Dal libro di Neemìa |
Ne 8,2–4.5–6.8–10 |
In quei giorni, 2il sacerdote Esdra portò la legge davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere. 3Lesse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque, dallo spuntare della luce fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e di quelli che erano capaci d’intendere; tutto il popolo tendeva l’orecchio al libro della legge. 4Lo scriba Esdra stava sopra una tribuna di legno, che avevano costruito per l’occorrenza. 5Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutti; come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. 6Esdra benedisse il Signore, Dio grande, e tutto il popolo rispose: «Amen, amen», alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore. 8I levìti leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura. 9Neemìa, che era il governatore, Esdra, sacerdote e scriba, e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: «Questo giorno è consacrato al Signore, vostro Dio; non fate lutto e non piangete!». Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge. 10Poi Neemìa disse loro: «Andate, mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che nulla hanno di preparato, perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza». |
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L’agiografo ha probabilmente redatto questo testo all’inizio del periodo ellenistico (fine IV – inizio III secolo a.C.) per tratteggiare una continuità teologica tra il periodo monarchico pre–esilico, quello del dominio persiano post–esilico (post 538 a.C.) e il suo tempo. Lo sguardo retrospettivo dell’autore sugli eventi immediatamente successivi al ritorno degli esiliati a Babilonia mira a strutturare l’identità del popolo d’Israele intorno ai due poli fondanti: il tempio di Gerusalemme e la legge di Mosè. Nel cap. 8 il governatore Neemia può indire di nuovo il raduno liturgico in modo che il popolo d’Israele possa celebrare il suo Signore e prendere coscienza della sua «santità» (Es 19,6), secondo la volontà di Dio (Lv 19,2). L’assemblea liturgica diventa quindi paradigmatica per l’agiografo; essa infatti è partecipata dal popolo nella sua interezza: «uomini», «donne» e «quanti erano capaci d’intendere» (cioè bambini). La liturgia si svolge il primo giorno del settimo mese (Tishri), tempo in cui nella tradizione giudaica vengono celebrate tre feste: al 1° del mese il Capodanno, al 10 il kippur, festa dell’espiazione, al 15 la festa delle Capanne. Nei capitoli 8–10 del libro di Neemia si susseguono quattro riti diversi: la proclamazione della legge di Mosè (8,1–12), la festa delle Capanne (8,13–18), la liturgia penitenziale (9,1–37) e infine il rinnovo dell’Alleanza (10,1–40). Il testo odierno si sofferma sul primo rito. Per la prima volta dopo l’esilio viene riletta l’intera Legge in un contesto liturgico. Il sacerdote e scriba Esdra (v. 4) e i leviti (v. 8) proclamano il testo da un palco di legno (antesignano dell’ambone) al popolo in piedi (v. 5). La liturgia ha inizio con la benedizione rivolta a Dio e la risposta del popolo «amen, amen» a mani alzate, segno di totale adesione a ciò che è proclamato; segue la prostrazione del popolo «con la faccia a terra» (v. 6). Si procede poi con la lettura da parte dei leviti di singoli brani seguiti da una spiegazione omiletica, mentre il popolo ascolta di nuovo in piedi. Alla conclusione del rito Esdra, Neemia e i leviti, vista la commozione del popolo, esortano ad evitare il pianto poiché è segno di lutto (v. 9). Nel v. 10 Neemia dichiara che l’atteggiamento consono col quale il popolo deve vivere questo giorno «consacrato al Signore» non è la tristezza bensì la gioia profonda. Questa gioia si deve manifestare in un segno concreto: mangiare il cibo tipico del giorno di festa condividendolo con i poveri che non hanno risorse adeguate; Neemia dichiara infine la motivazione di questa indicazione: «perché la gioia del Signore è la vostra forza». In questa locuzione conclusiva c’è il vertice del racconto. L’insegnamento per noi che ascoltiamo la lettura nel contesto liturgico cristiano è chiaro: la celebrazione eucaristica non può che suscitare gioia nel nostro animo perché nell’incontro col Cristo risorto dalla morte sperimentiamo l’amore di Dio per noi. Il Padre infatti attraverso la morte e risurrezione del Figlio ci trasmette lo Spirito Santo, fonte di «amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22). L’ascolto della parola di Dio, oggi come ieri, forgia l’identità del popolo santo. |
