Invocazione allo Spirito Santo della beata Elena Guerra   O eterno Spirito, luce, verità, amore e bontà infinita, che abitando come ospite dolcissimo nell’anima cristiana, la rendi atta a produrre frutti di santità, che derivando da Te, o principio sempre fecondo della vita spirituale, si chiamano appunto frutti dello Spirito Santo, noi, anime sterili, ti supplichiamo di infonderci quella vitalità e fecondità che produce e matura i tuoi santi frutti!   Amen.
I frutti dello Spirito Santo Lo Spirito Santo, “Datore dei doni” ci fa  gustare i nostri frutti | Spirito santo, Frutto dello spirito, Spirito

Ecco il pane degli angeli,

pane dei pellegrini,

vero pane dei figli:

non dev’essere gettato.

Con i simboli è annunziato,

in Isacco dato a morte,

nell’agnello della Pasqua,

nella manna data ai padri.

Buon pastore, vero pane,

o Gesù, pietà di noi:

nutrici e difendici,

portaci ai beni eterni

nella terra dei viventi.

Tu che tutto sai e puoi,

che ci nutri sulla terra,

conduci i tuoi fratelli

alla tavola del cielo

nella gioia dei tuoi santi.

Dal libro dell’Èsodo
Es 24,3-8
In quei giorni 3Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!». 4Mosè scrisse tutte le parole del Signore. Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele. 5Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore. 6Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. 7Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto». 8Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!».
  SIGNIFICATO BIBLICO DELLA PASQUA – Notizie Cristiane  
Dopo aver ricevuto una speciale rivelazione sul Sinai (Es 20–23), Mosè trasmette fedelmente («andò a riferire tutte le parole del Signore e tutte le norme», Es 24,3) quanto ha sentito da Dio sul monte e il popolo risponde con entusiasmo: «Tutti i comandamenti [alla lettera, tutte le parole] che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!» (v. 3). Con questa risposta fiduciosa, il racconto sembrerebbe finito; in realtà, con un effetto sorpresa si sviluppa in modo nuovo: «Mosè scrisse tutte le parole del Signore», perché esse siano disponibili nel futuro per continue riletture (v. 4). Il giorno dopo, Mosè fissa dodici stele, simbolo delle dodici tribù di Israele, ed erige un altare; poi affida ad alcuni giovani il compito di fare sacrifici per il Signore e con la metà del sangue unge l’altare (v. 6). Proclama quanto si trova nel libro e il popolo aderisce con una risposta ancora più forte (v. 7); il rituale si conclude con un’aspersione di sangue sul popolo (v. 8). L’alleanza sul Sinai, quindi, si conclude con un rituale complesso, formato da una lettura della Parola e da un gesto che esprime il dono della vita di Dio (simboleggiata dal sangue sparso sull’altare) al popolo (rappresentato dalle dodici stele). L’alleanza è quindi stretta grazie al segno del sangue, che quando accompagna un giuramento o un patto significa che l’atto è irreversibile e che i due contraenti saranno uniti in maniera molto stretta, come consanguinei. D’altra parte, il legame viene consolidato da un’abbondante proclamazione della Parola, che interpella il popolo e aspetta una risposta. La reazione del popolo viene esplicitata per ben due volte, e le parole pronunciate dopo la lettura sono particolarmente significative: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto!» (v. 7). Il versetto presenta un ordine insolito degli elementi che, alla lettera, suona: «Quanto… faremo e ascolteremo!». Perché il verbo «fare» prima del verbo «ascoltare»? L’obbedienza alle parole divine non potrà prescindere da un costante ascolto della Parola proclamata: faremo e continueremo ad ascoltare; d’altra parte, come in ogni atto di fede, l’adesione a Dio («faremo») precede la piena comprensione della sua rivelazione («ascolteremo» e così continueremo a comprendere). Trovandosi nella stessa situazione, di fronte a una parola proclamata e a un gesto (la comunione eucaristica) con cui si realizza la comunione con Dio anche mediante il sangue, l’assemblea è chiamata a rispondere con la medesima fiducia.
