Dal libro di Giobbe |
Gb 38,1.8–11 |
1Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all’uragano: 8Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, 9quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, 10quando gli ho fissato un limite, e gli ho messo chiavistello e due porte 11dicendo: «Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde»? |
William Blake 1757 – 1827 Dio risponde a Giobbe acquerello (39 × 33 cm) – c. 1804 |
La prima lettura è tratta da un capitolo importante per il libro di Giobbe. Dopo aver attraversato l’angoscia e la tristezza provate a causa di una sofferenza inaudita (Gb 2), Giobbe è visitato da alcuni amici che sciorinano considerazioni religiose preconfezionate, fondate sulla teoria retributiva: se Giobbe soffre, in qualche modo è colpa sua. Il protagonista non accetta le loro parole e, con molti lamenti, si rivolge direttamente a Dio, sfidandolo (31,35–40). Sorprendentemente Dio risponde e il brano scelto dal Lezionario è tratto proprio dal suo primo discorso (cc. 38–39). Il Signore pronuncia le sue parole in mezzo a un uragano, fenomeno atmosferico straordinario che accompagna altre volte la sua apparizione (cf. 2 Re 2,11; Is 29,6; Ger 23,19; Ez 1,4), segnalando la sua presenza maestosa e al contempo ricordando la sua trascendenza e la sua distanza. Dalla tempesta, Dio non risponde con delle affermazioni, ma con delle domande! Non si comporta come gli amici, imponendo a Giobbe il proprio punto di vista, ma lo conduce con amorevolezza perché questi si apra al mistero del Dio creatore. Il brano scelto dalla liturgia si concentra sul mare, elemento temibile e figura del caos che minaccia la vita dell’uomo (cf. Is 27,1), ma che è dominato da Dio nella creazione (Gen 1,9–10). La sua forza apparentemente inarrestabile, infatti, è limitata, esso ha avuto un’origine simile a quella di ogni essere umano e Dio era già presente in quel momento: lo ha serrato tra due battenti dopo la nascita, avvolgendolo con le nubi e la foschia (vv. 8–9). Dio, inoltre, ha separato il mare e la terra asciutta perché essa fosse abitata, imponendo un limite al dilagare delle acque e creando la possibilità della vita (vv. 10–11). In questo modo, Dio suggerisce a Giobbe che i suoi pensieri e la sua sapienza sono più alti di quelli umani (cf. Is 55,8), e che la sua sofferenza personale non è un’anomalia rispetto al governo divino della realtà. |
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi |
2Cor 5,14–17 |
Fratelli, 14l’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. 15Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro. 16Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così. 17Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove. |
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La seconda lettura presenta un enunciato decisivo per comprendere il ministero di Paolo: l’amore di Cristo (il genitivo è soggettivo: l’amore che Gesù Cristo prova per Paolo) esercita sulla sua persona una pressione forte e coinvolgente (a partire dal significato di synéchō, «pressare, spingere»; cf. Fil 1,23). Tale spinta deriva dalla considerazione che Cristo è morto per tutti (in favore di tutti), proprio perché tutti sono morti (v. 14); la condizione universale di cui si parla nel v. 14 non è altro che quella enunciata al v. 15: «è morto per tutti perché quelli che vivono, non vivano più per se stessi»; tutti sono morti, perché vivere centrati su se stessi non è altro che un’anticamera della fine, l’egoismo è una forma di morte apparente che costringe la persona a cercare in ogni attività il proprio interesse. I cristiani, tuttavia, partecipando della morte di Gesù Cristo, sono “morti a questi atteggiamenti”, hanno cambiato in maniera drastica il loro modo di vivere. Il brano continua descrivendo la nuova vita del cristiano, ma lo fa in maniera sorprendente. Paolo ricorda che quanti hanno smesso di vivere per se stessi, non si concentrano solo sugli altri, ma vivono «per colui che è morto e risorto per loro» (v. 15): è la relazione con il Signore a liberare gli esseri umani dalla condanna dell’egoismo! Tale liberazione, tuttavia, non è senza conseguenze per quanto riguarda il rapporto con gli altri; i legami tra i cristiani, infatti, non sono più «secondo la