Dalla Parola alla Vita
3ª domenica di Quaresima
Contemplare lo Spirito Santo   O Spirito Santo, contemplarti vuol dire immergere il nostro sguardo nell’invisibile, nella profondità del mistero di Dio.   Tu non hai un volto umano come il Cristo del Vangelo, nelle sembianze del Padre; ma rinunciando a raffigurarti in qualche modo, noi vogliamo aderire a Te con tutte le nostre forze.         O Spirito di Dio, Tu non hai volto perché sei il fuoco dell’amore, poiché unisci il volto del Padre e del Figlio, per formarne Uno solo in una fusione sublime.   O Spirito Santo, Tu che sei il soffio che emana dal Padre e dal Figlio porta il giusto respiro alla nostra vita, la luce al nostro intelletto, il vero slancio al nostro cuore in modo da poter amare i nostri fratelli.  


Dal libro dell’Èsodo
Es 20,1–17
In quei giorni, 1Dio pronunciò tutte queste parole: 2«Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile: 3Non avrai altri dèi di fronte a me. 4Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. 5Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, 6ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti. 7Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano. 8Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo. 9Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; 10ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. 11Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato. 12Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà. 13Non ucciderai. 14Non commetterai adulterio. 15Non ruberai. 16Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo. 17Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo».
R L’unità del Decalogo. Presentare il Decalogo sarebbe un tema che potrebbe riempire pagine e pagine di libri: invece di concentrarci su tutti i singoli comandamenti o su uno solo di essi, preferiamo considerare le “10 parole” come un insieme, per far apprezzare la Legge come il grande dono di Dio al suo popolo. Partiamo prima di tutto da un detto rabbinico: «La ricompensa per un comandamento è un altro comandamento». Questa espressione, molto sintetica, ci dice una cosa fondamentale: tutti i comandamenti sono legati tra di loro. Questa è una dimensione a cui noi cattolici non siamo così abituati. Tradizionalmente usiamo i comandamenti come base per la confessione e magari siamo portati a pensare: «Questo comandamento l’ho osservato, questo invece non l’ho osservato». Non è proprio questa la teologia del Decalogo: in realtà, molti episodi biblici sono pensati sulla base dei comandamenti e l’idea di fondo è che violandone uno poi inizia una catena che ci porta a violare tutti gli altri. Comprendiamo allora che il Decalogo non è stato pensato principalmente come uno strumento per l’esame di coscienza; i comandamenti sono piuttosto dei paletti che ci permettono di restare liberi! Violando i comandamenti, cadiamo in una catena di peccati da cui potremmo non uscire più e di cui resteremmo schiavi. Invece Dio, dopo averci liberato dall’Egitto, ci dona la Legge come uno strumento per mantenerci nella libertà. Ma la libertà non è la concessione di rompere un peccato, magari ritenuto meno grave di un altro. Tutti i comandamenti sono importanti, perché violarne uno vuol dire intaccarne un altro. Un classico esempio è quello della vigna di Nabot (1 Re 21): il re Acab vorrebbe la vigna di questo personaggio ma poiché Nabot non vuole vendere l’eredità dei suoi padri la regina malvagia Gezabele si offre di intervenire, facendolo morire. In seguito, fa in modo che due ingannatori testimonino contro Nabot: l’accusa sarebbe di aver parlato contro il re e contro Dio; in questo modo, morto il padrone della vigna, il re Acab può prenderne possesso.   R Liberare il desiderio. I comandamenti non sono degli obblighi che Dio ci impone ma sono strumenti che evitano che cadiamo nell’idolatria, altro grande comandamento, che nell’elenco biblico è presente e ben sviluppato, mentre nella lista del nostro catechismo è sintetizzato nel grande precetto del monoteismo («non avrai altro Dio all’infuori di me»). La differenza tra gli idoli e Dio è che Dio libera mentre gli idoli schiavizzano. Gli idoli in verità sono vuoti, non hanno consistenza perché non sono reali, sono creazioni degli uomini. La vigna di Nabot è l’idolo di Acab, è lui che l’ha resa importante, fondamentale per la sua vita, ma era semplicemente un desiderio sbagliato. Quante volte noi desideriamo qualcosa (un’auto, un posto di lavoro migliore, una famiglia migliore ecc.) e in nome di questi idoli roviniamo la realtà che invece il Signore ci ha donato. Non vogliamo dire che ogni desiderio è un idolo: il testo biblico non comanda in maniera assoluta di «non desiderare», non sarebbe neanche possibile. L’uomo, per la Bibbia, è desiderio (cf. Sal 42,2). L’uomo è desiderio, ma proprio per questo, senza dei paletti chiari, potrebbe venir travolto dai suoi bisogni e spinto a cercare quello che non serve, che anzi lo porta a commettere dei peccati contro Dio e gli altri, e per questo finirebbe per venir distrutto dall’idolo stesso che si era creato. È la triste condizione dell’uomo che non sa mantenersi libero, perché tende alla schiavitù. Basta pensare a quante situazioni di guerra, di sofferenza che l’uomo stesso ha creato e da cui poi non riesce più ad uscire. Dio invece è l’unico che ci libera per lasciarci veramente liberi: e i comandamenti sono il regalo che lui fa a noi non per schiavizzarci ma per restare noi stessi, dopo che Lui ci ha liberato dalle catene dei nostri peccati.
 