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Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi |
1 Cor 12,12–30 |
Fratelli, 12come il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. 13Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito. 14E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra. 15Se il piede dicesse: «Poiché non sono mano, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. 16E se l’orecchio dicesse: «Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. 17Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l’odorato? 18Ora, invece, Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto. 19Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? 20Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. 21Non può l’occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; oppure la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi». 22Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; 23e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, 24mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, 25perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. 26Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. 27Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra. 28Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue. 29Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? 30Tutti possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano? |
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R Unità del corpo. Paolo continua il discorso avviato in 12,1–11 sui doni dello Spirito Santo e impiega l’immagine del corpo umano per chiarire ai lettori il mistero dell’identità della chiesa dove sono compresenti unità e molteplicità. Questo brano dell’Apostolo riprende l’argomentazione iniziale della Prima lettera ai Corinzi sulla «divisione di Cristo» (1,13), ossia sulla perniciosa faziosità dei gruppi ecclesiali. Nel v. 12 Paolo afferma l’idea dell’unità nella pluralità dei diversi componenti; l’unità è assicurata dalla centralità di Cristo che rende la compagine dei credenti «un corpo solo» formato da molte membra, attraverso il battesimo. Nel v. 13 infatti viene evidenziata l’azione dell’«unico Spirito» che ci ha «battezzati» e «dissetati»; notiamo che i due verbi sono in forma passiva: è quindi lo Spirito, inviato dal Padre per mezzo del Cristo risorto, che ci ha donato la fede. È lo Spirito che continua ad animare il corpo della chiesa, composto dalla pluralità etnica («giudei o greci») e socio–economica («schiavi o liberi»). Tra i battezzati non ci deve essere più posto per pregiudizi etnici o stereotipi sociali, perché in Cristo è esaltata la dignità di ogni essere umano al di là delle differenze (Gal 3,28). Nelle condizioni culturali e sociali più diversificate i cristiani conservano necessariamente una molteplicità di funzioni all’interno del medesimo corpo. R Necessità dei deboli. Nei vv. 14–21 Paolo sviluppa una diatriba immaginaria per comparare il corpo umano alla chiesa: come le parti del corpo umano sono diverse ma indissociabili e necessarie le une alle altre, così un cristiano non può che far parte della comunità e non può disconoscere la rilevanza, anzi la necessità, del contributo dato degli altri membri alla totalità della compagine ecclesiale. Nei vv. 22–24 notiamo una considerazione di estremo rilievo: i membri della comunità «più necessari» sono quelli più deboli. Qui traspare la concezione delle «beatitudini» evangeliche (Mt 5, 3–12), dove Gesù propone ai discepoli l’assunzione di un’ottica rovesciata rispetto ai parametri dei valori mondani: per Gesù, e per Paolo, il valore di una persona è inversamente proporzionale alla sua fragilità a causa di età, condizione fisica, sociale, intellettuale