Invocazione allo Spirito Santo di S. Elena Guerra   O eterno Spirito, luce, verità, amore e bontà infinita, che abitando come ospite dolcissimo nell’anima cristiana, la rendi atta a produrre frutti di santità, che derivando da Te, o principio sempre fecondo della vita spirituale, si chiamano appunto frutti dello Spirito Santo, noi, anime sterili, ti supplichiamo di infonderci quella vitalità e fecondità che produce e matura i tuoi santi frutti!   Amen.

H. Rembrandt, Ascensione, 1636, Alte Pinakothek, Monaco

Dagli Atti degli Apostoli
At 1,1–11
1Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi 2fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. 3Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. 4Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: 5Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». 6Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». 7Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, 8ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra». 9Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. 10Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: 11«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».
 
Teofilo riceve da Luca il dono di un secondo volume che riprende da dove aveva concluso la prima parte. Dopo quaranta giorni di formazione supplementare, la truppa dovrebbe essere sufficientemente addestrata per affrontare il gravoso compito della missione universale. R A ciascuno il suo viaggio. L’episodio di oggi si conclude con la partenza di Gesù verso il cielo, ma questo non è l’unico viaggio richiesto dalla situazione. C’è un altro itinerario altrettanto importante che attende i discepoli, quello «fino ai confini della terra» che è appena stato abbozzato alle loro menti. In realtà Gesù sarà presente anche in quel viaggio perché ormai è Signore del tempo come anche dello spazio. C’è una profonda corrispondenza tra questi movimenti perché Gesù viene espressamente indicato come accompagnatore della missione verso i pagani («la mano del Signore era con loro», At 11,21) e al tempo stesso la salita al cielo non è solo la via della sua glorificazione quanto l’apertura di un sentiero che anche noi potremo praticare. Luca non si dilunga nel descrivere questa partenza verso l’alto ma presenta un dettaglio importante dal punto di vista teologico, una nube che sottrae Gesù allo sguardo dei discepoli. È il particolare a cui sembrano fare riferimento i due angeli quando dicono ai discepoli che ritornerà allo stesso modo in cui l’hanno visto andarsene. Qui pare esserci un rimando a ciò che Luca aveva scritto nel suo vangelo a proposito del ritorno glorioso del Signore alla fine dei tempi: «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria» (Lc 21,27). La nube, quindi, non è un elemento coreografico né il semplice strumento usato per nascondere Gesù alla vista umana, ma il dettaglio che permette di riconoscere in lui il giudice della storia previsto dai profeti (cf. Dn 7,13). Sappiamo che Luca è un grande estimatore delle Scritture giudaiche e probabilmente nel dipingere questa scena si è anche lasciato ispirare da un altro celebre commiato verso l’alto, quello del profeta Elia in 2 Re 2,1–18. In quella occasione la dipartita del maestro segna anche l’inizio del ministero del suo discepolo Eliseo che, raccogliendone il mantello, riceve l’investitura come suo successore. In Atti non c’è un gesto simbolico di questo tipo ma è evidente che gli apostoli sono coloro che si assumono il compito di proseguire l’opera di Gesù, avendo ricevuto il potere dall’alto, promessa di Lc 24,49 che ora si realizza. Il linguaggio che usa Luca in Atti è leggermente diverso e perciò significativo: «Riceverete la forza dello Spirito Santo» (At 1,8). Questo modo di esprimersi richiama ancor più da vicino l’episodio di Elia, perché il segno della trasmissione del compito è indicato appunto dalla trasmissione dello spirito: «Appena Elia fu avvolto dal turbine, Eliseo fu ripieno del suo spirito» (Sir 48,12). Qui possiamo osservare marginalmente che se gli altri due sinottici, Marco e Matteo, identificano Giovanni Battista con la figura di Elia (cf. Mt 11,14), in Luca è invece il personaggio di Gesù ad agire in maniera simile all’antico profeta (cf. il risuscitamento del figlio della vedova di Nain in Lc 7,11–17 richiama il miracolo analogo compiuto da Elia col figlio della vedova di Zarepta in 1 Re 17,17–24).   R Cambiare lo sguardo. Accanto a Gesù che risale al suo cielo ci sono due uomini in bianche vesti che hanno la consueta funzione di angeli interpreti, cioè di figure che offrono una chiave di lettura degli eventi e riorientano i destinatari attraverso una domanda: «Perché state a guardare il cielo?» (At 1,11). La situazione è per molti aspetti simile a quanto avvenne poco prima al sepolcro con le donne che vengono apostrofate con un’altra domanda: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?» (Lc 24,5). In entrambi i casi la domanda serve a fermare la ricerca iniziale degli interlocutori (un fenomeno celeste da ammirare o un cadavere da venerare) per indirizzare l’interesse altrove. Se poi confrontiamo il racconto di Ascensione nel Vangelo di Luca con quello di Atti, la presenza dei due angeli spicca in maniera evidente e testifica il messaggio che rivela la diversa funzione dei due racconti: nel vangelo la scena ha il compito di chiudere la vicenda terrena di Gesù, mentre in Atti ha lo scopo di aprire la fase della missione della chiesa. In quest’ottica i discepoli sono chiamati a non guardare più indietro, cioè alla fase della missione terrena di Gesù, ma a quella che li attende e che si prospetta davanti a loro.
 
