Colletta allo Spirito Santo   O Padre, che nella luce dello Spirito Santo guidi i credenti alla conoscenza piena della verità, donaci di gustare nel tuo Spirito la vera sapienza e di godere sempre del suo conforto. Per Cristo nostro Signore. Amen.
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La mano che tocca la veste del Maestro e Gesù che si volta verso chi ha la vera fede.
Dal libro della Sapienza
Sap 1,13–15; 2,23–24
13Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. 14Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte, né il regno dei morti è sulla terra. 15La giustizia infatti è immortale. 2 23Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura. 24Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono.
 
La prima lettura annuncia all’assemblea celebrante una buona notizia: «Dio non ha creato la morte» e «non gode per la rovina dei viventi» (Sap 1,13). Il termine «morte» usato nel v. 13 è in parallelo con apṓleia, «rovina» (altrove contrario di sōtēría, «salvezza», 18,7); per questo si ritiene, anche alla luce del contesto, che il brano non faccia riferimento alla morte fisica, bensì alla rovina di chi si allontana da Dio (1,16; cf. Ez 18,32). Il discorso continua nel v. 14 volgendo in positivo quanto detto: il disegno divino (cf. Gen 1–3) si fonda su un progetto in cui non c’è spazio per la morte. Non solo, la creazione stessa è portatrice di salvezza (cf. Sap 16,24), partecipa al piano di Dio; essa non è copia sbiadita della realtà vera (forse si polemizza con il Platonismo), ma, in quanto frutto dell’opera di Dio, è buona. L’enigmatico v. 15, poi, conclude la prima parte della lettura con un’affermazione netta: «La giustizia, infatti, è immortale». Nella Sapienza, la giustizia è legata alla Legge ed è una qualità posseduta principalmente da Dio (cf. 8,7) e, per questo, immortale; essa è offerta agli uomini che la amano e si stringono ad essa (cf. 1,1). La seconda parte della lettura annuncia con ancora maggior forza il piano delle origini: «Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità», perché lo ha fatto «immagine della propria natura» (2,23). Rispetto a Gen 1,26–27, la lettura fa un passo ulteriore, perché non si limita a dire che l’umano è immagine di Dio, ma afferma che questi è immagine della sua natura: il disegno originario di Dio sull’umano prevede una vita che non finisce, simile a quella di Dio. La morte, allora, è effetto dell’invidia del diavolo, per la prima volta collegato al serpente di Gen 3,1–7 (cf. Ap 12,9; 20,2), geloso della straordinaria condizione umana. La morte a cui ci si riferisce non è solo la fine della vita, bensì è una condizione di cui si può fare esperienza “appartenendole” («ne fanno esperienza coloro che le appartengono», 2,24), effetto della malizia e della distanza da Dio (2,21–22). Queste affermazioni costituiscono lo sfondo in base al quale ascoltare le letture successive.
     
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi
2Cor 8,7.9.13–15
Fratelli, 7come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa. 9Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà. 13Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. 14Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: 15«Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno».
 
La seconda lettura ricorda l’idea di una colletta spontanea organizzata dalla chiesa di Gerusalemme per una carestia avvenuta tra il 48 e il 50 d.C., sotto l’impero di Claudio (cf. At 11,29). In occasione dell’assemblea dei discepoli riuniti a Gerusalemme per valutare l’operato di Paolo (Gal 2,10), Giacomo, Pietro e Giovanni chiesero all’apostolo di ricordarsi dei poveri della chiesa di Gerusalemme, partecipando a questa raccolta. Il contesto della Seconda lettera ai Corinzi dimostra che la comunità di Corinto ebbe qualche difficoltà con questa iniziativa (2 Cor 12,18), interrotta per un anno (8,10). I versetti scelti sono tratti dal discorso di Paolo rivolto alla sua comunità in difficoltà. La lettura comincia con una captatio benevolentiæ in cui si enumerano le virtù della comunità: ha abbondato nella fede, nella parola, nella conoscenza, nello zelo e nella carità (8,7). Queste qualità, tuttavia, non sono frutto di una speciale sensibilità, i cristiani di Corinto hanno avuto l’esempio di Gesù Cristo, il quale «da ricco che era si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (8,9). L’amore di Cristo per l’umanità rappresenta infatti una novità inaudita: laddove le persone sono portate a cercare il proprio interesse, il Figlio si è spogliato della ricchezza in vista di un bene superiore, rendere ricchi coloro a cui è stato inviato (cf. Fil 2,5–11). L’immagine delle ricchezze è impiegata quindi per offrire un esempio capace di far luce sul significato della grazia divina: poiché Dio possiede una pienezza di vita traboccante, può arricchire altri. La lettura si conclude con i vv. 13–15 che insistono sull’effetto di questa condivisione di beni: lo scambio di doni tra la comunità di Corinto, chiamata a sostenere i poveri con i beni, e quella di Gerusalemme, scelta da Dio come chiesa madre per il bene di tutte le altre.
           