carne» (v. 16), non si fondano sulla ricerca del proprio tornaconto («vivere per se stessi»); ravvivati dal legame con Gesù Cristo, le persone possono superare le relazioni fondate sulla soddisfazione del proprio bisogno (l’uomo che vive secondo la carne deve pensare anzitutto alla propria sopravvivenza, cf. Rm 8,12–13) e ci si può aprire al dono di sé (cf. 1 Cor 13). Essere «in Cristo», infatti, significa aver accolto con fede l’annuncio della sua morte e risurrezione, e aver ricevuto lo Spirito Santo (cf. Rm 8,9), creando una novità talmente grande da essere paragonata alla creazione delle origini (v. 17; cf. Is 43,18–19; 65,17; Gal 6,15). |
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X Dal Vangelo secondo Marco |
Mc 4,35–41 |
35In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». 36E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. 37Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. 38Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». 39Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. 40Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». 41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?». |
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R La notte. Lo scenario in cui si svolge l’episodio del vangelo è notturno: quando l’attività del giorno viene di solito sospesa, Gesù chiede ai discepoli di attraversare il lago di Galilea. In un passo parallelo si afferma addirittura che Gesù spinge i discepoli a muoversi (Mt 14,22); questa decisione, infatti, non doveva sembrare la più conveniente perché attraversare il lago di notte poteva essere pericoloso, a causa delle improvvise correnti del lago e delle tempeste. Il riferimento alla notte evoca inoltre il passaggio del mare (Es 14,21), il racconto fondatore per la fede di Israele. Sin dalle prime battute, quindi, l’assemblea riunita per la celebrazione è sollecitata all’ascolto del vangelo in attesa di vedere realizzato quanto viene annunciato nel versetto dell’alleluja: «Dio ha visitato il suo popolo» (Lc 7,16). R Passiamo all’altra riva. Il lago di Tiberiade non divide solo due rive opposte, ma è il confine naturale tra due mondi completamente distinti: la terra di Israele, in cui le abitudini e i costumi sono condizionati decisamente dalla fede degli ebrei, e il territorio della Decàpoli (cf. Mc 5,120), abitato in maggioranza da pagani. Gesù è pronto ad affrontare il mare di notte, incurante dei rischi, perché è animato dal desiderio di raggiungere i più lontani e portare l’annuncio del Regno anche a loro! R La tempesta. Marco precisa che i discepoli prendono Gesù «così com’era» in barca; questa insistenza serve forse per rimarcare ciò che si nasconde dietro questa azione: i discepoli pensano forse che con Gesù non può succedere nulla di male. Invece, proprio ciò che temono, accade! Il passaggio brusco dal v. 36 al v. 37 dà l’impressione che la tempesta si scateni non appena essi prendono il largo. Considerando la brevità del racconto, la descrizione della potenza delle acque è molto dettagliata: la tempesta è «grande», le «onde» si rovesciano sulla barca, essa diviene «piena» d’acqua. Come succede ai naviganti del Salmo 106, i discepoli sono sorpresi dalla forza inarrestabile di un pericolo imprevedibile. È la notte della fede: come Israele di fronte alla minaccia di morte, anche i discepoli sono terrorizzati (cf. Es 14,10) e, come nel Salmo 106, invocano il Signore che giace addormentato nella parte posteriore della barca (cf. Sal 43,24). R Non ti importa! I discepoli interpretano il sonno di Gesù come un segno di profonda indifferenza e di distacco: il verbo meléi, «avere interesse per», è lo stesso che si usa per il mercenario a cui non importa nulla delle pecore (Gv 10,13). Le loro parole rivelano una certa incredulità e contraddicono quanto le Scritture rivelano rispetto al Signore: Dio ha «cura di tutte le cose» (Sap 12,13) e in particolare dei suoi figli (1 Pt 5,7). R Taci, calmati! La preghiera risveglia Gesù e il Maestro calma le acque manifestando la sua straordinaria autorità. Nel v. 39 si descrive qualcosa di molto simile a quanto avvenuto nel Sal 106: il mare viene apostrofato e rimproverato come se fosse un essere vivente: «Taci, calmati». Il lessico impiegato crea così un collegamento