Dal libro del profeta Geremìa |
Ger 33,14-16 |
14Ecco, verranno giorni – oràcolo del Signore – nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa d’Israele e alla casa di Giuda. 15In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra. 16In quei giorni Giuda sarà salvato e Gerusalemme vivrà tranquilla, e sarà chiamata: Signore-nostra-giustizia. |
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R Introduzione. Questi pochi versetti fanno parte dei sei oracoli aggiunti al Libro della consolazione. Questa parte del libro di Geremia (capp. 30–31) è ricca di prospettive future in merito alla restaurazione del regno di Israele e di Giuda, al ritorno degli esuli, fino ad arrivare alla stipulazione di una nuova alleanza che sarà scritta nei cuori (31,31–34). La speranza di un ritorno a una situazione ideale, derivava dall’impulso di rinnovamento della fede a seguito della riforma deuteronomista apportata da Giosia (640–609 a.C.), che aveva abolito il sincretismo religioso, accentrando il culto nel tempio di Gerusalemme attorno all’osservanza della legge. Nello specifico di questi versetti (33,14–16) si fa riferimento alle future promesse fatte a Davide e ai leviti. Il presupposto storico è la distruzione del tempio e la fine della monarchia (587 a.C.). Il problema principale di questa sezione è che non compare nella versione greca di Geremia. Oltre a questo si aggiungono motivazioni linguistiche e stilistiche che fanno propendere il giudizio sull’intera pericope nella direzione di un’aggiunta tardiva. R Commento. Il versetto 14 si apre con una formula introduttiva tipica di Geremia: «Ecco verranno giorni». L’espressione dischiude una prospettiva temporale futura in cui si realizzeranno le promesse del Signore fatte alla casa di Israele e di Giuda (nel Libro della consolazione, Ger 30–31). L’immagine del “germoglio” (ṣemaḥ) (Ger 33,15) appare altre volte nella letteratura profetica. Isaia lo fa spuntare dalla radice di Iesse (Is 11,11); Zaccaria lo considera un nome proprio e lo applica a Zorobabele perché, germogliando (nell’originale ebraico è presente un gioco di parole), ricostruisca il tempio del Signore (cf. Zc 3,8; 6,12). Quindi “germoglio” ha un chiaro riferimento messianico e il periodo cronologico a cui si rimanda («in quei giorni e in quel tempo», Ger 33,15) è il futuro regno davidico riletto nella chiave del messianismo regale. Si inserisce, a questo punto, il tema della giustizia: si tratta di «un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra» (33,15). Questo passaggio è tutto giocato sul termine giustizia (ṣedaqâ) e sulla sua presenza nelle denominazioni proprie. In precedenza nel libro di Geremia si era già fatto riferimento al germoglio (23,5–6). La prospettiva messianica lo aveva indicato come colui che avrebbe regnato con saggezza, esercitando il diritto e la giustizia, a differenza dei cattivi pastori, che rappresentavano i governanti malvagi. In particolare il re Sedecia rappresenta la disfatta di Gerusalemme e la caduta definitiva della monarchia nel 587 a.C. (2 Re 25,6–7). Il nome Sedecia significa “Signore mia giustizia” e si contrappone chiaramente al nuovo nome di Gerusalemme, capitale del restaurato regno messianico. La città sarà chiamata “Signore nostra giustizia” (Ger 23,6; 33,16) in aperta opposizione alla catastrofica sorte verso la quale la scellerata condotta del sovrano aveva condotto il popolo (e la città). Nel prosieguo del testo, oltre i confini della selezione liturgia per questa domenica, vengono citati anche i leviti come destinatari della promessa del Signore, che garantisce la loro presenza perpetua. Questo fatto contribuisce a datare il passo all’epoca post esilica, in cui il sacerdozio levita ha un ruolo significativo in stretta relazione con il potere amministrativo civile. |
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Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési |
1Ts 3,12-4,2 |
Fratelli, 12il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, 13per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi. 41Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù affinché, come avete imparato da noi il modo di comportarvi e di piacere a Dio – e così già vi comportate –, possiate progredire ancora di più. 2Voi conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù. |
