Dal libro del Levìtico |
Lv 13,1-2.45-46 |
1Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: 2«Se qualcuno ha sulla pelle del corpo un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacerdoti, suoi figli. 45Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. 46Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento». |
|
La liturgia della Parola della sesta domenica nel tempo ordinario è segnata da un tema molto preciso: la lebbra. Con questo termine si indicava una malattia cutanea che rendeva impuro il fedele. Il paragone con altri elementi che generano una condizione di impurità (il contatto con un cadavere, la perdita di sangue e la sfera sessuale, Lv 15; Nm 5,2), dimostra che si diventa impuri quando ci si trova su una soglia, al confine tra la morte e la vita. La malattia della lebbra è quindi paragonata a una condizione mortale (2 Re 5,7) e talvolta è interpretata come una conseguenza del peccato (Nm 12,10) che rende la persona simile a un morto capace di contagiare gli altri con la propria corruzione. Nella prima lettura si ricorda che il lebbroso doveva segnalare con il proprio vestito («porterà vesti strappate», Lv13,45) la lacerazione che vive nel corpo e nell’anima. Escluso dalla vita della comunità, doveva gridare: «Impuro, impuro!» per impedire ad altri di avvicinarsi; per questo era tenuto ad abitare fuori dall’accampamento. Alcune fonti antiche affermano che al tempo di Gesù i lebbrosi non potevano neanche entrare nella santa Gerusalemme (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, 5,227; 6,426; anche a Qumran si trova la stessa testimonianza, cf. 11Q19 45,17-18). Alla luce di tutti questi elementi, si deve richiamare l’interpretazione spirituale elaborata dai Padri della chiesa, perché la liturgia assume proprio questa spiegazione: la lebbra è in realtà un simbolo per indicare la corruzione interiore che produce il peccato, come si vede ad esempio in Origene, che definisce il lebbroso «malato nell’animo e debole nelle opere» (Omelie sul Levitico, 5,12). |
|
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi |
1Cor 10,31-11,1 |
Fratelli, 31sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. 32Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; 33così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza.11,1Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo. |
|
L’epistola di Paolo riporta la fine di un argomento cominciato in 1 Cor 8. Paolo vieta ai cristiani di mangiare le carni sacrificate agli idoli che venivano consumate come sacrificio nel tempio pagano e poi vendute per uso privato. Il tempio dedicato agli idoli poteva essere un luogo di raduno per banchetti e i cristiani vi erano spesso invitati (1 Cor 8,10). Paolo è consapevole che un alimento non può recare alcun beneficio alla persona che ne mangia, né fargli alcun male (8,8). Tuttavia, riconosce nei Corinzi una sorta di eccessiva fiducia nella libertà ottenuta grazie a Gesù Cristo; in questo atteggiamento intravede un pericolo: in nome della libertà e della propria conoscenza, si può mancare di carità nei confronti del fratello più debole, il quale può essere spinto a comportarsi allo stesso modo (8,9.11-12). Elabora quindi un criterio fondamentale per la decisione rispetto alle scelte della vita ordinaria e per il discernimento: il valore più grande per i cristiani è il bene delle persone, specialmente di quelle più deboli. Per questo, Paolo conclude il suo ragionamento invitando ad agire «per la gloria di Dio» (1 Cor 10,31) e non per se stessi. Questa raccomandazione si traduce concretamente nel desiderio, mosso dalla carità, di non creare occasioni di scandalo per i membri della chiesa (10,32). Il cristiano agisce per la gloria divina quando cerca di non fare del male agli altri con i propri atteggiamenti. Il modello è Paolo stesso: egli non cerca un vantaggio personale (in greco, sýmforon, dal verbo symférō, «recare un beneficio»), ma intende procurare un bene agli altri in ordine alla salvezza («perché siano salvati», 10,33). La frase «mi sforzo di piacere a tutti» (10,33) è di difficile traduzione, ma il verbo usato è proprio aréskō, «piacere, dare soddisfazione», e può tradursi anche «cerco di dare soddisfazione agli altri in tutto». Paolo desidera il bene degli altri. In 1 Cor 11,1 Paolo chiede ai cristiani di imitarlo, perché lui per primo ha avuto un modello straordinario, Gesù Cristo, il quale non ha cercato il proprio interesse ma quello degli uomini (Fil 2,1-11). Solo la grazia di Cristo può far spostare il baricentro della persona dal proprio «io», così da trovare l’equilibrio grazie all’amore per gli altri. |
|
X Dal Vangelo secondo Marco |
Mc 1,40-45 |
In quel tempo, 40venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». 41Ne ebbe compassione, te-se la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». 42E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. 43E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: 44«Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». 45Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte. |