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi
1Cor 1,22–25
Fratelli, 22mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, 23noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; 24ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. 25Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.
R Il centro della fede. La Prima lettera ai Corinzi si configura come una lettera segnata dalla divisione: questo è il problema riportato nell’introduzione alla lettera, dove vediamo ciascuno rivendicare un’appartenenza non alla comunità intera ma solo ad alcuni rappresentanti («Ciascuno di voi dice: “Io sono di Paolo”, “Io invece sono di Apollo”, “Io invece di Cefa”, “E io di Cristo”», 1,12–13). Affrontando queste discordie Paolo riesce ad andare al vero centro della fede e della chiesa: c’è un unico fattore unificante che è Cristo. Possiamo avere vari ministri e mediatori, ma alla fine nessuno di questi personaggi è veramente salvezza: se lo sono stati, lo sono in quanto portatori dell’unica vera sapienza che è contenuta nell’annuncio del Vangelo di Cristo. E Cristo non è diviso, motivo per cui anche la sua chiesa non può dividersi. Chi è incapace di andare al di là di se stesso e segue ancora piccole logiche di potere, crea dei discepoli ma solo per legarli a sé, non ha conosciuto la vera sapienza di Dio, quella rivelata in Gesù, che ha come effetto quello di riunire il mondo intero nella sua chiesa. Se Paolo è partito per annunciare a tutti, pagani ed ebrei, l’annuncio del Vangelo, è perché ha letto nella vicenda di Gesù il più grande insegnamento di tutti i tempi, la rivelazione stessa di Dio, fatta per ogni uomo e ogni donna. Ma questo annuncio, che aveva attecchito così bene a Corinto, non può arenarsi in divisive logiche partitiche. Un tale atteggiamento è una smentita della predicazione stessa. Paolo comprende perfettamente l’importanza della posta in gioco e la affronta. Non difende il suo partito e quelli che si identificano in lui contro gli altri: avrebbe in qualche modo confermato la logica della divisione e sostenuto l’idea che ogni missionario è legittimato a farsi il suo gruppetto di fedeli. Certamente i credenti si rifacevano al missionario che li aveva battezzati, ma questo è un attaccamento che condiziona la fede al gesto, al segno e non al senso di quel sacramento. Ecco perché Paolo dice di non aver battezzato (anche se poi deve subito correggersi: qualcuno li ha battezzati proprio lui). Così facendo, vuole invitare tutti ad andare oltre il ministro che hanno conosciuto personalmente: in verità nell’esperienza del battesimo hanno rivissuto la morte e la rinascita di Gesù Cristo. È lui che è stato crocifisso per noi e nessun annunciatore può sostituirsi a Gesù.   R La sapienza di Cristo. Per questo, nel nostro brano, Paolo invita a non cadere negli errori di chi, perché ebreo, si ferma ai segni, o di chi, come i pagani, ritiene assurdo il sacrificio di Cristo. Paolo, secondo At 18, giunge a Corinto dopo essere stato ad Atene; in questa città aveva ottenuto un magrissimo risultato! Aveva provato a parlare della risurrezione, ottenendo solo il disinteresse del pubblico dell’Areopago (At 17,32: «“Su questo ti sentiremo un’altra volta”»). Paolo però invita a non perdersi in queste considerazioni, in dottrine varie: l’unica cosa che conta è invece riconoscere che in Gesù abbiamo una sapienza nuova, che porta all’amore e non alle divisioni, che insegna a non giudicare, perché non ha nessuna sfumatura di orgoglio. La sapienza di Dio insegna a ribaltare tutte le categorie umane e divine. La potenza di Dio consisterebbe nel farsi piccolo fino a diventare uomo e addirittura a morire per noi con una morte infamante. Per i Romani era una vergogna la morte di croce perché era la pena riservata agli schiavi (Tacito, Storie 4,11,3: «Asiatico, poiché era un liberto, pagò il suo malefico potere col supplizio riservato agli schiavi», cioè la crocifissione). Non meno grave era per i Giudei restare appesi a una croce (si pensi alla maledizione di Dt 21,23: «L’appeso è una maledizione di Dio»). E invece la potenza di Dio non sta nel porre il proprio Figlio nell’alto dei cieli ma in mezzo a due ladroni, mostrando una totale simpatia e condivisione con l’umanità peccatrice e sofferente. Paolo fa appello all’esperienza della chiamata che i Corinzi avevano già vissuto: in quella esperienza hanno sperimentato questa azione di Dio che aveva scelto proprio loro, senza sapienza e senza potenza, per sperimentare la bellezza di una comunità nuova, una chiesa dove vivere l’amore insegnato da Cristo. La sapienza di Cristo è l’unica che non si presta ad essere usata idolatricamente contro gli altri perché evita ogni orgoglio: semplicemente insegna a riferirsi al più grande gesto d’amore, che è quello di Cristo che insegna a tutti a spendersi per gli altri, abolendo in radice ogni orgoglio e sogno di dominio su di loro.

X Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 2,13–25
13Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. 14Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. 15Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, 16e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». 17I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà». 18Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». 19Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». 20Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». 21Ma egli parlava del tempio del suo corpo. 22Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. 23Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. 24Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti 25e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.
R La centralità del Tempio. Per il Vangelo di Giovanni, Gesù è un pio giudeo che ogni anno sale al Tempio per la festa di Pasqua. Il Gesù giovanneo infatti partecipa a diverse feste dell’anno liturgico e proprio l’aver vissuto più pasque permette di comprendere che il suo ministero deve essere durato anni (per Giovanni, almeno tre anni; i fatti raccontati da Marco, invece, potrebbero essere sintetizzati all’incirca in sei mesi). Questa indicazione ci fa capire che il Tempio è importante per il Quarto vangelo, anzi, è fondamentale. In pratica, non c’è capitolo che in qualche modo non alluda a Gerusalemme e al suo Tempio. Perfino quando Gesù è con la samaritana in Gv 4, quindi lontano dalla capitale della Giudea, la discussione volge sulla questione del culto («I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare», 4,20). I miracoli di Gv 5 e Gv 9 si svolgono in prossimità del Tempio e tutti i capitoli 7–10 possono essere collocati in un’unica grande festa, quella delle Capanne. Ciò significa che Gesù ama Gerusalemme e il suo Tempio e se parla contro di esso non è per disprezzo del culto, al contrario! Come bene affermano i suoi discepoli, Gesù ha compiuto tutto quanto raccontato in questo brano perché divorato dallo zelo. Questa prima indicazione ci sembra fondamentale perché spesso si è critici con la dimensione religiosa e spesso i motivi non mancano. Il vero riformatore, però, contesta il vissuto religioso non per eliminarlo ma perché davvero desidera un culto più bello e più autentico. Questa azione di Gesù contro il Tempio è importante anche nei vangeli sinottici: diventa perfino il motivo per il quale decidono di metterlo a morte. Ma per questo motivo, tutti i sinottici collocano tale scena alla fine, prima della Passione, a introduzione di questo evento tragico. Giovanni invece anticipa questa scena ponendola all’inizio della missione pubblica del Nazareno. Perché? Al di là della questione sulla storicità di questo gesto, a noi interessa soprattutto la teologia che è alla base di questa narrazione.   R Gesù e la teologia del Tempio. C’è un grande profeta che ha, come primo gesto della sua missione, una predicazione contro il Tempio: si tratta di Geremia di cui si racconta per ben due volte, in due capitoli diversi (Ger 7 e Ger 26) che avrebbe predicato contro il Tempio. Nel caso di questo antico profeta, il problema era dato da un uso ideologico del tema della presenza di Dio nella Città santa, la dottrina della šekina, il fatto che YHWH avrebbe scelto Gerusalemme come città dove abitare. Questa bella teologia è legata al tema dell’elezione, era cioè conseguenza del fatto che Dio avesse manifestato il suo amore nella storia scegliendo il popolo di Israele come dice Dt 7,78 («Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli –, ma perché il Signore vi ama»). Il popolo però la usava per vantarsi che Gerusalemme non sarebbe mai stata conquistata dagli stranieri e per garantirsi una certa impunità. Gesù invece intende realizzare le aspettative di un culto perfetto e sincero: con la cacciata dei mercanti dal Tempio infatti realizza la conclusione del profeta Zaccaria, che prevedeva che nell’ultimo giorno il Signore avrebbe