X Dal Vangelo secondo Marco
Mc 5,21–43
In quel tempo, 21essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. 22E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi 23e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». 24Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. https://disegni.qumran2.net/archivio/10079.jpg25Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni 26e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, 27udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. 28Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». 29E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male. 30E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». 31I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». 32Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. 33E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. 34Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male». 35Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». 36Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». 37E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. https://disegni.qumran2.net/archivio/3436.gif38Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. 39Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». 40E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. 41Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». 42E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. 43E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.
 
L’acclamazione al vangelo riprende uno dei temi principali della prima lettura e prepara l’assemblea all’ascolto della Parola: «Il salvatore nostro Cristo Gesù ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo» (2 Tm 1,10). Il Lezionario, quindi, riporta un lungo racconto in cui sono narrati due episodi intrecciati, collegati grazie a molti parallelismi: la figlia di Giairo è morta da dodici anni, l’emorroissa è affetta da malattia proprio da dodici anni (vv. 25.42); il capo della sinagoga e la donna si prostrano ai piedi di Gesù (vv. 22.33) e alla fine ottengono fede e salvezza (vv. 23.28.34–36).   R La morte. Il primo episodio viene accennato e poi ripreso in seguito. Esso si fonda su un forte contrasto: Giairo è un capo della sinagoga, una persona che viene definita anzitutto a partire dal ruolo acquisito nella comunità di Israele. Egli, tuttavia, pur essendo una figura potente, è disperato, ha una figlia gravemente ammalata. Per questo, la sua reazione davanti a Gesù Cristo è immediata, «come lo vide, gli si gettò ai piedi» (v. 22), pienamente convinto che Gesù sia Figlio di Dio (Mc 3,11; cf. 2 Re 4,37; At 10,25–26). Il capo della sinagoga, poi, non si ferma qui, ma supplica Gesù di salvare la figlia, utilizzando il verbo sózō, «salvare», il cui significato non è solo materiale; chiedendo la salvezza, il padre dimostra di riconoscere che nella guarigione compiuta da Gesù si manifesterà l’opera di Dio stesso, che non si limita a restituire la salute, ma ristabilisce la persona integralmente e su un piano più profondo.   R Perdite di sangue. A questo punto, durante il tragitto, Gesù viene toccato da una donna di cui non si precisa il nome. Essa è descritta a partire dalla malattia che la condiziona in maniera permanente (alla lettera il v. 25 si traduce: «una donna che era in una perdita di sangue») e che le ha causato molte sofferenze («aveva molto sofferto», v. 26). Essa diviene quindi simbolo di tutte le persone radunate per la celebrazione, colpite forse da ferite profonde (personali, caratteriali) che segnano l’esistenza e la limitano. In senso generale, la stessa condizione umana è caratterizzata da una ferita, il dramma della morte e del tempo la anticipa scorrendo come una perenne perdita di sangue e ricordando che essa diventa ogni giorno più vicina.   