Dal libro del Deuteronòmio |
Dt 6,2-6 |
Mosè parlò al popolo dicendo: 2«Temi il Signore, tuo Dio, osservando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così si prolunghino i tuoi giorni. 3Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica, perché tu sia felice e diventiate molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto. 4Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. 5Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. 6Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore». |
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La lettura tratta dal Deuteronomio riporta un brano essenziale per la fede di Israele e per la teologia biblica: la preghiera denominata šema’ yiśre’el che gli ebrei ancora oggi recitano tre volte al giorno. In primo luogo, il Deuteronomio invita i cristiani a temere Dio, vale a dire a riconoscere la propria condizione di creature e, al contempo, a manifestare rispetto e umiltà di fronte al Creatore (per il timor di Dio, cf. Pr 15,33; 22,4; Sir 1,30; 2,17). Tale atteggiamento si concretizza nell’osservanza integrale dei comandamenti, una scelta che condiziona la vita in modo assoluto e che diviene un impulso a trasmettere la fede alle generazioni future. Il Deuteronomio, tuttavia, chiarisce immediatamente che il Signore non intende sottomettere i suoi ascoltatori alla legge per motivi personali, ma perché essi siano favoriti: la legge è infatti donata perché «si prolunghino i tuoi giorni» (v. 2) e «perché siate felici e diventiate molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele» (v. 3). La Tôrâ non ha altra finalità se non quella di rendere felice colui che la compie e di portarlo a una vita piena (la terra piena di delizie). Per ben due volte, Mosè si rivolge al popolo (e con esso a tutti coloro che sono presenti all’eucaristia domenicale) ripetendo l’espressione: «Ascolta!». L’ascolto presuppone certamente il silenzio dell’ascoltatore, ma l’uso dell’imperativo dimostra che Mosè sta chiedendo attenzione e con essa una decisione per Dio; l’appello, infatti, attende una risposta che manifesti il desiderio di accogliere l’invito. Il brano centrale dello šema’ volge in positivo il primo comandamento di Es 20,3 («Non avrai altri dèi di fronte a me»), proclamando l’unicità di Dio. Il v. 5, quindi, chiarisce quale sia l’atteggiamento richiesto da questa dichiarazione di base: «Amerai YHWH, tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutte le tue forze». Il linguaggio dell’amore era usato nelle culture vicine a quella di Israele per esprimere la fedeltà a un superiore; in questo caso, l’atto di amore coinvolge la persona in modo molto più profondo e soprattutto la ripetizione del termine «tutto» crea una sequenza in crescendo che dà l’impressione di una totalità piena: Dio chiede un amore eccessivo e superlativo. Per la tradizione ebraica, le tre dimensioni chiamate in causa possiedono ciascuna una propria sfera di azione; amare Dio con tutto il cuore significa aderire a Dio con un cuore indiviso, senza lasciare spazio ad altri idoli (sete di denaro, ricerca del potere, affermazione personale ecc.); amare Dio con tutta l’anima può voler dire che si è pronti a dare la vita per il Signore; amarlo con tutte le forze, invece, significa considerarlo più prezioso di qualsiasi ricchezza materiale (cf. Sifre Deuteronomio, § 32). La lettura si conclude con un invito a coltivare la propria relazione con Dio, custodendo le parole divine nel cuore e identificando in questo modo la Parola come una vera via per arrivare ad amare Dio in maniera più piena. |
Dalla lettera agli Ebrei |
Eb 7,23-28 |
Fratelli, [nella prima alleanza] 23in gran numero sono diventati sacerdoti, perché la morte impediva loro di durare a lungo. 24Cristo invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. 25Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore. 26Questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli. 27Egli non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso. 28La Legge infatti costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti a debolezza; ma la parola del giuramento, posteriore alla Legge, costituisce sacerdote il Figlio, reso perfetto per sempre. |