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Dalla lettera agli Ebrei
Eb 9,11-15
Fratelli, 11Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione. 12Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna. 13Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, 14quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente? 15Per questo egli è mediatore di un’alleanza nuova, perché, essendo intervenuta la sua morte in riscatto delle trasgressioni commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che era stata promessa.
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Nella seconda lettura si annuncia la risurrezione di Gesù Cristo a partire dalla rievocazione della festa ebraica dello Yom Kippur. In questo giorno solenne il sommo sacerdote entrava nella parte più interna del santuario (il Santo dei Santi) attraversando la tenda che lo separava dal Santo e, dopo un’effusione del sangue dei sacrifici sui quattro corni dell’altare (Es 30,10), otteneva il perdono dei peccati per tutto il popolo. Poiché nell’Antico Testamento l’espiazione è collegata anche alla sofferenza del giusto (cf. Is 53,10), la Lettera agli Ebrei riflette sul compimento in Gesù Cristo di questa associazione tra l’espiazione e la figura del servo sofferente. Cristo è il vero sommo sacerdote (v. 11) che, grazie al proprio sangue, ottiene una «redenzione eterna» (v. 12). Il termine «redenzione» esalta la gratuità del dono, perché richiama l’atto con cui nell’Antichità veniva riscattato lo schiavo; Gesù Cristo non si è limitato a pagare un riscatto altissimo per ottenere la libertà dell’umanità, ma ha donato il suo stesso sangue come agnello perfetto «senza macchia» (v. 14; Lv 1,3.10) e per pura grazia ha restituito agli esseri umani la libertà dalla più grande schiavitù, quella del peccato. La morte di Gesù Cristo, quindi, apre la via al santuario celeste e consente di accedere all’intimità con Dio. D’altra parte, la tenda attraversata da Gesù Cristo non appartiene alla creazione: la risurrezione di Gesù è un evento celeste che ha la forza di generare nelle persone una nuova creazione, delle potenzialità di amore, di perdono che non fanno parte della loro natura. Infatti, Gesù è risorto per trasmettere la sua vittoria a tutti e così trasformarli radicalmente, cancellando i peccati: «purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente» (v. 14). In questo versetto troviamo una interessante descrizione del peccato, utile per comprendere la portata della salvezza ottenuta da Gesù Cristo. Esso è una realtà interiore che nasce nella coscienza e quindi procede dai pensieri; non corrisponde a qualcosa di “buono” e proibito, ma viene identificato come un’opera di morte, che avvelena chi lo compie e fa del male agli altri; la sua origine consiste nel rifiuto di servire Dio, nella superbia (cf. Sir 10,12–13). La passione e risurrezione di Gesù Cristo (il suo sangue) hanno quindi il potere di purificare la coscienza, ricostruendo nel fedele proprio la capacità di obbedire a Dio («perché serviamo al Dio vivente»), cancellata dal peccato.
  La Pasqua e il Giorno dell'Espiazione - Ernesto Nudo                                          
X Dal Vangelo secondo Marco
Mc 14,12-16.22-26
12Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». 13Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. 14Là dove entrerà, dite al padrone di casa: «Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?». 15Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». 16I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua. 22E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». 23Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. 24E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. 25In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio». 26Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.
   