R Per opera di molti medici. Le perdite della donna sono persistenti, non scompaiono, non è sufficiente l’opera di molti specialisti. Recuperando la similitudine, si può dire che la ferita umana è incurabile, le persone vivono il paradosso di essere consapevoli della malattia che patiscono, cercano delle soluzioni per fermare il flusso di sangue (si pensi ad esempio a tutte le forme di ricerca del benessere e alle dipendenze), ma si scontrano con la frustrazione di non riuscire. Per colmare il vuoto si fa spesso ricorso anche alla sicurezza offerta dai beni materiali, ma questi, pur garantendo un certo potere di acquisto, non riescono a comprare la salvezza («spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio», v. 26), anzi scavano un solco ancora più profondo nell’anima e nella coscienza («peggiorando», v. 26).   R Udito parlare di Gesù. La spirale di morte non si interrompe grazie a una propria decisione o a un’intuizione, ma per iniziativa di Dio. La donna, infatti, sente parlare di Gesù, inviato del Padre, qualcuno le annuncia la salvezza vicina e il Regno. In questo modo, la scena del vangelo ripropone una situazione simile a quella che si produce nell’eucaristia: la celebrazione comincia proprio con una liturgia della Parola in cui si annuncia la buona notizia del mistero pasquale di Gesù Cristo, perché, «udito parlare di Gesù», l’assemblea possa mettersi in moto e avvicinarsi a lui.   R Toccò il suo mantello. L’emorroissa rompe un tabù, perché toccando Gesù lo macchia con l’impurità (Lv 15,25). Molte persone incontrate da Gesù vengono guarite dal contatto con lui (cf. Mc 1,41); dietro questi racconti, il Nuovo Testamento annuncia che, in Gesù Cristo, Dio si è avvicinato all’umanità in maniera inaudita, lasciandosi addirittura toccare (1 Gv 1,13). Gesù stesso più volte fa riferimento a questo rapporto “fisico”: offre ai cristiani la sua carne da mangiare (Gv 6,51), e continua a farlo nei sacramenti della chiesa; dona il “pane” della Parola (cf. Mt 4,4); si lascia incontrare “personalmente”, identificandosi perfettamente con i cristiani (a Paolo il Risorto dirà: «Io sono Gesù che tu perseguiti», colpendo la chiesa, cf. At 9,5).   R Chi mi ha toccato? Gesù si rende conto della guarigione della donna e capisce che una forza è uscita da lui; in questo modo riconosce che essa si è accostata sinceramente e con un pieno coinvolgimento (vv. 30–34). Il vangelo, dunque, crea un contrasto tra la folla che ha un rapporto superficiale con Gesù Cristo e l’emorroissa che si avvicina al Maestro con il desiderio di entrare in relazione con lui: «Figlia, la tua fede ti ha salvata». I cristiani comprendono così che è proprio la fede in Gesù Cristo a rendere possibile la guarigione, perché favorisce il contatto con una vita che è più forte della morte e del male.   R Tua figlia è morta. A questo punto del racconto, il capo della sinagoga viene a conoscenza del drammatico destino della figlia: la morte ha avuto il sopravvento, non c’è più nulla da fare. Gesù, tuttavia, non dà il tempo a Giairo di scoraggiarsi e lo incalza con delle parole: «Non temere, soltanto abbi fede!» (v. 36). In questo modo si afferma, con ancora maggiore forza, che è proprio la fede a favorire il passaggio dalla morte alla vita. La stessa cosa succede con la figlia di Giairo: Gesù pronuncia una parola («Fanciulla, io ti dico, alzati!», v. 41) e questo enunciato ha il potere di farla rialzare. All’assemblea radunata per la celebrazione non si può manifestare in maniera più chiara la forza vitale della Parola che ascoltano.
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«Io ti dico: Alzati!»
 