ecc. La chiesa non è efficientista come la società contemporanea, che rende sempre onore a persone di successo, ricche, potenti, famose. Inoltre il messaggio dell’Apostolo è che le varie membra del corpo ecclesiale «abbiano cura» le une delle altre; ogni credente, a partire da quelli più deboli, deve essere oggetto delle sollecitudini, dei pensieri e delle preoccupazioni degli altri (v. 25). Esattamente come le parti del corpo umano, la comunità cristiana condivide la sofferenza e la gioia (cf. Rm 12,15–16) di ogni persona (v. 26). R I diversi carismi. Nel v. 27 Paolo conclude l’argomentazione: i battezzati di ogni comunità sono parte integrante del corpo di Cristo con funzioni diverse. Segue nel v. 28 l’elenco delle competenze registrate nel contesto ecclesiale degli anni Cinquanta del I secolo d.C. Le prime tre sono da Paolo ritenute fondamentali: «apostoli», nunzi del vangelo di Gesù Cristo e fondatori di comunità, «profeti», interpreti delle Scritture, e «maestri», insegnanti ortodossi della dottrina cristiana. Nell’elenco seguono gli altri «carismi», di minor rilievo rispetto ai primi. La gradazione dei doni ricevuti è calibrata sull’efficacia del contributo alla edificazione del corpo di Cristo. Nei vv. 29–30 poi Paolo ironizza con una serie di domande sul tentativo di alcuni membri ecclesiali di appropriarsi di funzioni e carismi che lo Spirito Santo ha distribuito ad altri; nella chiesa non tutti fanno tutto! Paolo conclude esortando i lettori a desiderare i carismi più grandi (v. 31a) per preparare il discorso su fede, speranza e carità che svilupperà nel successivo capitolo 13. Il discorso paolino sulla dignità e sulla necessità dei diversi carismi deve restare centrale per l’ecclesiologia di tutti i tempi. Ciascun battezzato deve rispettare ministeri e incarichi stabiliti, che sono di origine divina, e deve integrare la propria funzione all’interno dell’attività pastorale per il bene della comunità, corpo di Cristo. Per far questo è necessario che l’esercizio di ogni carisma non sia finalizzato all’autopromozione bensì al servizio degli altri e quindi sia permeato di amore. |
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X Dal Vangelo secondo Luca |
Lc 1,1–4; 4,14–21 |
11Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, 2come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, 3così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, 4in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto. 414In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. 15Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode. 16Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. 17Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: 18«Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi 19e proclamare l’anno di grazia del Signore». 20Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. 21Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». |
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R Il proemio. Il proemio del Terzo vangelo ricalca il modello delle opere storiografiche dell’Antichità pur in maniera molto succinta. Con quattro proposizioni subordinate e una principale Luca delinea il contesto di composizione (v._1), l’argomento (v. 2), le caratteristiche (v. 3) e la finalità (v. 4) del suo vangelo. In questo breve proemio Luca nomina tre fasi cronologiche. Innanzitutto il tempo di Gesù, nel quale si colloca l’origine del movimento cristiano; i protagonisti di questo periodo sono i discepoli presenti nel racconto evangelico, definiti «testimoni oculari» e «ministri della Parola» (v. 2). Nella fase successiva un numero imprecisato di credenti («molti») ha scritto un resoconto, probabilmente parziale, degli eventi passati (v. 1). La terza e ultima fase è quella in cui l’autore raccoglie i dati, organizza e rimodella le fonti precedenti (v. 3). Luca introduce la lettura del testo evangelico puntualizzandone l’affidabilità, basata sulla testimonianza, la fedeltà della tradizione e la serietà e il rigore della ricerca storica da lui compiuta. Inoltre nel proemio indica in quale modo il racconto deve essere