Il vangelo proposto dal Lezionario della solennità del Corpo e Sangue di Cristo nell’anno B riporta il racconto dell’istituzione dell’eucaristia secondo Marco. In questa narrazione si mette specialmente in risalto il legame tra l’eucaristia e la Pasqua ebraica, come anche ricorda la sequenza che propone la liturgia: l’eucaristia «è il banchetto del nuovo re, nuova Pasqua», annunciato nei simboli, «in Isacco dato a morte, nell’agnello della Pasqua». Nella notte santa in cui il popolo è stato liberato dalla schiavitù, il Signore «è passato» (si veda il verbo pasach, Es 12,13.23.27) risparmiando le case in cui si celebrava la Pasqua, costituendo questo rituale come un momento dinamico che trascina il popolo fuori dalla propria situazione di schiavitù. Questo evento straordinario viene celebrato ogni anno dagli Ebrei per rendere presente la salvezza di Dio in ogni circostanza angosciosa e dolorosa; per questo motivo, la Mishnà, uno scritto del II sec. d.C., può dire: «Di generazione in generazione è necessario che ogni uomo veda se stesso come se fosse proprio lui ad essere uscito dall’Egitto» (Pesachìm 10,5). Nel racconto di Marco, allora, Gesù istituisce l’eucaristia donando un nuovo significato ai segni pasquali e mostrando che nella passione si compirà la Pasqua, il «passaggio» da questo mondo al Padre (Gv 13,1).   R Preparare la Pasqua. I discepoli chiedono a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?» (Mc 14,12). La sala per la celebrazione della cena pasquale doveva essere pulita a fondo per far scomparire ogni traccia di lievito (simbolo di tutto ciò che lega la persona a quanto è vecchio, cf. Mishnà.Pesachìm, 9,3) e diventare dignitosa come un tempio. Specialmente Marco insiste sulla ricercatezza degli arredi («arredata e già pronta», v. 15), facendo probabilmente riferimento ai cuscini che servivano da divani per consumare il pasto sdraiati, secondo l’usanza grecoromana. L’insistenza sui preparativi evoca quindi un motivo molto conosciuto dalla tradizione ebraica; il rituale della Pasqua infatti non è una semplice formalità, ma intende coinvolgere tutti i partecipanti nel movimento della celebrazione. Tutti i segni del rito hanno un carattere pedagogico e anche i figli più piccoli sono implicati in esso grazie a un momento specialmente dedicato a loro (Es 12,26–27).   R Il pane. Al cuore della celebrazione pasquale ha luogo una cena. I vangeli mettono in risalto solo i segni del pane e del vino, perché sono quelli che Gesù reinterpreta collegandoli alla sua passione e risurrezione. La cena comincia con una benedizione in cui si riconosce che Dio provvede anche nelle circostanze della vita quotidiana. Poi, come nella Pasqua ebraica il capo famiglia spiega i segni ai presenti, Gesù, a sua volta, offre la sua nuova interpretazione dei due segni principali. Il pane, simbolo dell’afflizione e della schiavitù in Egitto (cf. Mishnà. Pesachìm, 10,5), è associato al suo corpo («Questo è il mio corpo»), alla sua persona consegnata alla morte. In questo modo, attraverso il pane, si esprime il dono totale di sé realizzato da Gesù capace di nutrire la vita di coloro che lo accoglieranno, proprio perché frutto di un amore straordinario. La comunione eucaristica, quindi, può soddisfare il desiderio di sazietà che abita nel cuore di ciascuno e che molto spesso si traduce in una ricerca di mille compensazioni.   R Il vino. Il secondo gesto, raccontato nei vv. 23–24, fa riferimento alla bevanda più essenziale per la cena pasquale, il vino. Nel racconto di Marco in primo luogo si afferma che i presenti bevono al calice e solo in un secondo momento si introduce la parola con cui il Maestro interpreta il nuovo significato del segno; non c’è modo migliore per ricordare che per Dio il dono viene prima delle interpretazioni, la realtà prima della sua comprensione. La spiegazione di Gesù, poi, evoca la prima lettura (Es 24,3–8) in cui l’alleanza viene siglata attraverso una lunga proclamazione di quanto Dio ha rivelato a Mosè e con un’aspersione di sangue che manifesta simbolicamente il desiderio divino di legarsi al popolo. In questo modo, il vino, che nella Pasqua ebraica è simbolo della festa e della vittoria, diviene il sangue di Gesù, strumento essenziale con cui si realizzerà in maniera indefettibile la comunione e la familiarità tra Dio e l’umanità, compiendo ciò che viene prefigurato nel rituale dell’alleanza di Es 24.   R Non berrò più del frutto della vite. Nel v. 25 Gesù riconosce che la sua vita sta per finire e che la morte gli impedirà di consumare altri pasti assieme ai discepoli. Tuttavia, facendo questo conclude il suo discorso con un tono molto positivo: mentre Gesù sta per affrontare la Passione, ha la certezza di fede che berrà del vino «nuovo» nel regno di Dio, sa che il Padre non potrà lasciare che la morte lo inghiotta definitivamente nel suo abisso. La Parola proclamata, quindi, rivela ai fedeli che si può affrontare il dolore e la morte con la certezza che Dio è vincitore risorto. L’eucaristia è lo strumento essenziale per realizzare questo passaggio dalla morte alla vita, e per nutrire e consolidare la fede.
   