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R Introduzione. I versetti che vengono letti questa domenica costituiscono una cerniera tra le due parti della Prima lettera ai Tessalonicesi. I primi tre capitoli, di carattere autobiografico, si concludono con una preghiera (3,11–13) e un augurio alla comunità. La seconda parte della lettera (4,1–5,22), di carattere parenetico, tratta temi diversi ed è introdotta da un’esortazione, che richiama l’esempio del comportamento di Paolo e sottolinea la continuità della buona condotta della comunità. R Commento. Nella preghiera che conclude la sezione autobiografica (1,1–3,10) Paolo si rivolge direttamente a Dio Padre (e al Signore Gesù) perché favorisca i Tessalonicesi. Vengono accostati i due verbi crescere e abbondare (pleonázō e perisséuō, 3,12) per enfatizzare l’augurio e rendere ancora più evidente l’amore sovrabbondante che si augura possa instaurarsi nella comunità. Il tema dell’amore è trasversale in tutta la lettera da quando i Tessalonicesi si sono convertiti perché amati da Dio (1,4) e dallo stesso Paolo (2,8). Un amore messo in pratica dai membri stessi della comunità insieme alle altre virtù teologali (1,3) e rivolto verso Paolo (3,6). Anche nel prosieguo della lettera si parla dell’amore reciproco (4,9) e verso i responsabili della comunità (5,13). Nella preghiera di Paolo l’orizzonte è escatologico. Il termine tecnico utilizzato è quello di parusía (venuta)ed è associato al giudizio di Dio e al ritorno di Gesù (1,10). I cristiani devono quindi essere saldi e irreprensibili nella santità (3,13) e questo garantirà loro un esito positivo del giudizio. Nella seconda parte della lettera (4,1–5,22) verranno affrontati i temi concreti e puntuali in cui si declina la santità richiesta. Nella selezione liturgica per questa domenica viene letta solo l’introduzione (4,1–2) che si lega alla sezione precedente con una formula avverbiale (loipón ûn) che non esprime tanto un senso di sequenza temporale (“dunque passiamo ad altre cose che rimangono ancora da trattare”) ma di deduzione logica (“quindi, in base a ciò che è stato enunciato in precedenza, consegue che”). Questo passaggio è cruciale per dimostrare la stretta connessione tra le due parti della lettera. Il lessico diventa fortemente esortativo e accorato e riconosce la buona condotta dei Tessalonicesi che possono solo migliorare. Perseverando nell’osservanza delle norme e dei precetti dati da Paolo potranno presentarsi irreprensibili al momento del giudizio finale. |
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X Dal Vangelo secondo Luca |
Lc 21,25-28.34-36 |
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 25«Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, 26mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. 27Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. 28Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. 34State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; 35come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. 36Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo». |
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R Introduzione. Siamo nella sezione denominata “piccola apocalisse” del Vangelo secondo Luca che comprende gran parte del capitolo 21. Nei versetti proclamati in questa domenica si verificheranno due avvenimenti: il cielo e la terra indicheranno con forti scosse che la fine è imminente (21,25–26), poi apparirà il Figlio dell’uomo (21,27 con riferimento alla visione del figlio dell’uomo di Dn 7,1314). Di fronte a questi segni la comunità cristiana sarà invitata a non lasciarsi opprimere ma, al contrario, a rallegrarsi per la prossimità della liberazione. R I segni premonitori. Questi segni premonitori (annunciati già in 21,11) coinvolgeranno i tre corpi celesti conosciuti dalla scienza antica: sole, luna e stelle. Quindi avverranno sia di giorno sia di notte. Nel mondo antico la lettura delle evoluzioni dei corpi celesti era di grande interesse e si credeva che accompagnassero degli eventi importanti. Anche nella letteratura profetica incontriamo questi riferimenti ad esempio nel libro di Gioele (3,3–4). Gli sconvolgimenti del mondo marino a loro volta inquietano e spaventano gli Israeliti che non sono gente di mare e per questo temono anche le inondazioni (cf. Sal 65,8). L’umanità sarà soffocata dalla paura di ciò che dovrà accadere e che viene preannunciato da segnali così terrificanti. Infatti le potenze dei cieli saranno fatte saltare (Lc 21,26). Il verbo saléuō potrebbe alludere a una danza cosmica generata dalle potenze del male. A questo proposito ci potrebbe essere un collegamento con il Salmo 28, che a sua volta risente di esplicite influenze del mondo letterario levantino. In ogni caso, saléuō è un verbo utilizzato anche in altri passaggi apocalittici del Nuovo Testamento come, ad esempio, in Eb 12,2627. La fine viene immaginata come una specie di anticreazione, una catastrofe universale e finale entro la quale prende forma il “Figlio dell’uomo” (Lc 21,27). L’immagine, mutuata da Dn 7,13, descrive l’apparizione del Messia risorto che viene a giudicare i popoli (cf.Ap 19,11–16). Il Signore universale è