Sequenza di Pentecoste allo Spirito Santo   Vieni, Spirito Santo, manda a noi dal cielo un raggio della tua luce.   Vieni, padre dei poveri, vieni, datore dei doni, vieni, luce dei cuori.   Consolatore perfetto; ospite dolce dell’anima, dolcissimo sollievo.   Nella fatica, riposo, nella calura, riparo, nel pianto, conforto.   O luce beatissima, invadi nell’intimo il cuore dei tuoi fedeli. Senza la tua forza, nulla è nell’uomo, nulla senza colpa.   Lava ciò che è sordido, bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina.   Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, drizza ciò che è sviato.   Dona ai tuoi fedeli, che solo in te confidano, i tuoi santi doni.   Dona virtù e premio, dona morte santa, dona gioia eterna.   Amen.
Dagli Atti degli Apostoli
At 2,1–11
1Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. 2Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. 3Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, 4e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. 5Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. 6A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. 7Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? 8E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? 9Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, 10della Frigia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, 11Giudei e proséliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».
   
L’evento della discesa dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste è stato preparato con cura da Luca non solo nelle ultime parole del Risorto che annunciava la sua venuta imminente ma anche nella profezia più oscura di Lc 3,16 dove Giovanni Battista prefigurava il tempo in cui Gesù avrebbe battezzato «in Spirito Santo e fuoco». Stupisce non poco, quindi, che questo evento sia ripreso raramente negli Atti, che pure sono certamente consapevoli dell’ampia portata di questo avvenimento nel quale sono racchiuse le condizioni per il dipanarsi della missione ai quattro angoli del mondo. Una parziale eccezione a questo imbarazzato silenzio è l’accenno che troviamo da parte di Pietro in At 11,15 quando si trova costretto a rendere ragione della sua visita in casa del centurione pagano Cornelio. L’apostolo sintetizza così la vicenda: «Lo Spirito Santo discese su di loro, come in principio era sceso su di noi». Qui egli vede appunto la realizzazione della profezia di Giovanni appena rievocata, ma soprattutto considera l’episodio in tutta la sua valenza fondativa. L’espressione «in principio» è carica di senso, rimanda a un tempo che non è solo l’inizio cronologico di qualcosa ma anche la sua ragion d’essere. Come Pietro vede nell’effusione dello Spirito sui pagani il segno di un nuovo rapporto con Dio (da timorati a piena appartenenza), così intende l’evento della Pentecoste come inaugurazione degli ultimi giorni, quelli in cui la comunità testimonia la presenza di Dio al suo interno.   R Molte lingue o una soltanto? Uno degli aspetti più frequentemente fraintesi della Pentecoste è il fenomeno delle lingue. Luca, in verità, è molto sobrio a questo riguardo e non specifica l’esatta natura dell’avvenimento: si tratta di un vero e proprio miracolo per cui gli apostoli sono in grado di comunicare in lingue a loro finora sconosciute oppure le folle intendono il messaggio comune nella loro lingua nativa, quasi come la manna che aveva per ciascuno un sapore differente? O ancora, dobbiamo pensare a una forma poetica per esprimere l’idea che il vangelo viene espresso nelle categorie comprensibili a ciascuno? Di certo siamo lontani da quel concetto di anti–Babele che spesso viene riproposto nelle omelie, quasi che i discepoli di Gesù parlassero un’unica lingua comprensibile a tutti, rimediando alla diversificazione del linguaggio che colpì gli audaci costruttori della torre. Qui non si parla affatto di annullare le differenze, ma di superare le incomprensioni. Anzi, una unificazione del linguaggio sarebbe piuttosto da intendere come un progetto malvagio e persino demoniaco che cancella le differenze volute da Dio! A livello politico, l’uniformità di lingua era uno strumento di oppressione che serviva agli scopi di dominazione dei poteri centrali: Roma aveva tutto l’interesse a imporre l’uso del latino in Occidente e del greco in Oriente per esercitare più facilmente il suo controllo su quei territori. La persistenza dei dialetti e la differenza delle lingue costituiva piuttosto un atto di ribellione, una rivendicazione di un’identità locale che non sottostava all’autorità del dominatore ma manteneva i valori distintivi locali. Luca ha una posizione decisamente ambivalente nei riguardi di Roma: da un lato riconosce la legittimità del suo potere e apprezza l’esercizio del diritto che preserva dall’anarchia e tutela le persone, ma dall’altro smaschera la propaganda imperiale coi suoi ideali di pace che sono ben lontani da quella che Dio solo può dare e non confonde le buone notizie diramate dalla macchina del regime con la buona notizia che riguarda Gesù Cristo. R Una diversità accogliente. In questa prospettiva è del tutto plausibile che Luca riconosca l’importanza della eteroglossia, cioè della molteplicità delle lingue, tramite la quale il vangelo incontra le persone nella propria individualità e singolarità, senza assimilarle forzatamente. Inoltre una diversificazione del messaggio fa sì che nessuno possa pretendere di possederlo nella sua totalità, ma richiede un continuo sforzo di confronto e di verifica con la posizione dell’altro. Quando ci si adatta a una lingua condivisa ci si accontenta di trovare un minimo comune denominatore, mentre quando si ha il coraggio di entrare nella lingua dell’altro si accetta la sfida della complessità e della varietà. Ed è proprio questo che sorprende i pellegrini di Gerusalemme: «Non sono forse tutti Galilei? Come mai li sentiamo parlare nelle nostre lingue?». Il loro stupore deriva dal fatto che non vengono forzati a rientrare in un modello comune, ma viene riconosciuta la specificità di ciascuno. Non sono più proseliti e forestieri, ma cittadini a pieno titolo di una realtà nuova.
   