sconfitto tutti i regni stranieri violenti e oppressori di Gerusalemme per poi istituire una festa delle Capanne che avesse un valore universale (Zc 14,16.21). L’importanza della festa delle Capanne è centrale nel Quarto vangelo perché questa festa si estende da Gv 7 fino a Gv 10 ed in quel contesto Gesù dirà di essere lui sorgente d’acqua (Gv 7,37) e fonte di luce (Gv 8,12), due grandi aspettative che sempre Zaccaria aveva immaginato (Zc 14,68). In conclusione, Gesù vorrebbe un culto autentico, capace davvero di realizzare queste grandi promesse per il mondo, fare in modo che Gerusalemme sia una città di pace, dove tutti i popoli, dopo aver rinunciato alla violenza, salgano ogni anno al Tempio per ricevere vita (testimoniata dai doni della luce e dell’acqua). Invece i Giudei, per credere a Gesù, vogliono prima dei segni che dimostrino che lui è autorizzato a compiere un tale progetto. Questa teologia, però, è perversa perché richiederebbe che la fede sia sottomessa a dei segni: invece l’atto del credere deve essere totalmente libero! E infatti Gesù non cede a questa tentazione: che lui sia il vero realizzatore della teologia del Tempio non si vede subito, bisogna credere in lui e seguirlo in questo magnifico progetto. Chi crederà in lui, vedrà molti segni realizzarsi, però i segni non si vedono prima dell’atto di fede ma dopo!   R Fede, attesa e memoria. Questa logica è quella anche di un grandissimo testo come Es 3,11–12 dove a Mosè che chiede «Chi sono io per andare dal faraone e far uscire gli Israeliti dall’Egitto?». Dio risponde: «Io sarò con te. Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte». Vediamo allora che anche il Decalogo della prima lettura era concepito come un segno. Questo ribalta il comune e banale modello di pensare la fede: si crede di solito che, ubbidendo a Dio e alle sue leggi, si possa ottenere qualcosa da lui. Ma questo modello è servile! In verità, aver fede in Dio significa credere che Dio ci libererà: per questo Mosè osa sfidare il Faraone e attraversare il mare di notte e per questa fede poi assiste anche ai segni (le piaghe) con cui Dio si manifesta per liberare Israele. La Legge viene data come segno finale a chi ha creduto fino in fondo perché questa relazione con Dio non si perda. Alla stessa maniera, Gesù non offre un segno che dimostri automaticamente la fede: i discepoli seguono Gesù anche quando non lo capiscono fino in fondo, perché sanno che alcune cose le capiranno dopo. Anche due innamorati non stanno insieme perché sanno esattamente come andrà la loro vita futura: ma se credono nel loro progetto d’amore, poi non mancheranno segni e manifestazioni che la loro scelta era ben fondata. Ai discepoli che oseranno stare con Gesù fino in fondo, egli mostrerà un culto nuovo, che nessun dominatore straniero potrà più distruggere. Gesù instaura un nuovo regime di sacrifici, non più basati sugli animali ma sul dono di se stessi: il santuario non sarà più quello di pietra ma è il proprio corpo. Per credere bisogna attendere: solo dopo l’evento pasquale, a ritroso, possiamo scoprire quanto le parole di Gesù fossero vere. Le logiche della fede si comprendono dopo, solo grazie allo sforzo della memoria. Chi invece, come i Giudei, pretende di avere prima della fede dei segni che la fondino, entra in un cortocircuito che uccide la possibilità stessa di credere. Ecco perché il Quarto vangelo mostra dei fraintendimenti, come quello del nostro brano, motivo per cui i Giudei non capiscono il tema della risurrezione, spiazzati dalle coordinate temporali (tre giorni contro quarantasei anni). Chi non osa credere, resta fuori, sulla soglia: per chi invece si fida e acconsente a seguire il Signore, non mancheranno i segni che confermeranno che quella strada intrapresa è quella che dà senso alla propria vita. E il segno più bello della verità della nostra fede sarà la libertà di donare se stessi, totalmente, anima e corpo, senza paura. Perché è dando la vita, che la si riceve per la vita eterna.
       