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La seconda lettura è tratta da una sezione della Lettera agli Ebrei in cui si precisano le qualità che rendono Gesù Cristo un sommo sacerdote speciale. Mentre il sacerdozio antico è un’istituzione ereditaria che prevede un numero incalcolabile di ministri, il sacerdozio di Gesù Cristo è unico ed eterno. La differenza principale tra le due tipologie è costituita essenzialmente dalla morte: i sacerdoti antichi muoiono, quindi non possono rimanere per sempre (v. 23); Gesù Cristo, invece, ha attraversato la morte ed è risorto; asceso al cielo, vive in eterno e possiede un sacerdozio «permanente» (v. 24). Proprio per questo, egli può portare la salvezza al suo pieno compimento e può concedere ai cristiani la possibilità di accedere a Dio. Il v. 25 ricorda che Gesù Cristo risorto è vivo «sempre», la risurrezione lo ha portato a una condizione di esistenza che non muta più. In cielo può svolgere quindi la sua funzione di intercessione. Tale insistenza dimostra che la grazia della salvezza si fonda su una doppia iniziativa divina: il Padre desidera che gli esseri umani siano salvati, il Figlio intercede perché essi possano accogliere la salvezza e avvicinarsi a Dio. D’altra parte, Gesù è al contempo sacerdote e vittima; in questo consiste la superiorità del suo sacrificio: Egli sacrifica se stesso. Gesù è il sacerdote perfetto perché santo, in quanto Figlio di Dio separato dagli uomini e particolarmente unito a Dio (At 2,27; 13,35); Egli è innocente, provato in tutto, non può cedere al peccato ed è fedele al Padre (Eb 4,15), obbedendo a Lui (5,8). La qualifica «senza macchia» è sinonimo di «santo» (2 Mac 14,36), e il riferimento alla separazione dai peccatori insiste sullo stesso punto: appartenendo a Dio non viene attirato dalla compagnia dei trasgressori (Sir 13,17) e per questo è divenuto, grazie alla risurrezione, più alto dei cieli (Eb 7,26), vittorioso (9,24). Gesù, quindi, non ha bisogno di offrire il sacrificio ogni giorno (Mishnah Tamid 7,3), perché ha offerto se stesso (Eb 7,27), ha dato la propria vita in riscatto per gli uomini (Gal 1,4; 1 Tm 2,6); il suo amore ha la forza di cancellare il peccato sul legno della croce. Infine, il v. 28, conclude la lettura ricordando che mentre i sommi sacerdoti rimangono uomini soggetti a debolezza, il Figlio crocifisso e risorto è reso perfetto dal Padre, sacerdote per sempre. |
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X Dal Vangelo secondo Marco |
Mc 12,28-34 |
In quel tempo, 28si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». 29Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; 30amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. 31Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi». 32Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; 33amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». 34Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo. |
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R Il primo di tutti i comandamenti. La scena descritta dal vangelo è ambientata nel tempio, durante l’ultima settimana di Gesù prima della Passione. In Mc 12,28–34 si descrive l’incontro di un singolo con Gesù e non l’iniziativa di un gruppo, come succede nei passi precedenti (cf. 12,13.18). La persona, quindi, sembra mossa da un interesse sincero. La domanda dello scriba riflette una preoccupazione che era molto sentita nel mondo rabbinico: la ricerca di una formulazione densa e sintetica con cui esprimere il nucleo più essenziale della Tôrâ. Nel Talmud Babilonese, si trova un brano interessante da questo punto di vista in cui appaiono due rabbini del I secolo d.C., Hillel e Shammai. Un pagano chiede a Shammai: «Rendimi un proselito a condizione che tu mi insegni tutta la Tôrâ mentre io rimango fermo su un solo piede», ma Shammai lo scaccia; questi allora si rivolge a Hillel e il rabbino risponde: «Non fare al tuo prossimo ciò che per te è odioso; questa è la Tôrâ intera. Il resto è interpretazione» (Shabbat 31a). La domanda dello scriba è ancora più radicale di quella del pagano: usando l’aggettivo pántōn («di tutti») al neutro, l’interrogativo