letto: il vangelo è una biografia di Gesù da leggere con fede, perché l’intento dell’opera storiografica è teologico, dal momento che si prefigge di consolidare gli insegnamenti già ricevuti dal lettore (v. 4). Mediante il riconoscimento dell’identità di Gesù, Messia d’Israele, Salvatore universale e Figlio di Dio ad opera dei protagonisti del racconto, Luca vuole forgiare l’identità delle comunità cristiane delle quali fa parte, intorno all’80 d.C., e renderle maggiormente coscienti della loro originalità nei confronti del mondo ellenistico–romano e nei confronti del Giudaismo dal quale il movimento è sorto. R Una lettura “mancante”. L’episodio di Nazaret di cui oggi si proclama soltanto la prima parte (Lc 4,16–21) è una scena programmatica perché prefigura non solo la storia evangelica di Gesù (il tipo di messianismo, il compimento scritturistico, la predicazione del regno di Dio e i destinatari) ma anche quella dei suoi discepoli narrata negli Atti degli Apostoli (la vicenda dei discepoli è modellata su quella del Maestro: anche la loro predicazione ha per esito sia l’accoglienza che l’opposizione violenta, fino al martirio). Il testo segue la notizia dell’attività di Gesù in Galilea che si profila come «insegnamento», soprattutto nelle sinagoghe, attuato sotto l’egida dello Spirito Santo (v. 14) di cui Gesù è ricolmo (cf. 4,1). Prima di giungere a Nazaret la sua fama di predicatore e taumaturgo era già diffusa (vv. 14.23). Giunto al paese dove era cresciuto, «come suo uso», di sabato si reca in Sinagoga e qui viene invitato a leggere. Nella liturgia sinagogale la Tôrâ era letta da un sacerdote o da un levita e Profeti venivano letti da laici invitati a discrezione del capo dell’assemblea (v. 16). Essendo Gesù un laico gli fu consegnato un rotolo del profeta Isaia e il suo sguardo cade sulla lettura di un testo che, nei vv. 18–19, Luca rende composito includendo Is 61,1–2a e 58,6 (entrambi i testi riecheggiano l’oracolo di Is 35,1–10). Il racconto non afferma che Gesù ha letto il testo profetico: nel v. 17 infatti si dice che Gesù «aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto…», segue la citazione di Isaia (vv. 18–19). Nel v. 20 Gesù «lo riconsegnò (il rotolo) all’inserviente e sedette»; dopo qualche attimo di silenzio in cui tutti gli occhi sono puntati su di lui (v. 20b) Gesù dice: «oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (v. 21). Gesù quindi deve aver letto il rotolo di Isaia ma il narratore non menziona l’atto di lettura; mediante questa strategia narrativa Luca ci comunica che il lettore del testo (Gesù) si identifica, e va identificato dagli uditori, con il profeta del quale parla Isaia. Gesù si auto–definisce il realizzatore di quella promessa anticotestamentaria. R Gesù è il Messia. Il profeta presentato in Is 61,1–2 è investito del ruolo messianico dallo Spirito di Dio: «lo Spirito del Signore è su di me»; si tratta di una figura che unisce la funzione profetica classica (cf. Is 6; Ger 1,4–19) con quella del «Servo» del DeuteroIsaia (40–55). Lo «Spirito del Signore», potenza operatrice di Dio, permane sul profeta e lo abilita alla missione del «Servo» (cf. Is 42,1.7; 48,6; 49,9) che consiste nella «consolazione» d’Israele (Is 40,1; 51,3.12; 52,9). Nella sinagoga di Nazaret Gesù s’identifica col profeta–Servo in qualità di «unto», «consacrato», quindi re–Messia davidico (Sal 2,2; 1 Sam 1,11–13) e Messia profeta–Servo, possessore dei doni sapienziali dello Spirito Santo (cf. Is 11,10). Se il lettore del Terzo vangelo già conosceva l’identità messianica e la figliolanza divina di Gesù (cf. Lc 1,32.35; 2,26; 3,22) ora viene a conoscenza della modalità di svolgimento della sua missione. Grazie alla citazione profetica Luca non desidera specificare singoli atti dell’operato di Gesù ma vuole sintetizzare l’intera missione salvifica del Messia, Figlio di Dio. Quindi Lc 4,18–19 afferma che Gesù realizza tutte le attese messianiche del Giudaismo. L’unzione dello Spirito Santo gli consente di espletare il suo mandato divino: «portare ai poveri la buona notizia». Gesù rende i «poveri» beneficiari del dono del «regno di