circondato dalle forze angeliche e ristabilisce la giustizia e la pace. R Tensione verso la parusía. Paolo esprime questo concetto nella manifestazione finale della parusía (soprattutto nelle lettere pastorali: 1 Tm 6,14; 2 Tm 4,1.8; Tt 2,13). Non mancano i riferimenti a questo tema anche negli altri due sinottici (Mt 16,27; 19,28; 24,30; 25,31; Mc 13,26; 14,62). Ma lo stesso Luca utilizza il titolo di “Figlio dell’uomo” e allude al suo arrivo finale (cf. Lc 5,24; 9,26; 17,22.26). La seconda venuta di Gesù, quella della parusía, è caratterizzata non più dalla sofferenza e dalla debolezza ma dalla potenza e dalla gloria. Di fronte a tutto questo i discepoli, distinti dalla generica umanità, si dovranno letteralmente “mettersi in posizione eretta” ed elevare il capo. Lo stesso verbo (anakýptō) è presente nel racconto del miracolo della donna curva per descrivere la sua posizione fisica obbligata (Lc 13,11). Il cambio radicale e repentino di posizione indica che la liberazione dalle oppressioni e dalle persecuzioni è vicina. Al contrario, coloro che non sono discepoli, soccomberanno e si piegheranno (saranno soffocati). La “liberazione” che prospetta Luca fa riferimento ad altri passaggi del suo vangelo. Si possono ricordare il Magnificat (1,46–55), le beatitudini (6,20–26), le istruzioni per la missione (10,6–11) e la parabola di Lazzaro e del ricco (16,19–31). In queste citazioni emerge un concetto di libera zione che ha un carattere sia personale sia sociale, prevede il rinnovamento del corpo e dell’anima, la fine dell’iniquità e dell’oppressione, l’instaurazione della giustizia e della pace. Infine il termine liberazione (apolýtrōsis) indica il riscatto pagato in particolare per un prigioniero di guerra. Nella rilettura teologica il termine assume il significato soteriologico di “redenzione” e, di conseguenza, il “redentore” è Gesù, arrivando quindi ad assumere una piena valenza cristologica. R L’atteggiamento del credente. Saltando la parabola del fico (21,29–33), la selezione liturgica della pericope presenta i versetti finali che contengono delle raccomandazioni morali (21,34–36). Non sono semplicemente dei consigli saggi per una vita sana, ma devono essere letti in prospettiva escatologica. Si cita, infatti, il “giorno”, con chiaro riferimento a questo tema trattato nella letteratura profetica anticotestamentaria (cf. Am 5,18). È presente anche il carattere inaspettato, se non minaccioso, dell’arrivo di quel momento che riguarderà tutti gli abitanti della terra. Infine è chiaro che ci si riferisce al futuro giudizio del Figlio dell’uomo. La condotta del discepolo deve essere modellata su due verbi: “state attenti”, 21,34 (proséchō) e “vegliate”, 21,36 (agrypnéō). Sono le due azioni tipiche del credente che attende il termine della storia della salvezza. Da questo atteggiamento di fondo deriva uno stile di vita che ha a che fare con le scelte nella quotidianità (21,34). Il cuore non deve essere letteralmente “appesantito”, come potrebbe essere per lo stomaco, da una digestione spirituale difficile. Le crapule, le ubriacature le ansietà portano a uno stato spirituale (e mentale) intossicato, dipendente, sempre esagerato e polarizzato. I soggetti che si abbandoneranno a queste condotte di vita saranno intrappolati dal “giorno del Signore”. A questo proposito può essere richiamata la parenesi paolina di 1 Ts 5,1–11. L’ubriacatezza, il sonno e la notte rappresentano la componente figurativa del peccato e della negazione di Dio. Viceversa il digiuno e la vigilanza sono come un’armatura di fede e un elmo di speranza in vista della salvezza. R Conclusione. È, infine, da sottolineare il fatto che la vigilanza sia accompagnata dalla preghiera costante (Lc 21,36). L’invito ritorna anche nel prosieguo del passo citato di Paolo ai cristiani di Tessalonica (1 Ts 5,17). Vegliare e pregare consentono di scappare (Lc 21,36) non nel senso di una fuga vigliacca ma nel senso positivo di essere “profughi” del Signore, ovvero coloro che hanno trovato il loro rifugio in Dio (cf. Eb 6,18). |
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Il Figlio dell’uomo |