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Rm 8,8–17
Fratelli, 8quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio. 9Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. 10Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. 11E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. 12Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, 13perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. 14Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. 15E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». 16Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. 17E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.
 
Troppo spesso il ruolo dello Spirito nelle lettere di Paolo viene relegato dai commentatori in secondo piano, quasi che l’enfasi posta sulla figura di Gesù fosse la sua unica priorità. In realtà l’apostolo considera lo Spirito un elemento centrale e insostituibile nella vita del credente, in un certo senso è la presenza che abilita al rapporto diretto con Dio perché grida il nome del Padre (Rm 8,15) e permette di riconoscere Gesù come Signore, cosa che sarebbe impossibile senza il suo suggerimento (1 Cor 12,3). Un aspetto fondamentale, dunque, è che lo Spirito è il sigillo di una nuova relazione con Dio che viene intesa con i tratti della figliolanza. Più che indicare come funziona questo rapporto, Paolo sottolinea che lo Spirito ne è la prova. Qualcosa di simile avviene anche a proposito della giustificazione, laddove il conferimento dello Spirito costituisce il segno evidente di una corretta relazione tra noi e Dio. Proprio per il fatto che abbiamo ricevuto lo Spirito, possiamo essere sicuri che il Signore ci ha riconciliati a sé. Non è lontano dal vero affermare che lo Spirito funziona da conferma di un rapporto di amicizia e di libertà. Tratto tipico del pensiero di Paolo è la contrapposizione tra la condizione di schiavitù sotto il peccato e quella della libertà dei figli di Dio. L’evento della morte e risurrezione di Gesù ha fatto sì che noi passassimo dal dominio del peccato e della morte che limitavano la nostra possibilità di azione ad una potenzialità sconfinata. Il credente non ha meritato questo dono, ma ora ha la responsabilità di mantenere questa libertà ricevuta e di non tornare alla schiavitù. Ha ottenuto la dignità di figlio e non deve ricadere nella degradazione dello schiavo. L’impegno etico che l’apostolo propone ai credenti delle sue comunità può essere riassunto in poche parole: non vanificare il dono prezioso che Cristo ci ha ottenuto con una condotta dissoluta che rinnega la nostra condizione di figli.
 
X Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 14,15–16.23–26
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 15«Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; 16e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre. 23Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. 24Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. 25Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. 26Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».
 