Dio». R L’annuncio messianico. Che la proclamazione del «vangelo» o «buona notizia» (euanghelízomai) abbia come oggetto l’arrivo del «regno di Dio» è esplicitato in Lc 4,43 quando Gesù dichiara il suo progetto di lasciare Cafarnao per diffondere il Vangelo dovunque, in conformità al piano salvifico di Dio: «È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato». Luca infatti apporta cambiamenti alla citazione del profeta Isaia: eliminazione dello stico «fasciare le piaghe dei cuori spezzati», inserzione di uno stico di Is 58,6 («rimettere in libertà gli oppressi»), conclusione con 61,2a e omissione della frase «il giorno di vendetta del nostro Dio» di Is 61,2b. In questo modo Luca evidenzia la doppia presenza del verbo «proclamare» (kērýssein) e del sostantivo «liberazione/libertà» (áphesis). L’opera di evangelizzazione da parte di Gesù si sostanzia nell’estensione della signoria di Dio sul mondo, dapprima per mezzo del Gesù terreno e successivamente del Risorto che opera attraverso lo Spirito Santo e la mediazione dei discepoli. Si tratta della «liberazione» dal male e quindi della reintegrazione della pienezza di vita per tutti. R I poveri, i primi destinatari. Lc 4,18 specifica che questa proclamazione di salvezza ha per oggetto i «poveri»; la povertà va intesa non come categoria prettamente economico–sociale bensì come dimensione esistenziale trasversale di privazione, di dolore, di scoperta della fragilità e di ricerca di Dio, secondo l’assunto delle «beatitudini» del discorso della pianura (Lc 6,20–23); nella proclamazione di felicità Gesù fa un’incondizionata dichiarazione di salvezza riservata ai poveri: «beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio» (6,20). In tutto il vangelo e negli Atti degli Apostoli i poveri sono i beneficiari dell’arrivo della signoria di Dio nel mondo. La loro «liberazione» comporta l’inaugurazione dell’anno del «giubileo» annunciato in Lv 25,8–55. Questo è il tempo in cui Dio, creatore e redentore d’Israele, desidera che il popolo sia in profonda sintonia con lui e attui la restituzione della terra a chi l’aveva persa, il condono dei debiti, la liberazione degli schiavi e il riposo sabbatico di tutto il creato, esseri umani, animali e terra. L’ultimo versetto della lettura di Is 61,2a proclamava «l’anno di grazia del Signore». Ora questo tempo giubilare si compie con Gesù. Il perdono dei peccati è il piano di salvezza annunciato e realizzato da Gesù durante il suo ministero e dai suoi discepoli dopo la sua risurrezione. Per mezzo della sua missione terrena, con predicazione e miracoli, con la morte e la risurrezione, Gesù inaugura il periodo giubilare definitivo e illimitato. |
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L’annuncio della salvezza |
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Il passo liturgico del Vangelo è un testo composito, perché è costituito da due parti distinte e introduttive ai racconti seguenti. Il prologo (cf. Lc 1,1–4) spiega lo scopo dell’intera narrazione evangelica, mentre il secondo testo (cf. Lc 4,14–21) ritrae le linee fondamentali della figura di Gesù e della sua missione. Il solenne esordio del Vangelo di Luca contiene almeno tre indicazioni interessanti. Anzitutto, sono indicate con precisione le tappe del percorso storico delle parole e dei gesti di Gesù dal momento della loro trasmissione orale sino alla stesura dei Vangeli. Dapprima i testimoni oculari (apostoli e discepoli) che videro e ascoltarono il Maestro: sono il primo anello della catena della tradizione; successivamente, i molti che li hanno seguiti: la tradizione si ramifica e nascono i primi scritti, tuttavia ancora frammentari. Infine, il lavoro dell’evangelista che ha raccolto, messo in ordine e fissato la tradizione in un racconto completo, non senza imprimervi le proprie sottolineature. La seconda tappa consiste nella trasmissione dei ricordi mediante l’opera della comunità credente. A essa si può ricondurre il senso fondamentale di «servitori della Parola» (cf. v. 2), espressione che l’evangelista attribuisce direttamente ai primi testimoni, anche se non in modo esclusivo. «Servitore