|
R Dio ha visitato il suo popolo. Queste sono le parole del versetto recitato nell’acclamazione al vangelo e in esse si trova il cuore di quanto si annuncia in Mc 1,40-45: Dio si avvicina al popolo per visitarlo. Il vangelo, tuttavia, rovescia questo asse e presenta una sorprendente iniziativa di un lebbroso. L’assemblea, quindi, trova nel malato una figura a cui ispirarsi in momenti di sofferenza o di fronte alla disperazione causata da vizi che non si riescono a superare: Gesù si muove a compassione proprio vedendo la sua preghiera e i gesti del corpo (si mette in ginocchio). R Se vuoi, puoi. Ci si aspetterebbe un’invocazione più semplice: «Abbi pietà!», «Guariscimi!»; invece il lebbroso usa un giro di parole: «Se vuoi, puoi purificarmi» (azione riservata ai sacerdoti che aveva lo scopo di riconoscere l’avvenuta guarigione, cf. Lv 14). In questo modo, il malato non si limita a chiedere aiuto, ma fa appello alla volontà di Gesù Cristo: la formulazione è umile, non esige la guarigione, ma non manca di riconoscere la potenza divina di Gesù, per il quale il volere coincide con la capacità di realizzare ciò che si è deciso di fare. R Ne ebbe compassione (v. 41). Come spesso accade nel vangelo, Gesù è soggetto del verbo splanchnízomai, «provare una compassione viscerale», da splánchnon, «viscere» (cf. Mc 6,34; Lc 7,13; Gv 11,33). Gesù non assiste al dolore degli altri in maniera distratta, ma si lascia scuotere interiormente provando una profonda compassione. Inoltre, il verbo è usato per tradurre la radice ebraica raḥam, con cui si indica al contempo un amore materno (normalmente si fa riferimento al rapporto con il termine reḥem, «utero») e paterno (Sal 103,13), che ha la capacità rigeneratrice di far rinascere la vita là dove si trova solo morte. R Tese la mano, lo toccò. Secondo la tradizione ebraica, il lebbroso doveva essere allontanato per paura di essere contagiati dalla sua «morte» (cf. Mishnah, Nega’im, 2); Gesù, invece, non teme di toccarlo. Facendo questo, Gesù non contraddice la Legge (Lv 13,45-46), ma dimostra ancora una volta di essere il Figlio di Dio, perché solo Dio è capace di vincere la morte; si pensi alla reazione del re d’Israele quando Naamàn il Siro si presenta di fronte a lui per chiedere la guarigione dalla lebbra: «Sono forse Dio per dare la morte o la vita, perché costui mi ordini di liberare un uomo dalla sua lebbra?» (2 Re 5,7). La santità di Cristo è quindi più forte dell’impurità e della morte, e può ristabilire il malato nella sua condizione originaria. R Gli disse: «Lo voglio!». Gesù avvicina il lebbroso e lo trasforma con il suo tocco e con la sua Parola; questa duplice dimensione ha un’applicazione pratica molto evidente, perché la dimensione materiale (i segni del pane, dell’acqua, dell’olio ecc.) e la proclamazione della parola di Dio sono determinanti nella celebrazione dei sacramenti, segni efficaci consegnati alla chiesa per guarire e rigenerare il peccatore. In questo racconto, poi, la parola pronunciata da Gesù è davvero significativa: «Lo voglio!». Essa rivela al malato che nel cuore del Figlio troviamo un amore straordinario per le persone, Gesù vuole che egli sia risanato e per questo la gua-rigione avviene immediatamente. R Il Messia lebbroso. Il verbo usato al v. 44 («ammonendolo severamente») è molto forte e l’episodio si conclude con una sorpresa. Gesù chiede alla persona guarita di presentarsi dal sacerdote perché questi riconosca la sua guarigione e lo purifichi (Lv 14) e gli impone di non divulgare ancora la notizia, perché non venga travisato il senso della sua missione, che si compirà pienamente sulla croce. Il lebbroso, invece, disobbedisce e diffonde la notizia. La guarigione esteriore non corrisponde quindi a un risanamento interiore e il risultato finale è paradossale: Gesù è costretto a rimanere fuori dalla città in luoghi deserti (v. 45), proprio come i lebbrosi. In realtà, il vangelo rivela così che Gesù, assumendo la condizione del lebbroso, compie quanto è prefigurato nella figura del giusto Giobbe (Gb 2,7) e soprattutto in quella del servo sofferente di Is 53, che salva molti addossandosi le loro iniquità proprio grazie alla piaga da cui è stato colpito (nagua’, «colpito» in 53,4 e nega’, «piaga» in 53,8; la lebbra è definita proprio nega’ in Lv 13,3.9); la ripetizione della radice naga’ ha dato origine alla tradizione ebraica del Messia lebbroso (Talmud Babilonese, Sanhedrin 98b), in base alla quale il salvatore atteso da Israele non si manifesterà con la potenza, ma nella debolezza di un lebbroso che si trova alle porte di Roma e risiede tra i più poveri. Gesù Cristo compie queste figure mostrando in anticipo che sarà la sua sofferenza a guarire tutti dalla vera lebbra: la disobbedienza e il peccato. |
|
Per Gesù nessuno è un intoccabile |
|