tra la scena della tempesta e le storie di esorcismo (cf. Mc 1,25). Gli spiriti impuri, infatti, come i discepoli, mettono in dubbio la cura che Dio ha per gli uomini, ma si esprimono con termini più drastici (Mc 1,24: «sei venuto per rovinarci»); d’altra parte, proprio la tentazione diabolica genera uno sconvolgimento simile a quello che avviene durante la tempesta (si pensi all’energia irrefrenabile dell’indemoniato di Mc 5,4). Contro questo mare, Gesù esercita la propria autorità con la sua Parola e calmando le onde che agitano il cuore dei discepoli. R La paura e la fede. Dopo aver dominato la tempesta, Gesù rivolge ai discepoli delle domande, perché riflettano e comprendano il senso di ciò che è successo: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v. 40). La tormenta che li scuote è identificata con precisione: essi sono divenuti preda della paura, sentimento intenso che si prova di fronte al pericolo mortale. La fede, quindi, si presenta come quella virtù donata da Dio che consente di vincere il terrore; il riferimento all’Esodo diviene così esplicito, perché la liberazione di Israele viene raccontata proprio come un passaggio dal timore alla fede (cf. Es 14,10.30–31). Come succede nel racconto di Es 14, anche in Mc 4,39–40 i discepoli devono riconoscere di trovarsi di fronte a un ostacolo insormontabile e così scoprire che Dio è capace di aprire una strada anche quando tutto sembra perduto. La fede, allora, è quel dono divino che sostiene la persona anche quando le circostanze esterne sembrano contraddire la bontà di Dio e le sue stesse promesse; tale virtù è una caratteristica essenziale della vita adulta: lo stadio infantile chiede continue conferme, l’adulto può affrontare la crisi e la prova senza essere scosso, perché sa di potersi fidare. Tra la paura e la fede si trova la preghiera: i discepoli gridano quando sono disperati, quando pensano che tutto è finito e facendo questo divengono testimoni dell’intervento straordinario di Dio; l’assemblea celebrante è quindi invitata alla preghiera perché nella prova possa assistere al prodigio della salvezza divina che si realizza in extremis. |
Fidarsi di Dio nonostante i molti perché |
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La prima lettura (cf. Gb 38,1.8–11) è troppo breve per essere immediatamente comprensibile, malgrado il riferimento alla potenza di Dio rimandi immediatamente al gesto di Gesù che calma la tempesta del lago come narrato nel Vangelo. In realtà, un’adeguata e corretta comprensione di questi pochi versetti che inneggiano alla potenza di Dio, impone uno sguardo al contesto drammatico in cui queste affermazioni si trovano, all’interno cioè del problema della sofferenza e del comportamento conseguente di Giobbe. Il libro di Giobbe è uno scritto coraggioso e moderno. Giobbe è innocente eppure soffre, e la fede proclama che Dio è giusto: come capire tutto questo? Continuare ad affermare (come molti fanno) che se uno soffre è perché se lo merita, sarebbe menzogna. D’altra parte, se non è così, come si può ancora dire che Dio è giusto? Questo è il problema. E poi la reazione di Giobbe: di fronte al suo dramma personale – specchio del dramma universale dell’uomo – come si può ancora pensare che Dio sia buono? Giobbe reagisce da uomo in carne e ossa: mette Dio sotto processo, si lamenta, sembra acquietarsi e poi di nuovo si ribella, e soprattutto pone domande. Forse che Dio si è dimenticato e si è stancato di lui? Forse che Dio è cambiato? Ora si lascia andare rassegnato e stanco; ora tenta di far ragionare Dio; ora ironizza con amarezza sulla sua sorte, sulla inutilità del bene, dell’onestà e della fedeltà; ora assume, persino, atteggiamenti di sfida. Eppure, in un modo o nell’altro, è sempre di fronte a Dio: neanche per un istante lo dimentica. Poste queste premesse, ritorniamo alle affermazioni contenute nel passo proposto dalla liturgia. La chiave per comprenderlo è all’inizio: «Chi è mai costui che oscura il mio piano con discorsi da ignorante»? (Gb 38,2). Il disegno di Dio è misterioso, questo è vero, tuttavia ha una sua innegabile ragionevolezza, e l’uomo con le sue molte parole, le sue inutili domande e la sua presunzione non lo chiarifica, al contrario lo complica. E quando l’uomo pretende di