Parte di questo vangelo è in comune con quello che abbiamo affrontato due domeniche addietro perciò qui ci soffermiamo soltanto su ciò che riguarda il dono dello Spirito, grande protagonista di questa solennità. Non possiamo tuttavia fare a meno di notare che questo dono è conseguenza di una relazione salda tra noi e il Padre, una relazione che si fonda sull’amore. Nelle battute iniziali del Vangelo di Giovanni l’enfasi era stata sull’amore che Dio ha per noi, fino al punto di mandare il suo Figlio per la nostra salvezza (cf. Gv 3,16). Ora invece l’attenzione pare spostarsi sulla risposta umana all’amore divino, poiché il rimanere nella parola di Gesù rende liberi (8,31) e la libertà rende efficace il dono dello Spirito.   R Un regalo da comprendere e per comprendere. Lo Spirito viene presentato qui come ciò che Gesù chiede e ottiene dal Padre a vantaggio dei discepoli come presenza che lo rimpiazzerà presso di loro. Questa continuità è resa evidente dall’espressione «un altro Paraclito», dove non c’è dubbio che il primo fosse Gesù stesso, come esplicita peraltro il testo di 1 Gv 2,1 («abbiamo un Paraclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto»). Le difficoltà nel tradurre questo termine sono ben note, come appare dalle traduzioni moderne che oscillano tra consigliere, confortatore, aiutante… L’etimologia è abbastanza chiara, implica un chiamare accanto che può però essere inteso sotto molteplici aspetti. Inoltre il richiamo etimologico non è di grande utilità se non si coglie lo specifico che proviene dal contesto. E non ci si può neppure appellare al suo utilizzo nella versione greca dell’Antico Testamento perché non vi compare mai. La scelta minimalista della traduzione liturgica di lasciarlo non tradotto può essere tutto sommato un’opzione accettabile perché non preclude nessuna delle funzioni che esercita nelle numerose occasioni in cui è citato nei discorsi di addio del Vangelo di Giovanni. Köstenberger le riassume efficacemente: 1. far ricordare ai discepoli l’insegnamento di Gesù (14,26); 2. dare testimonianza a Gesù insieme ai suoi seguaci (15,26); 3. convincere il mondo circa il peccato, la giustizia e il giudizio (16,8–11); 4. guidare i discepoli di Gesù alla verità tutta intera (16,13). Considerata la molteplicità e varietà delle funzioni, non è semplice trovare un’etichetta riassuntiva del suo agire. Per fortuna la nostra analisi oggi si limita alla prima di queste funzioni, che riveste un ruolo essenziale perché è da qui che nasce l’esperienza missionaria della chiesa.   R Ricordare e comprendere. La comunità giovannea testimonia ciò che già avvenne nel testo stesso del vangelo, poiché in due occasioni si menziona appunto questo ricordo che porta alla comprensione di eventi misteriosi della vita di Gesù. La prima è il detto sulla risurrezione in occasione della purificazione del tempio: «I suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù» (Gv 2,22). La seconda è legata all’ingresso di Gesù in Gerusalemme secondo la profezia di Zaccaria: «I suoi discepoli sul momento non compresero queste cose; ma, quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che di lui erano state scritte queste cose e che a lui essi le avevano fatte» (Gv 12,16). Durante il ministero terreno di Gesù capita spesso che i discepoli non comprendano del tutto o che fraintendano i suoi insegnamenti – segno abbastanza chiaro che le parole e i gesti di Gesù non sono di per sé evidenti –, ma dopo la Pasqua vengono illuminati dalla luce dello Spirito che li guida alla verità intera (Gv 16,13). La situazione qui assomiglia a ciò che troviamo nel Vangelo di Marco dove solo dopo che Gesù muore sulla croce il centurione è in grado di dire: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (15,39). Tuttavia c’è una differenza sostanziale: il centurione ha un’intuizione istantanea che si conclude con quella sentenza, mentre la comunità credente ha una chiave di lettura a cui può ricorrere ogni volta che ne avrà bisogno.   R Tradizione e comprensione. Alla luce di queste considerazioni possiamo registrare il fatto che lo Spirito non è soltanto il garante di una trasmissione fedele dei detti e delle azioni del Signore, ma ne è anche il più fedele interprete. In fondo per riportare accuratamente le vicende sarebbero bastati dei testimoni credibili con una buona memoria, mentre il compito affidato alla chiesa è molto più complesso. In quest’opera di ricomprensione, infatti, non sono coinvolti soltanto i fatti dell’evento–Cristo, ma tutta la rivelazione, perché lo Spirito introduce i credenti alla comprensione di tutte le Scritture che appunto trovano in quell’evento la giusta chiave di lettura. Le cose rivelate dallo Spirito non sono un’aggiunta rispetto a quanto ha comunicato Cristo e neppure alternative. L’evangelista farà specificare a Gesù più avanti che lo Spirito «non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito» (Gv 16,13). Qui si riproduce un meccanismo simile a quello esistente tra il Figlio e il Padre, dato che Gesù ricorda a più riprese questa subordinazione (cf. Gv 7,16: «La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato»). I credenti hanno sempre dovuto misurarsi con la tentazione di carpire dallo Spirito delle rivelazioni segrete ed esoteriche riservate a degli indagatori privilegiati. Non è un caso che il Vangelo di Giovanni ebbe grandi estimatori nei circoli gnostici e anche tra gli iniziati dell’epoca moderna. Ma siccome lo Spirito è un dono che tutti i credenti ricevono col battesimo, non c’è motivo di ritenere che faccia discriminazioni.
 