Il rituale della lebbra riempie due grandi capitoli del libro del Levitico (cf. cc. 13-14), di cui il brano proposto dalla liturgia ne è una piccola parte (cf. 13, 1-2.45-46). Il termine ebraico che comunemente viene tradotto con «lebbra» deriva da una radice che significa «essere colpito da Dio», mentre l’equivalente vocabolo greco («lepròs») ha invece il significato di squamoso, crostoso, ruvido. In queste due etimologie è già racchiuso un «giudizio» sulla lebbra (una malattia che per la sua ripugnanza era vista come castigo e come segno di impurità religiosa), supponendo un indebito passaggio dal corpo allo spirito che il Vangelo metterà in discussione. Non solo una disgrazia, dunque, ma un castigo divino, come appare, ad esempio, dal racconto di Maria colpita dalla lebbra per aver parlato contro Mosè: «L’ira del Signore si accese contro di loro […] La nube si ritirò di sopra alla tenda ed ecco: Maria era lebbrosa, bianca come la neve» (Nm 12,9-10). Il Levitico contiene tutta una serie di regole minuziose per distinguere se si è o meno in presenza della malattia che rende impuri. La lebbra rende impuro, e colui che ne è colpito trasmette l’impurità alle persone e agli oggetti che tocca, persino alla casa in cui entra. E così le prescrizioni riguardanti la segregazione dei lebbrosi erano molto severe, non avevano solo lo scopo di impedire il contagio, ma avevano anche un significato religioso e culturale. La legge prescriveva che il lebbroso fosse bandito dalla città e si aggirasse in luoghi solitari, vestito di stracci e a capo scoperto (sono segni del lutto), gridando «Immondo, immondo» perché i passanti lo potessero evitare. Anche al tempo di Gesù la lebbra continua a essere considerata non solo una disgrazia, ma un segno dello sfavore divino, non solo una malattia ma un’impurità. E così il lebbroso soffriva doppiamente, nel corpo e nello spirito. Soffriva nel suo corpo l’assenza di Dio. Si riteneva contagiasse tutto: le persone che avvicinava, le cose che toccava, la casa in cui entrava, persino i mobili «fino all’altezza del soffitto». I rabbini gareggiavano nel distinguere diverse categorie di lebbra: chi quattro, chi sedici, chi trentasei, chi persino settantadue. E inculcavano l’idea che la lebbra fosse una punizione divina, un castigo per peccati di particolare gravità: la calunnia, l’omicidio, la falsa testimonianza, il furto e l’avarizia. E la sua eventuale guarigione era paragonata a una risurrezione, un prodigio riservato al solo Dio. La città santa era espressamente e severamente interdetta ai lebbrosi, non così, però, i piccoli villaggi della campagna. Il lebbroso poteva entrare nella sinagoga, ma a certe condizioni: doveva entrare per primo e uscire per ultimo e doveva sedere a distanza, isolato. E in questo contesto preciso che Gesù guarisce un lebbroso (cf. Mc 1,40-45), un gesto che ha due significati. La guarigione della lebbra era considerata uno dei grandi segni attesi per il tempo messianico, un segno che Dio intendeva restaurare l’uomo nella sua interezza. Ecco il primo significato del gesto di Gesù: il tempo messianico è giunto (cf. Mt 11,5; Lc 7,22). C’è anche un secondo significato: Gesù tocca un intoccabile, facendo capire che il lebbroso è un malato e non un castigato, una persona amata da Dio, un fratello da accogliere. Il regno di Dio non tiene conto delle barriere del puro e dell’impuro, le supera: non esistono uomini da accogliere o uomini da evitare, uomini vicini e uomini lontani, uomini con diritti e uomini senza diritti. Tutti sono amati da Dio e chiamati, e la prassi evangelica deve appunto essere il segno di questo amore divino che non differenze. Per Gesù il lebbroso non è un impuro, né rende impuri chi lo tocca: la vera impurità, a cui l’uomo deve badare, è quella del cuore: «Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo» (Mc 7,20-23). Dopo aver osservato che Gesù ha compiuto un miracolo, e precisamente un miracolo in favore di un escluso, resta da evidenziare la presenza nel racconto di alcune apparenti contraddizioni: Gesù sembra deciso a non guarire ma poi, preso dalla compassione, guarisce; ordina severamente al lebbroso di non parlarne, ma questi (come d’altronde era logico aspettarsi) racconta a tutti l’accaduto. Gesù si ritira in luoghi deserti per sfuggire alla folla, ma in realtà la folla lo trova e accorre a lui da ogni parte. In sostanza Gesù compie un miracolo che lo rivela Messia, ma stranamente non vuole che questo si sappia: si tratta del «segreto messianico». Quale la sua ragione? Perché c’è sempre il rischio (e il Vangelo ne è consapevole) di intendere male la messianicità di Gesù, di strumentalizzare la sua persona e di stravolgerne le intenzioni. Gesù è da annunciare a tutti, è per tutti, ma non è disponibile a qualsiasi interpretazione. Va predicato a tutti, ma va anche difeso nella sua originalità e nella sua purezza: si richiedono opportune cautele e precisazioni. Non basta parlare di Cristo, bisogna parlarne bene. |