La vita celebrata e donata
 
     Il Vangelo riporta le parole pronunciate e i gesti compiuti da Gesù durante la sua ultima cena, nella cornice, solenne e festosa, della Pasqua (cf. Mc 14, 12–16.22–26). La sala ben preparata, il banchetto, il vino caratterizzano la cena di Gesù in compagnia dei discepoli come un convito di gioia. E la Pasqua del Signore, la festa della salvezza e della liberazione. Al tempo di Gesù la Pasqua aveva un doppio significato, uno rivolto al passato e l’altro al futuro. Il pio israelita ricordava come fosse stato liberato dall’Egitto e come le case, segnate dal sangue dell’agnello, fossero state risparmiate dalla grazia di Dio. Ma questo è solo un aspetto, il convito pasquale aveva contemporaneamente anche lo sguardo rivolto alla liberazione futura, di cui la liberazione passata (dalla schiavitù d’Egitto) e presente è soltanto una figura. Dunque, ricordo e speranza, gioia per la liberazione ottenuta e per la certezza di una liberazione ancora più grande nel futuro. Gesù ha compiuto il suo gesto in questa cornice festosa, in una celebrazione pasquale, proprio perché voleva che esso si caricasse di tutti questi significati.      È da osservare che Gesù ha compiuto il suo gesto durante un banchetto, scegliendo un contesto umano che è, nel contempo, fra i più semplici e quotidiani (che cosa c’è di più semplice di una cena fra amici?) e fra i più ricchi di valori simbolici (intimità, fraternità, amicizia). La gioia della cena di Gesù non trova unicamente la sua radice nel dono della libertà che Dio ci ha fatto, e neppure soltanto nella promessa della salvezza futura, ma anche nella fraternità che già ora attorno a lui gli uomini possono costruire e gustare. Non a caso Luca, raccontando della cena eucaristica dei primi cristiani, scrive che spezzavano «il pane nelle case, prendevano i pasti con letizia e semplicità di cuore» (At 2,46).      Un altro tratto da rilevare è il clima di ringraziamento. Gesù prese il calice e «rese grazie». E da questo particolare, in apparenza secondario ma in realtà essenziale, che il gesto di Gesù mutuò il suo nome di «eucaristia» (che significa, appunto, ringraziamento). Gesù ringrazia — e con lui continua a farlo la chiesa e ogni discepolo — per le grandi opere che Dio ha compiuto a nostro favore: dalla creazione alla redenzione, dal dono del cibo (pane e vino) al dono della sua alleanza (la nuova alleanza!), dall’amicizia fra noi all’amicizia con lui. Discepolo è colui che riconosce che tutto è dono, e sempre ringrazia. Fare eucaristia significa riconoscere i doni di Dio, sempre e dovunque saper ringraziare.      Un ulteriore aspetto da non trascurare è la cornice di tradimento entro la quale è inserito il gesto di Gesù. L’eucaristia è istituita fra la constatazione del tradimento di Giuda e la profezia dell’abbandono dei discepoli. E un tratto che si incontra anche negli altri Vangeli. Nello stridente contrasto fra il gesto di Gesù che si dona e il tradimento degli uomini, la comunità cristiana ha colto la grandezza dell’amore del Cristo, la sua gratuità, la sua ostinazione. Tuttavia sembra che l’evangelista colga anche un duplice avvertimento. La comunità è invitata a non scandalizzarsi allorché scoprirà nel proprio seno il tradimento e il peccato. Viene così tolto alla radice ogni motivo in base al quale poter dire: questa non è più la chiesa amata da Dio! Contemporaneamente la comunità è invitata a non cullarsi nella falsa sicurezza e a non presumere di sé: il peccato è sempre possibile, ed è male fidarsi delle proprie forze. La comunità è invitata a vigilare. In tal modo la celebrazione eucaristica è insieme avvertimento e consolazione; mette in luce contemporaneamente l’ostinato amore del Cristo e il peccato e le divisioni della comunità. Anche le divisioni comunitarie devono apparire, ma non per dire «permangono le divisioni, tralasciamo l’eucaristia», bensì per concludere che, nonostante le divisioni, Cristo ci salva, nonostante il peccato, siamo la chiesa di Dio.      