Dove è possibile incontrare Dio
 
      Da una semplice e immediata lettura del racconto del dono della legge sul Sinai (cf. Es 20, 1–17) si possono fare almeno tre osservazioni importanti.       Anzitutto il Dio di Israele si rivela come il Dio della vita: egli è interessato alla vita quotidiana, alle relazioni fra gli uomini, ai rapporti dentro la comunità, non si interessa soltanto al suo onore, al culto e ai riti. Solo tre comandamenti lo riguardano direttamente: gli altri sette riguardano le relazioni umane, i suoi doveri e quindi i suoi diritti. In secondo luogo il Dio di Israele è il Dio dell’interiorità e della totalità. Vuole l’uomo intero. Alle parole e alle azioni devono corrispondere la sincerità e la fedeltà del cuore. Infine la legge è in relazione con il gesto salvatore e liberatore di Dio. Non è l’imposizione di un tiranno, né semplicemente la volontà del sovrano dell’universo: è la volontà di un Dio salvatore, di un Dio che è Signore dell’universo, ma che ama Israele di amore, di predilezione, lo soccorre e lo libera. La formula introduttiva infatti non è «Io sono il Signore dell’universo», ma «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile» (v. 2).       E soprattutto quest’ultima affermazione che merita di essere approfondita, riprendendo il salmo responsoriale della liturgia della parola (cf. Sal 18,8–11), nel quale il salmista accomuna la creazione e la legge nella medesima lode a Dio. La legge è detta perfetta, fedele e sapiente, retta, allietante il cuore, luminosa, pura, vera e santa, più preziosa dell’oro e più dolce del miele. Com’è possibile? Il fatto è che il salmista — conformemente a tutta la spiritualità di Israele — sa che la legge fu data a Israele una volta liberato dalla schiavitù di Egitto. Il Decalogo fa parte del dono della libertà. E proprio ricevendo una legge Israele ha compreso di essere un popolo libero. Un popolo schiavo non ha una propria legge, è sotto la legge del dominatore. Avere una propria legge significa essere un popolo libero. Il Decalogo è dunque la carta della libertà, e per questo Israele non lo ha mai considerato come un fardello ma come un dono, un privilegio, un motivo di ringraziamento.       Alla domanda «Perché Dio impone delle leggi»?, Israele risponde che Dio lo fa non per difendere i propri interessi e i propri privilegi, e neppure solo per affermare il suo diritto al possesso del popolo e quindi all’obbedienza (diritti, certo, fuori discussione), ma per indicare al popolo amato il cammino della vita. Anche sotto questo aspetto il Decalogo non è soltanto un gesto di autorità, ma soprattutto un segno di bontà. E dunque, ancora una volta, un dono. Si comprende, a questo punto, quali debbano essere i veri motivi che spingono all’osservanza della legge: non motivi esteriori, imposti, bensì ragioni capaci di muovere l’uomo dall’interno. Uno soprattutto: la riconoscenza. Per il cristiano la legge della libertà e della vita non è semplicemente il Decalogo, ma quel modo nuovo e profondo di viverlo che è la vita di Gesù Cristo. La legge del cristiano è la sequela di Gesù, e precisamente del Cristo crocifisso, «scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani, ma per coloro che sono chiamati […], Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio» (1 Cor 1,23–24), come attesta l’apostolo Paolo nella seconda lettura.       L’alleanza di Dio con Israele, mediata dalle «dieci parole», si realizza in Gesù, tempio fatto non da mani d’uomo e luogo dell’incontro definitivo della presenza di Dio (cf. Gv 2, 13–25). Nell’episodio evangelico colpisce immediatamente il gesto fortemente polemico di Gesù: «Fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi» (v. 15). Questa azione inaspettata non vuole semplicemente significare che il culto debba svolgersi con decoro, non come un chiassoso mercato, ma nel silenzio e nel raccoglimento. Troppo poco. Il gesto polemico di Gesù si riallaccia ai profeti, i quali hanno spesso criticato il culto che si svolgeva al tempio, non per abolirlo, ma per purificarlo e ricondurlo al suo vero significato. I profeti (e tanto meno Gesù) non sono i campioni di una religione senza culto, ricordano però che due sono le dimensioni del culto, tra loro inseparabili: una dimensione religiosa (il rapporto con Dio) e una dimensione politica (il rapporto fra uomini). Nel tempio si incontra il Dio vivente: non un Dio chiuso nel tempio e preoccupato di sé, ma un Dio interessato a ciò che succede fuori e che interroga i suoi fedeli.       Il culto non può essere dunque solo adorazione. È nel contempo missione e conversione. Tanto è vero che elemento essenziale del culto è l’ascolto della parola, che impegna la vita.       L’evangelista Giovanni, tuttavia, non si accontenta di presentarci Gesù che, al modo degli antichi profeti, ci richiama al vero culto. Afferma che Gesù — e precisamente il Cristo morto e risorto — è il vero tempio: «Egli parlava del tempio del suo corpo» (v. 21). Cosa significa affermare che Gesù è il vero tempio? Duplice è il significato del tempio nell’Antico Testamento: luogo dell’incontro con Dio e luogo del raduno delle tribù: dunque, una dimensione verticale e una orizzontale. Gesù è tutto questo, afferma il Vangelo: è in lui che possiamo fare un’autentica esperienza di Dio ed è in lui che possiamo fare un’autentica esperienza di fraternità.       Incontrare Dio è il desiderio di tutta la Bibbia, è l’interrogativo che la percorre da un capo all’altro: dove e come posso incontrare il Signore Dio? In Gesù, risponde l’evangelista. A Filippo che gli chiedeva «Signore, mostraci il Padre» (14,8). Gesù risponde: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre» (14,9). Il desiderio della Bibbia (e di ogni uomo) è anche un altro: uscire dalla dispersione e incontrarci insieme, abbandonare le contrapposizioni e vivere da fratelli. Ma dove e come è possibile? Attorno al Cristo e alla sua croce: «Quando sarò innalzato da terra (cioè «posto sulla croce»), attirerò tutti a me» (Gv 12,32).
Preghiera di Roberto Laurita
 