Lo Spirito santo v’insegnerà ogni cosa. Gv 14, 15–16.23b–26
       Lo Spirito: misterioso cuor del mondo, vento sugli abissi, fuoco del roveto, Amore in ogni amore; è l’estasi di Dio, l’uscire di Dio da se stesso, il legame che sta al principio, il legame di Dio con Dio e con ogni essere vivente, effusione ardente di vita, il debordare di un amore che cerca, che preme, dilaga, si apre la strada verso il cuore dell’uomo. Come colomba e come aquila si getta in volo sugli abissi e sui profeti: «Sono stato afferrato da Dio» dice Paolo (Fil 3, 12); e Geremia: «Mi hai fatto violenza e hai prevalso» (Ger 20, 7).        Il racconto degli Atti degli Apostoli è pervaso da un’idea di pienezza, di esuberanza: la casa è piena di vento impetuoso, i discepoli sono tutti pieni di Spirito, Gerusalemme è piena di popoli. È la nostalgia della pienezza, quella che Paolo indica come la nostra vocazione: «Avete in lui parte alla sua pienezza» (Col 2, 10). Lo Spirito è sceso nella creta perché la creta diventasse Spirito, energia del grande esodo verso la pienezza della vita. Nel salmo responsoriale abbiamo cantato: «Del tuo Spirito, Signore, è piena la terra». Anche se questo non è evidente, anche se ci appare piena di ingiustizia, sangue e follia, la terra è piena dello Spirito di Dio. Si tratta di un atto di fede.        Vento, fuoco, rombo che scuote: sono questi i tre simboli della Pentecoste. Il nostro cristianesimo oggi ha bisogno estremo di queste stesse cose.        Il fuoco è il dono di un cuore acceso, indica l’alta temperatura in cui solo può avvenire il miracolo del concepimento di un uomo nuovo, è l’invito a non gestire con avarizia i propri sentimenti, a dare, audacemente, dissennatamente, imprudentemente i tesori dell’affetto e della cura.        Il rombo che scuote la casa indica il fremito della madre terra, il suo spasimo per la nascita dei cieli nuovi e delle nuove terre. Lo Spirito che scuote è creazione e forza; ma nella nostra cronaca quale audacia sa creare ancora la forza irresistibile di Dio?        E poi il vento: che gonfia le vele, che fa nascere i cercatori d’oro, respiro stesso di Dio in noi. Nulla è più libero del vento, fascia le cose e passa oltre, porta ovunque i pollini della primavera e disperde le ceneri della morte.        La parola più intimamente connessa con lo Spirito di Dio è “nascita”, con tutto il suo registro di significati: creazione, vita, trasformazione, cosa nuova, profezia, futuro. Lo Spirito è colui che presiede a ogni nascita, il suo lavoro è «dare la vita», come afferma il Credo. Anche quando la vita ci pare impossibile, quando vince dovunque la violenza, quando ti senti stanco, e il tronco freddo della vita non mette più gemme, e la terra sembra un ventre invecchiato e sterile, anche allora lo Spirito è «il vento che non lascia dormire la polvere» (D.M. Turoldo), e può inaugurare in noi e fuori di noi i giorni di nuove nascite. Egli è qui, sugli abissi del mondo e sugli abissi del cuore. Anche se ci pare impossibile.        Quando Nicodemo obietta a Gesù: «Come è possibile rinascere? Devo rientrare nel grembo di mia madre?», Gesù risponde pronunciando una delle parole più alte per la nostra vita spirituale: «Chiunque è nato dallo Spirito è spirito» (Gv 3, 6). Adamo che nasce dal soffio di Dio è soffio di Dio. Il cristiano nasce dallo Spirito ed è spirito. Io sono spirito; con tutte le mie resistenze io sono spirito; con tutta la mia fragilità io sono figlio di Dio e spirito di Dio. Ed è così vero al punto che, leggendo san Paolo, non si riesce quasi mai a capire fino in fondo quando la parola Spirito si riferisca alla Persona misteriosa della Trinità, alla vita di Dio, e quando invece all’uomo che riceve in sé la vita di Dio.        «Verrà lo Spirito e porterà in te il Figlio di Dio» assicurava l’angelo a Maria. E Gesù promette ai suoi: «Verrà lo Spirito e vi riporterà al cuore tutte le mie parole» (Gv 14, 26). Incessantemente lo Spirito compie l’identica opera: riportare al cuore la Parola: al cuore, non alla mente, perché sia parola vitale, non intellettuale. Lo Spirito fa nascere vangelo, genera vangelo.        A Gerusalemme la folla è presa da stupore perché «ciascuno sente gli apostoli parlare la propria lingua nativa» (At 2, 6). Lo Spirito instancabilmente fa diventare tua lingua la parola di Dio: tua lingua e tua passione e tuo cuore. Fa parlare la parola di Dio nella lingua della vita, nel linguaggio che conosco bene, con le parole più belle e più care a ciascuno, perché confortano la certezza più umana che abbiamo e che tutti ci compone in unità: l’aspirazione alla gioia, alla pace, alla vita, all’amore. Per questo motivo lo Spirito è il Consolatore, perché conforta la vita, pronuncia le parole più belle e più vere che abbiamo, parla cioè la lingua che ciascuno ben conosce, fa rinascere nel cuore le parole che a tutti sono care, e cara a ogni uomo diventa la stessa parola di Dio.        «Lo Spirito santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi riporterà al cuore tutto ciò che io vi ho detto.» Ha uno stile particolare lo Spirito: parla al cuore. Ed è questa la sua forza. Molti attorno a noi parlano, pochi parlano parole che non siano lontane, uno solo parla al cuore.        E questo accade quando senti in te la capacità di fidarti della legge della croce; quando ti fidi della sconvolgente bellezza delle cose sul loro nascere; quando senti il coraggio di essere, spesso da solo, a vegliare sui primi passi della pace, degli avvicinamenti tra le persone; quando senti il coraggio di restare, anche da solo, a guardare lontano e avanti, oltre le apparenze: è lui, lo Spirito creatore, fiamma degli inizi, che si posa su di te, per nuove nascite.          La Pentecoste dissemina immagini di libertà e di vita. Dove c’è lo Spirito di Dio, ivi è libertà. All’avvicinarsi del vangelo si deve sentire aria di libertà. Allora la nostra storia di credenti è tutt’altro che una cronaca di ubbidienze, la nostra è una storia regale e creatrice, una presenza libera e regale fra le cose, che ascende con tutte le creature, con passo glorioso e solare, responsabile di una porzione di cosmo, fino a che il cuore ci sia mutato e diventi capace del respiro di Dio. Fino a che ci sia donato un cuore di creatori.