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«In quei giorni e in quel tempo» (Ger 33,15): l’avvento si apre con la profezia di Geremia, una parola di speranza rivolta a coloro che incominciavano a perderla, e che esprime in realtà tutta la fiducia in Dio salvatore. Il profeta offre una buona notizia: un giorno sorgerà un re saggio, un discendente (germoglio) di Davide, depositario delle promesse divine. Egli stabilirà il diritto e la giustizia in Gerusalemme dopo aver riunito tutto il popolo disperso. Questo re futuro sarà il segno della presenza particolare di Dio giusto e salvatore sulla terra. In questo sguardo del profeta proteso in avanti, verso l’incontro di un Dio che interviene nella storia, si inserisce nelle sue alterne vicende, si può collocare il composito brano di Luca (cf. 21,25-28.34-36), un breve stralcio del discorso apocalittico, parallelo a quello che la liturgia propone nella trentatreesima domenica dell’anno B (cf. Mc 13,24-32). Lo scopo è di assicurare che il Signore sia vicino. Si parla molto di «giudizio», tuttavia l’intento dominante non è di intimorire, quanto piuttosto di consolare i buoni ed esortarli a perseverare, a rimanere saldi nella loro fedeltà e a non lasciarsi sorprendere o fuorviare. Con un linguaggio abituale in questo genere di discorsi (segni nel sole, nella luna e nelle stelle, le potenze celesti saranno sconvolte) l’evangelista si preoccupa, anzitutto, di esprimere un dato di fede, testimoniato da tutto il Nuovo Testamento: il ritorno del Figlio dell’uomo. Un ritorno che ha due facce, di giudizio e di salvezza. Un giudizio severo e senza riguardi per nessuno, come si precisa altrove in un passo parallelo: «In quella notte, due si troveranno nello stesso letto: l’uno verrà portato via e l’altro lasciato; due donne staranno a macinare nello stesso luogo: l’una verrà portata via e l’altra lasciata» (Lc 17,34-35). Ci si può chiedere sulla base di quale criterio avverrà questo giudizio, talmente rigoroso che l’evangelista sente il bisogno di concludere l’intero discorso consigliando di pregare «perché abbiate la forza […] di comparire davanti al Figlio dell’uomo» (Lc 21,36). La risposta non si trova nel passo evangelico proposto dalla liturgia, ma in altri due contesti del Vangelo lucano. Il primo è il seguente: «Chi si vergognerà di me e delle mie parole, di lui si vergognerà il Figlio dell’uomo quando verrà nella gloria sua e del Padre e degli angeli santi» (Lc 9,26). Il secondo si trova alcuni capitoli più avanti: «Ricordatevi della moglie di Lot. Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva» (Lc 17,32-33). Il giudizio avverrà, dunque, sulla base della posizione che si assume nel momento attuale nei confronti del Cristo, precisamente nei confronti del Cristo incamminato verso la croce. Difatti la prima affermazione («Chi si vergognerà di me») conclude un discorso di Gesù sulla croce che lo attende, mentre la seconda («Chi perderà la propria vita, la manterrà viva») è una formula usata in tutto il Nuovo Testamento per esprimere il progetto di vita del Crocifisso. Diventa così chiaro che il giudizio di condanna è per coloro che hanno rifiutato la via della croce («se ne sono vergognati») e hanno preferito la via dell’egoismo, della violenza e del successo cercato a qualunque costo e con qualunque mezzo. La venuta del Figlio dell’uomo costituirà per tutti costoro una denuncia delle loro trame, la dimostrazione pubblica del fallimento di tutte le loro pretese. Per i discepoli invece – che non si sono vergognati del loro maestro – sarà il trionfo, il momento cioè in cui apparirà a tutti, con estrema evidenza, che l’amore che essi hanno vissuto – e non altro – è il vero progetto che l’uomo deve inseguire. Dall’annuncio di fede scaturiscono molteplici conseguenze pratiche, che l’evangelista riassume nel dovere della vigilanza: «Risollevatevi e alzate il capo» (Lc 21,28), «State attenti» (v. 34), «Vegliate in ogni momento pregando» (v. 36): di questo dovere Luca ci spiega il fondamento e le modalità. Il fondamento: «La vostra liberazione è vicina» (v. 28). È un’affermazione da intendersi bene. Non significa che il ritorno del Figlio dell’uomo sia oggi o domani, ma che tutta la storia è immersa nell’imminenza delle ultime cose: in questo senso la liberazione è prossima a ogni generazione. Sempre il tempo è importante e decisivo (di qui l’urgenza della vigilanza), non necessariamente perché breve, ma perché ricco di occasioni dalle conseguenze incalcolabili, denso di possibilità di salvezza (o di condanna). Le modalità: vigilare significa non avere il cuore «appesantito»; vigilanza è libertà, disponibilità, acutezza, prontezza di discernimento e di decisione. Il ritorno del Figlio dell’uomo non sarà preceduto da segni premonitori e rassicuranti: giungerà all’improvviso. Ciò che conta, perciò, è essere pronti sempre, attenti a non lasciarsi sorprendere. C’è, invece, il rischio che, distratti dalle cose secondarie e non attenti al fatto essenziale, non si sappia scorgere i momenti propizi di cui la vita è ricca. Non è soltanto questione di disordini morali o di sregolatezze («dissipazioni e ubriachezze»), ma anche – più semplicemente – della vita, dei suoi «affanni» e dei suoi molti problemi. Anche una vita «onesta» può riuscire distratta, se non si ha il coraggio di rimanere vigilanti, in preghiera («Vegliate in ogni momento pregando», v. 36). |