     Per apprezzare il composito brano del libro della Sapienza, occorre fare un passo indietro. Si tratta, infatti, di un testo che conclude una lunga e faticosa ricerca. Da sempre il pio israelita ha vissuto una sorta di disagio che si avverte, ad esempio, nei primi tre capitoli del libro della Genesi: Dio è buono e ha fatto bene ogni cosa, questo è certo, tuttavia il mondo è pieno di male male fisico e male morale — e l’esistenza dell’uomo scorre fra continue contraddizioni. Come si spiega? La colpa non è di Dio, afferma il libro della Genesi, e tutte le creature uscite dalle sue mani sono buone; la colpa è dell’uomo che rovina le cose facendone un uso distorto. La causa del disordine che sconvolge il mondo e l’esistenza è il peccato: «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi» (Sap 1,13), riafferma il libro della Sapienza commentando il passo della Genesi, «per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo» (2,24).      Ma c’è una seconda domanda – si direbbe – ancora più importante: qual è il destino dell’uomo, di questo uomo che vive in un mondo ormai sconvolto dal peccato e irrimediabilmente incamminato verso la morte? Ha dell’incredibile, eppure è un fatto che per secoli Israele ebbe su questo punto capitale pensieri molto confusi. Si pensava più o meno così: i morti stanno nello Sheol, immaginato per lo più come un pozzo oscuro, dove si vive un’esistenza sfocata, senza distinzione fra buoni e cattivi. La vera vita è soltanto la vita presente, scrive l’autore del Salmo 88, solo qui si vive e solo qui si può lodare Dio: «Compi forse prodigi per i morti? O si alzano le ombre a darti lode? Si narra forse la tua bontà nel sepolcro, la tua fedeltà nel regno della morte? Si conoscono forse nelle tenebre i tuoi prodigi, la tua giustizia nella terra dell’oblio?» (vv. 11–13). Ancora più sconcertanti alcune espressioni del Qoèlet: «La sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa: come muoiono queste, così muoiono quelli; c’è un solo soffio vitale per tutti. L’uomo non ha alcun vantaggio sulle bestie, perché tutto è vanità. Tutti sono diretti verso il medesimo luogo: tutto è venuto dalla polvere e nella polvere tutto ritorna» (3,19-20). La meraviglia è che nonostante queste convinzioni Israele sia ugualmente rimasto fedele al proprio Dio, profondamente osservante, attento in tutto a fare la sua volontà. Una fede che ha del miracoloso: il pio israelita era più interessato alla gloria di Dio che alla propria sorte, più ansioso di fare la sua volontà che di sapere che cosa, alla fine, avrebbe incontrato.      Ma proprio questo ostinato attaccamento al Signore, questa fiducia a oltranza nel suo amore – alle soglie del Nuovo Testamento – doveva condurre Israele a capire che il destino dell’uomo non è la morte ma la vita. E quanto afferma appunto il brano della Sapienza: «Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura» (2,23). Dio è fedele all’uomo e non abbandona il giusto alla morte, non mette il giusto alla pari dell’empio. Si deve, in un certo senso, parlare di una duplice morte (una distinzione questa che si intravede anche nella lettura proposta dalla liturgia): la morte fisica a cui anche i giusti sono soggetti va considerata come il passaggio (un «sonno», dirà Gesù) da un’esistenza tormentata a una vita con Dio, e la morte eterna, quella dell’empio, che si identifica con la separazione definitiva da Dio.      Guarendo una donna affitta dal male da molti anni e risuscitando una fanciulla già preda della morte (cf. Mc 5,21–43), Gesù mostra che la volontà di Dio, come già anticipava il libro della Sapienza, è la vita degli uomini. Con una precisazione e una sottolineatura. La precisazione: è Gesù che per noi ha vinto il peccato e la morte, è lui che ha potuto dire a una fanciulla morta «Io ti dico: alzati!» (v. 41). La sottolineatura: la strada che conduce alla vita, alla vita piena e definitiva con Dio, è quella che Gesù ha percorso; una strada che Paolo nella seconda lettera ai Corinzi ha riassunto nella formula lapidaria «Gesù Cristo da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (8,9). L’egoismo conduce alla morte, l’amore conduce alla vita.      Infine, entrambi i miracoli raccontati dall’evangelista sono allineati su un unico tema, la fede. La legge dichiarava impura una donna che aveva perdite di sangue, e impuro diventava tutto ciò che essa toccava: ecco perché la donna cerca di toccare la veste di Gesù di nascosto e per tal ragione si sente tanto colpevole quando si vede scoperta. Per lo stesso motivo Gesù, con sorpresa dei discepoli, dà pubblicità all’accaduto: «Chi ha toccato le mie vesti?» (v. 30). Egli vuole dichiarare di fronte a tutti che non si sente impuro perché quella donna lo ha toccato; Dio non bada al puro e all’impuro ma alla fede: «La tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male» (v. 34).      È ancora la fede al centro dell’episodio della risurrezione della bambina morta: «Non temere, soltanto abbi fede!» (v. 36). Fede nella forza salvifica di Gesù, una potenza di fronte alla quale nessuna situazione è irrimediabile, neppure la morte: «La bambina non è morta, ma dorme» (v. 39). Era morta, senza dubbio, ma per chi ha fede la morte non ha più il senso di prima: non lo strepito ma la speranza.
Preghiera di Roberto Laurita
 
Ci sono realtà, Gesù, che ci appaiono ineluttabili: davanti ad esse non ci resta nulla da fare, dobbiamo solamente rassegnarci al loro potere.   La malattia e la morte sono tra queste. Ci tolgono la forza e la voglia di lottare perché ci fanno constatare quanto siamo fragili, in balìa di situazioni senza via d’uscita.   Eppure, Gesù, tu sei venuto proprio per questo: per mostrarci come l’amore di Dio possa strapparci a ogni forza oscura, rimetterci in piedi e farci risorgere.   Quel giorno tu hai richiamato alla vita la figlia di Giairo, il capo della sinagoga, così come avresti fatto col giovane di Naim, che già conducevano alla sepoltura.   Sono tutti segni che ci hai offerto e che preludono all’evento decisivo. Perché sarebbe arrivato il momento di affrontare personalmente la tua morte, ma ne saresti uscito vittorioso.   E così ci avresti offerto il senso di ogni cosa.
Colletta
 
O Padre, che nel tuo Figlio povero e crocifisso ci fai ricchi del dono della tua stessa vita, rinvigorisci la nostra fede, perché nell’incontro con lui sperimentiamo ogni giorno la sua vivificante potenza.
Egli è Dio, e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
Amen.