte di croce, fa’ che abbiamo sempre presente il grande insegnamento della sua passione, per partecipare alla gloria della risurrezione.
Egli è Dio, e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
Amen.