non si riferisce solo al primo elemento di una serie («il primo di tutti i comandamenti»), ma al fondamento stesso (si può tradurre: «il primo comandamento di tutte le cose/di ogni cosa»). R Ascolta Israele! Gesù risponde citando lo šemà’, il brano del Deuteronomio in cui si dichiara che Dio è unico. Il primo comandamento, quindi, richiede che il Signore diventi oggetto di un amore totale e pieno. Le prime due facoltà menzionate (cuore e anima) riprendono il passo di Dt 6,5 in greco e fanno riferimento al nucleo della coscienza, del pensiero e della volontà (il cuore), e alla vita (l’anima) che può anche essere sacrificata per amore (Mc 8,35). La quarta facoltà riprende in qualche modo lo šemà’, ma adotta una formulazione più generale, senza che sia esplicito il riferimento ai beni: «con tutta la tua forza (ischýs, «potere, capacità»)». Oltre a questi tre elementi, Gesù ne aggiunge un altro non presente nella citazione del Deuteronomio: la diánoia, «mente» (Ef 4,18); l’amore per il Signore coinvolge quindi anche il pensiero e l’intelligenza, la fede non consiste in una credenza irrazionale e cieca (2 Pt 3,1). R Il secondo comandamento. In linea con la discussione rabbinica riportata all’inizio, ma in maniera del tutto originale, Gesù collega allo šemà’ un secondo comandamento, citando alla lettera Lv 19,18b: «Amerai il tuo prossimo come te stesso». Agostino, per esempio, interpreta la gerarchia di questi due comandi in maniera piuttosto singolare: amare il prossimo significa condurlo al vero bene, quindi a Dio. Al Signore «volgerai l’affetto del tuo cuore. In tal caso posso affidarti il prossimo […]. Conducilo a Lui!» (Discorsi 90,11). Pur essendo associati, dunque, i due comandi non sono identici: solo amando Dio con tutta la propria persona, si può scoprire che mentre si lascia tutto, in realtà «ti vieni a trovare là dove non ci si perde» (Discorsi 90,9); d’altra parte, si possono amare gli altri in maniera autentica (non cadendo nel tranello di relazioni tossiche, di dipendenze affettive ecc.) solo nel momento in cui si trova piena gratificazione nella relazione con Dio; d’altra parte, si deve anche riconoscere che l’amore per il Signore non conduce mai alla durezza verso gli altri: «Chi infatti non ama il fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20). La centralità del primo comandamento è espressa anche nel versetto scelto per l’acclamazione al vangelo: «Se uno mi ama osserverà la mia parola, dice il Signore, e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui» (Gv 14,23); tale amore esclusivo si compie perfettamente sulla croce, quando Gesù Cristo ama Dio con tutto il cuore (trafitto), tutta la vita (si sacrifica per gli uomini) e tutte le forze (la croce, che lo inchioda e lo rende impotente, diventa «potenza di Dio», 1 Cor 1,18). R La risposta dello scriba. Il Vangelo di Marco riporta anche la risposta dello scriba e per questo motivo è unico rispetto agli altri sinottici. La sua reazione può essere spiegata in diversi modi. Da una parte, in linea con il quadro didattico in cui si svolge questa scena, lo scriba riconosce che Gesù è un «Maestro» e afferma che ha pronunciato parole che sono vere e benefiche («Hai parlato bene»). Inoltre, riprende le parole appena sentite e le riformula, con alcune variazioni; questa ripetizione è una rappresentazione del giusto coronamento di ogni insegnamento ben riuscito: il discepolo accoglie le parole del Maestro e se ne appropria in maniera personale; in questo caso le collega a un’altra citazione della Scrittura (v. 33: «vale più di tutti gli olocausti e sacrifici»; cf. Os 6,6), in cui si trova una conferma di quanto detto da Gesù. Mentre le ripete, tuttavia, le tradisce leggermente. R La relazione con Dio. Le parole del Maestro sono riportate con alcune differenze: lo scriba non ripete le parole iniziali, «Ascolta, Israele!», e l’invito formulato alla seconda persona singolare, «amerai…», diventa una considerazione fatta alla terza persona, «amarlo…». Il passo dello šemà’ è vibrante e in esso si trova un appello rivolto a un «tu», con cui si cerca l’ascolto della persona e si manifesta l’intenzione di stringere una relazione; la