Quel giorno, Gesù, tu non hai usato buone maniere e parole gentili, non hai pensato al danno procurato a quella gente che perdeva un giorno d’affari, alle monete che avrebbe perso nella confusione generale.   Quel giorno tu pensavi solo al Padre tuo, al suo buon nome che dovevi difendere a tutti i costi, davanti al suo popolo. No, Dio non è in vendita e pertanto nessuno può comprarlo. No, Dio non può essere tenuto in ostaggio dai nostri traffici, dai nostri interessi, dai nostri guadagni, dai nostri teatri. Egli è libero perché ama smisuratamente e l’unico modo di onorarlo è di rendergli culto con la nostra vita, con le nostre scelte, le nostre decisioni che profumano di misericordia, di generosità, di spirito fraterno.           Egli non può essere insudiciato dalle orribili maschere che noi esseri umani gli abbiamo costruito, con la nostra immaginazione. E dunque, se vogliamo incontrarlo e spezzare il cerchio delle illusioni non ci resta che gettare via gli idoli che ci siamo abilmente costruiti e ascoltarlo con cuore sincero.

Rapous Vittorio Amedeo

La cacciata dei mercanti dal tempio – 1760

Palazzo Madama – Torino


 
Distruggete questo tempio e io lo farò risorgere in tre giorni. Nel disegno l’edificio della chiesa nasce dalla croce e dal sudario simbolo della risurrezione

Colletta
 
Signore nostro Dio, che riconduci i cuori dei tuoi fedeli all’accoglienza di tutte le tue parole, donaci la sapienza della croce, perché in Cristo tuo Figlio diventiamo tempio vivo del tuo amore.
Egli è Dio, e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
Amen.