della Parola» denota l’atteggiamento di chi si assoggetta alla Parola e cerca con ogni cura di non tradirla; manifesta una trascrizione fedele, compiuta con senso di responsabilità; denota, infine, che gli annunciatori sono coinvolti nel discorso che fanno, si lasciano coinvolgere dalla Parola che trasmettono. La terza tappa, infine, chiarisce lo scopo preciso del lavoro compiuto dall’evangelista: mostrare la fondatezza della catechesi che veniva impartita nella comunità. Quando Luca scrive il suo Vangelo c’è già un problema di ortodossia. Circolano idee diverse e non mancano confusioni che non aiutano nella ricerca della verità. L’evangelista sottopone l’insegnamento che veniva impartito a una critica rigorosa, risalendo, come egli scrive, «fin dagli inizi» (v. 3). Egli è convinto che la fondatezza dell’insegnamento sta nella sua fedeltà alle origini. È il principio di tradizione. La fondatezza di ogni aggiornamento teologico si misura sulla sua fedeltà alla tradizione originaria. Alla luce di queste essenziali e fondamentali premesse teologiche e pastorali, che orientano la comunità cristiana nella lettura del Vangelo secondo Luca lungo tutto l’anno liturgico, si può ora accostare l’episodio ambientato nella sinagoga di Nazaret (cf. 4,14–21). La chiave del racconto si trova nel breve commento di Gesù al testo profetico proclamato: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (v. 21). Gesù non dà alcuna spiegazione esegetica, né si attarda in alcun modo alla ricerca di applicazioni morali, come invece facevano gli abituali predicatori nelle riunioni sinagogali, ma attira l’attenzione sull’evento che compie la citazione profetica: la sua venuta. L’attenzione passa così dalla Scrittura al predicatore. Gesù si proclama Messia e indica le linee programmatiche della sua missione ricorrendo alle parole dei profeti: riconosce la loro attesa, mettendone però in luce la diversità quando la dichiara compiuta oggi. Ispirandosi al passo di Isaia (cf. 61,12), Gesù mostra di concepire il suo annuncio di salvezza come una liberazione concreta e globale, attenta a raggiungere ogni uomo, in ogni sua dimensione. Tale era l’attesa dei profeti, per i quali la religione non si limitava solamente al rapporto fra l’uomo e Dio, coinvolgeva le relazioni personali fra gli individui e aveva in realtà connotazioni comunitarie e strutturali, persino politiche. Il Vangelo conosce molto bene che il centro di tutto (il vero nemico da vincere) è il cuore dell’uomo, dove si annida la resistenza più tenace al progetto evangelico. Tuttavia, riconoscere che il centro è il cuore dell’uomo non autorizza a concludere che sia sufficiente liberarlo da ogni impedimento per ritenere che il cambiamento venga da sé. La liberazione concreta e globale inizia oggi. Il tempo «adatto» è giunto e la storia degli uomini sta attraversando un momento ricco di possibilità. Il tempo presente è l’oggi di Dio. Certe speranze non si possono più semplicemente, e comodamente, rimandare al futuro. La comunità cristiana è messianica nella misura in cui si impegna a realizzare oggi le promesse di Dio, che parlano di liberazione dal peccato, di poveri che finalmente avranno giustizia, di oppressi che finalmente saranno liberati, di affamati che finalmente mangeranno. Aiuta a cogliere l’atteggiamento giusto, che occorrerebbe anche oggi assumere nella comunità cristiana, la pagina di Neemia riportata nella prima lettura (cf. 8,2–4a.5–6.8–10). Ascoltando la lettura della legge la gente si commuove, addirittura piange: «Si prostrarono con la faccia a terra» (v. 6); «tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge» (v. 9). La commozione genera pentimento; la parola di Dio induce chi l’ascolta a ritrovare la verità di sé e la distanza che lo separa da essa. La Parola può essere compresa e vissuta soltanto da chi manifesta prima un desiderio, un’attesa, un’apertura. Soltanto a queste condizioni l’annuncio di Gesù può apparire lieto e buono, rivolto a ogni discepolo che crede che Dio ha il volto della fraternità, dell’attenzione ai poveri, della giustizia e della solidarietà fra gli uomini. |