eliminare il mistero di Dio, cade in oscurità ancora più fitta, in spiegazioni prive di senso. Lo scopo del discorso di Dio (il brano, infatti, è un discorso di Dio rivolto a Giobbe) è qui già chiaro: riportare Giobbe nell’unica posizione corretta di fronte al mistero di Dio e dell’esistenza: l’abbandono fiducioso. L’uomo non vede ora il perché del male innocente, lo vedrà in futuro . D’altra parte Giobbe – se solo tacesse e riflettesse con calma – capirebbe che è logico fidarsi di Dio, che è logico aspettarsi un senso. Ripetiamolo: non è nota la ragione profonda del dolore innocente, però è chiaro che è logico, ragionevole, fidarsi di Dio. Ed è su questo che la risposta di Dio batte e ribatte. Si leggano per intero i capitoli 38 e 39, una lettura che vale la pena di fare, nei quali a ben guardare, Dio non risponde a Giobbe, non raccoglie le accuse e non le controbatte: preferisce indurlo al «silenzio». Giobbe si guardi attorno e veda i molti segni della grandezza di Dio sparsi nella creazione, e di fronte a questa grandezza prenda coscienza dei propri limiti. Quante sono le cose che l’uomo non comprende? Quante le cose che sfuggono al suo dominio? E dopo la presa di coscienza dei propri limiti e il silenzio, la fiducia, la speranza, l’abbandono sereno. Nella creazione infatti, non ci sono soltanto i segni della grandezza di Dio, ci sono, e ancora più numerosi, i segni della sua sapienza, della sua bontà e della sua potenza. Possibile che Dio – che ha fatto bene tante cose, ciascuna con il suo significato e la sua ragione – abbia poi fatto male l’uomo, dandogli una vita senza senso? Se Dio è saggio e buono, e tuttavia permette il dolore, significa che anche il dolore ha, alla fine, un significato. E così Giobbe, dopo aver tanto parlato e dopo aver posto tante domande, ritorna a quell’atteggiamento semplice e coraggioso che è, appunto, il fiducioso abbandono del bambino nelle braccia del padre. Molte sono le cose oscure ma una cosa è chiara, la più fondamentale: l’amore del Signore. E questo può bastare. Il racconto evangelico (cf. Mc 4,35–41) è tutto racchiuso nelle due domande che lo scandiscono, l’una dei discepoli («Chi è costui?», v. 41) e l’altra di Gesù («Perché avete paura? Non avete ancora fede?», v. 40). La domanda dei discepoli nasce dalla meraviglia di fronte alla potenze di Gesù: la sua parola fa calmare il mare in tempesta. È giusto meravigliarsi di fronte alla potenza dei miracoli, ma non basta la potenza del miracolo per capire chi sia Gesù. I miracoli rivelano la messianicità di Gesù e la sua origine, ma non sono in grado di svelare completamente la sua identità, cioè il suo grande gesto di amore e di donazione. Per questo occorre attendere la croce. Dio si rivela nella potenza, ma soprattutto nell’amore: solo qui Dio può essere conosciuto profondamente, senza equivoci. Con la sua domanda «Perché avete paura?» Gesù cambia la direzione dell’episodio: l’attenzione non è più rivolta alla potenza del miracolo, ma alla fede dei discepoli. Il discepolo – che ebbe tanta fede per staccarsi dalla folla e seguire Gesù – non deve, ora che si trova al suo seguito, pretendere una presenza divina costantemente attiva e vittoriosa. La fede matura sa renderlo tranquillo nelle difficoltà e sereno anche nella persecuzione. Probabilmente l’evangelista ha voluto offrire un messaggio di speranza alla chiesa perseguitata e forse scoraggiata di fronte al silenzio del Cristo risorto. Insomma, ogni cristiano viene avvertito che si può essere uomo di poca fede in due modi: c’è la poca fede di chi non ha il coraggio di lasciare tutto per Gesù, e c’è la poca fede di chi, avendo lasciato tutto per Gesù, pretende però (soprattutto nei momenti difficili) una presenza chiara del Signore, consolante, accompagnata da ripetute verifiche. È questa una fede ancora immatura perché confonde il «silenzio» con l’assenza del Signore, confonde il permanere dell’opposizione con la sconfitta del regno. E oltre che immatura è anche una fede poco coraggiosa, incapace di scelte nuove, rischiose secondo le cautele del buon senso dell’uomo, ma possibili per chi si affida alla potenza di Dio. Il vero discepolo però si sente al sicuro in compagnia del Signore, anche quando le difficoltà sono grandi e il Signore sembra dormire. |