forma imperativa, «amerai», intende muovere l’ascoltatore e spingerlo a decidere per Dio. Lo scriba, invece, risponde in maniera teorica e concettuale, non è coinvolto dalla Parola che ha pronunciato Gesù, non si sente messo in questione rispetto al suo amore per Dio, ma ragiona in senso generale («Egli è unico […] amarlo con tutto il cuore…», vv. 32–33). Il vangelo loda la risposta dello scriba e gli riconosce una certa sapienza («vedendo che aveva risposto saggiamente», v. 34): non ha lasciato cadere le parole di Gesù, ma le ha fatte proprie; nonostante ciò, il Maestro lo invita ad entrare in una relazione più intima e personale: Gesù Cristo, regno di Dio in persona, riconosce che egli si è avvicinato («non sei lontano dal regno di Dio», v. 34), ma gli ricorda che non è ancora entrato nel Regno. Nel vangelo, quindi, ogni cristiano è incoraggiato a fare un salto in avanti assieme allo scriba, per poter passare da un cristianesimo fondato su valori teorici, alla relazione personale con Gesù Cristo. |
Il cuore della legge e dei comandamenti è l’amore |
Un solo comandamento: amare Dio e il prossimo |
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Il passo del Deuteronomio (cf. 6,2-6) è tutto una serie di imperativi («ascolta», «bada di metterli in pratica», «amerai il Signore tuo Dio», «ti siano fissi nel cuore»), uniti insieme a formare un unico grande appello che introduce l’esortazione che si estende per tutto il sesto capitolo, sottolineandone l’importanza. L’accento cade sull’amore di Dio, di cui vengono indicate, sia pure frettolosamente, alcune importanti caratteristiche. «Amerai il Signore tuo Dio» (v. 5): non soltanto dunque il timore («perché tu tema il Signore», v. 2), né soltanto l’obbedienza e il servizio («osservando […] tutte le sue leggi e i suoi comandi», v. 2), ma l’amore, che è tensione, slancio, sentimento, preferenza. Dio non si accontenta del timore e del servizio: vuole l’amore, l’adesione del cuore. L’amore è il vero sentimento degno di Dio. Ed è un amore ampiamente ricompensato: «Così si prolunghino i tuoi giorni» (v. 2), «perché tu sia felice» (v. 3). Donandosi completamente al Signore l’uomo non si svuota ma si riempie, e ritrova tutto se stesso più profondamente. A sua volta Gesù riformulerà questo concetto in un modo che potrà sembrare paradossale, ma che in realtà è perfettamente vero: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,35). Parole dure, che noi crediamo impossibili e paradossali, e che invece i santi hanno trovato semplici e vere! Soprattutto Dio vuole un amore serio e impegnato: non parole, né semplici entusiasmi passeggeri e inconcludenti, ma atteggiamenti fattivi e concreti. Il primo modo di concretizzare l’amore di Dio è l’ascolto della sua Parola, imperativo ripetuto nel nostro passo due volte. «Ascolta, Israele» è una formula che ricorre con frequenza nel Deuteronomio e che anche Gesù ripete nell’episodio evangelico (cf. Mc 12,28-34). Probabilmente era l’appello abituale con cui nei tempi antichi si apriva l’assemblea di culto, divenuta poi una formula indicante l’atteggiamento fondamentale del popolo di Dio: un popolo sempre in ascolto della parola del Signore, l’orecchio attento e disponibile. Una Parola, quella del Signore, che non si stanca di ribadire lo stesso concetto, articolando, approfondendolo e traendone tutte le conseguenze: «il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore» (v. 4). Non c’è verità più importante di questa, né più impegnativa. Non basta credere che esiste Dio, occorre sapere che questo Dio è nostro: un Dio con noi e che in Gesù è persino diventato uno di noi. L’incarnazione del Figlio di Dio — il cuore della nostra fede — ci assicura che Dio è diventato nostro in un modo impensabile: non solo un Dio che si china sull’uomo garantendone la dignità e difendendone i diritti, e non un Dio che ha creato l’uomo a sua immagine, ma un Dio che assume egli stesso un volto d’uomo. Il secondo modo di concretizzare l’amore di Dio è l’osservanza dei comandamenti, e anche su questo punto il testo insiste molto. I comandamenti di Dio sono numerosi e toccano tutti gli ambiti della vita, eppure chi legge i testi legislativi