Infine, il tratto più importante, quello centrale: con il gesto del pane spezzato e condiviso e del sangue distribuito, Gesù rivela il significato profondo di tutta la sua vita: una vita in dono, una vita spesa nella fedeltà al Padre e in solidarietà con gli uomini. Ecco perché Gesù istituisce l’eucaristia alla fine della sua esistenza, nell’imminenza della passione: non soltanto perché il pane spezzato e il vino distribuito sono una profezia in atto della croce, ma perché — come la stessa croce, del resto — sono espressioni della sua intera esistenza, che ora egli può raccogliere ed esprimere in quanto giunta alla fine.      «Corpo» e «sangue» — «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue» — dicono la persona e l’intera esistenza, non soltanto la morte. Gesù raccoglie dunque in due gesti semplicissimi, quasi quotidiani e proprio per questo estremamente significativi, tutta l’esistenza che egli ha vissuto in obbedienza al Padre e in dono ai fratelli: ha mangiato con pubblicani e peccatori, ha dispensato la Parola alle folle, ha invitato i discepoli a condividere il suo destino, ha speso ogni istante della sua vita come un servizio: «Il Figlio dell’uomo non è venuto a farsi servire, ma a servire» (Mc 10,45). Il gesto eucaristico svela la verità del Cristo, cioè quella tensione interiore che lo ha guidato sin dall’inizio. Ed è a questa vita che il discepolo è invitato a conformarsi: «prendete», «mangiate». Il vino deve essere bevuto e il pane deve essere mangiato: in altre parole, la via della croce deve essere continuata. L’eucaristia è così, contemporaneamente, presenza di Dio, dono, e progetto ecclesiale. Dalla prima comunione (quella di Dio con noi) scaturisce la seconda (quella fra noi): la via del Cristo (una vita in dono, per tutti, nonostante il rifiuto) deve diventare la via del suo discepolo. Il vero discepolo fa memoria del Cristo e del suo amore ponendo due segni, inseparabilmente: ripetendo i gesti del pane e del vino (è il segno liturgico, sacramentale), e costruendo la sua vita come dono in modo tale da trasformarla in un’immagine, concreta e visibile, dell’esistenza che il Signore ha vissuto (è il segno della vita).      Ricco e vario è il significato della celebrazione eucaristica, senza dubbio, ma il suo nucleo originario e centrale è che vi si celebra l’esistenza in dono di Gesù. Non si afferma soltanto una presenza — la presenza reale del Cristo fra noi — ma un modo di vivere.
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Preghiera di Roberto Laurita
 
Quella sera, nel contesto della cena pasquale, tu hai fatto due gesti semplici, Gesù.   Quel pane spezzato è la tua vita, donata a tutti, senza nulla trattenere. Hai speso ogni istante a favore dei piccoli, dei poveri, dei malati.   Hai guarito e richiamato all’esistenza, hai rigenerato a nuova vita offrendo misericordia e perdono. Ora è giunto il momento di suggellare ogni parola e ogni gesto, consegnandoti nelle mani dei nemici.   Quel vino è il sangue versato per un’alleanza nuova, tra Dio e l’umanità, un vincolo che lega per sempre il Creatore e le creature, perché l’amore è più forte di ogni rifiuto e di ogni ingratitudine.   Quel pane e quel vino sono il viatico per il nostro pellegrinaggio terreno, sono il sostegno alla nostra fatica, il cibo che nutre la nostra speranza.
Colletta
 
Signore, che ci hai radunati intorno al tuo altare per offrirti il sacrificio della nuova alleanza, purifica i nostri cuori, perché alla cena dell’Agnello possiamo pregustare la Pasqua eterna della Gerusalemme del cielo.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
Amen.