Antonio Van Dyck 1599 – 1641

La discesa dello Spirito Santo

Sanssouci, Potsdam

Preghiera di Roberto Laurita
 
Vieni, santo Spirito, e porta luce e coraggio nella nostra esistenza travagliata. Siamo come fragili imbarcazioni in balìa di tempeste violente. Conosciamo la nostra debolezza e ci scopriamo terribilmente disorientati da tante sollecitazioni, da tanti messaggi contraddittori e contrastanti.   C’è chi cerca il successo o il plauso, adattandosi alla mentalità dell’epoca, ignorando il tuo vangelo, in una rincorsa continua verso le novità. C’è chi si sente accerchiato e innalza mura potenti e indossa elmo e corazza, pronto a dare battaglia.   Vieni, santo Spirito, tu che hai già accompagnato, sostenuto e rischiarato i discepoli di Gesù. E allora ricordaci le parole di Gesù, accendi col tuo fuoco i nostri cuori, rendici uniti e operosi, aperti e solidali.   Fa’ di ognuno di noi un lievito buono che trasmette pace e riconciliazione, che fa crescere la speranza, attraverso gesti di fraternità.
Colletta
 
O Dio, che nel mistero della Pentecoste santifichi la tua Chiesa in ogni popolo e nazione, diffondi sino ai confini della terra i doni dello Spirito Santo, e rinnova anche oggi nel cuore dei credenti i prodigi che nella tua bontà hai operato agli inizi della predicazione del Vangelo.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
Amen.