dell’Antico Testamento – e lo stesso libro del Deuteronomio – ha una sorpresa: il comando fondamentale, che sta alla base di tutti gli altri, e sempre ripetuto, è «Dio soltanto». Tuttavia ci si accorge che il maggior numero dei comandamenti e delle prescrizioni riguarda le relazioni fra gli uomini, i diritti e i doveri delle persone, soprattutto nei confronti degli orfani e delle vedove, degli immigrati, dei nullatenenti, degli schiavi. La morale biblica ha come scopo primo e come comandamento base l’affermazione del primato di Dio, ma proprio in questo primato di Dio trovano forza i doveri verso l’uomo: se si vuole imitare Dio, bisogna amare gli uomini. Prolungando questa intuizione anticotestamentaria, Gesù ha strettamente congiunto i due doveri, facendone le due facce di un unico amore, i due lati di un solo comandamento: «Non c’è altro comandamento più grande di questi» (v. 31). Ed è proprio nella capacità di tenere uniti questi due amori al punto da farne uno solo (Gesù, come si vede, si esprime al singolare!), che si misura la vera fede. C’è chi per amare Dio si estranea dagli uomini, e chi per lottare a fianco degli uomini dimentica Dio. L’esperienza biblica si dice convinta che questi due atteggiamenti introducano nell’esistenza degli uomini e delle comunità una profonda menzogna: là dove i due amori vengono separati c’è falsità e idolatria. Se dici di amare Dio e trascuri il prossimo, non reagisci di fronte alle ingiustizie e non lotti contro le oppressioni, a quale Dio ti riferisci? Non certo al Dio di Gesù Cristo, ma a un dio che tu stesso ti sei costruito. E se dici di amare il prossimo e di essere al suo servizio, ma poi rifiuti di donarti totalmente all’unico Signore, allora cadrai facilmente in potere degli idoli (la tua ideologia, i tuoi modelli di liberazione, la tua politica), e mentre pensi di amare il prossimo ti accorgi che lo stai strumentalizzando: pretendi di liberarlo imponendogli le tue idee, la tua visione del mondo, la tua giustizia. E quel che in un certo senso è ancora più grave è che proprio mentre vuoi aiutare l’uomo a essere più uomo, lo allontani dal suo bisogno più profondo, dalla sua ricerca più essenziale, che è appunto la ricerca di Dio. Gesù ha detto di amare il prossimo come se stessi, e dunque occorre impegnarsi per la liberazione dell’uomo, ma nella generosa lotta per l’uomo è necessario affermare il primato di Dio, che deve essere amato con tutta l’anima e occupare il primo posto nel nostro cuore. I due amori (a Dio e al prossimo) sono dunque strettamente congiunti, l’uno è la verifica dell’altro. Tuttavia sono anche diversi: la misura del nostro amore a Dio è la totalità («con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza», v. 30), la misura dell’amore al prossimo no («come te stesso», v. 31). A Dio l’appartenenza totale è incondizionata, all’uomo no, l’uomo è da aiutare, servire e amare, ma non da adorare. Il prossimo non è il «Signore», non è la ragione ultima della nostra ricerca. Infine si osservi come l’atmosfera del brano sia diversa da quella degli altri dibattiti. Fra lo scriba e Gesù c’è una specie di reciproca ammirazione: lo scriba riconosce che Gesù ha risposto bene e Gesù riconosce a sua volta che la riflessione dello scriba è piena di buonsenso e che perciò egli non è «lontano dal regno di Dio» (v. 34). Abitualmente il Vangelo tratta gli scribi assai duramente, qui invece no, dunque anche fra gli scribi ci sono persone «non lontane». Per il Vangelo non esistono categorie di uomini escluse per principio, l’apertura al Vangelo può germogliare dovunque. E ancora, lo scriba, lascia intendere il racconto evangelico, non è lontano dal regno di Dio perché ha compreso che l’amore è il centro della questione. Capire la verità dell’amore di Dio e del prossimo significa non essere lontano dal regno di Dio. Questo è importante e ci permette di pensare (e sperare) che i «vicini» al regno siano numerosi, presenti in tutti i popoli e in tutte le religioni: dovunque si cerca la verità e si ama il prossimo il regno di Dio non è lontano. E tuttavia non è ancora il regno di Dio, vicino ma non il regno, perché il regno è là dove il Cristo è riconosciuto. |