Dalla lettera agli Ebrei
Eb 9,24–28;10,19–23
9 24Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. 25E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: 26in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte. Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. 27E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, 28così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza. 10 19Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, 20via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, 21e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, 22accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. 23Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso.
   
La Lettera agli Ebrei è un documento piuttosto impegnativo perché scritto con categorie che non sono più familiari alla maggioranza dei lettori e ascoltatori contemporanei. L’autore ha impiegato molta cura per dimostrare l’eccellenza di Gesù rispetto a tutto il bagaglio tradizionale del Giudaismo, perciò il suo linguaggio è ricco di confronti tra le cose di prima e quelle attuali, tra ciò che è realtà e ciò che era solo ombra, tra le cose terrene e quelle celesti ecc. Nel cristianesimo dei primi secoli questa polarizzazione si radicalizzerà nella visione dualista dell’eresia gnostica, dove gli elementi materiali e terreni sono considerati soltanto negativamente a vantaggio delle realtà spirituali durature. Il nostro autore, però, è meno severo nel suo giudizio. Le cose terrene hanno certamente un valore parziale, ma possono essere il tramite per accedere a quelle celesti.   R Tempio e sacrificio. Il sacrificio che si celebrava nel tempio aveva una funzione limitata ma intanto ha offerto la categoria per inquadrare e comprendere il sacrificio per eccellenza, quello di Cristo sulla croce. E l’esistenza di un tempio terreno per accogliere la gloria di Dio rimanda alla sublimità di quel santuario speciale che è il cielo, che ha il privilegio di ospitare la presenza divina. Il fatto che Cristo sia entrato solennemente nel tempio celeste – ed è il mistero che celebriamo in questa festa – lo assimila alla figura del sacerdote che entrava nel santuario per presiedere i riti connessi. Con la differenza che, mentre l’ufficio svolto dai sacerdoti umani era imperfetto (dovevano offrire prima per se stessi e dovevano reiterare questo rito quotidianamente) il sacerdozio di Cristo è di altro genere ed efficacia perché non ha peccati da espiare e celebra una volta per sempre il suo stesso sacrificio.   R Il ritorno. L’altro aspetto che ricollega questo brano alla celebrazione odierna è la menzione del ritorno glorioso di Cristo. Sappiamo bene che l’attesa della parusia, cioè la venuta definitiva di Gesù, è un tema ricorrente in molti scritti del Nuovo Testamento, che si aspettavano avvenisse in un tempo ragionevolmente breve. Di questo ritorno abbiamo avuto conferma nelle parole degli angeli che concludono la prima lettura: ci sarà e avverrà in modo simile alla sua dipartita. Una prima venuta è stata per il peccato e una seconda sarà per portare la gioia della salvezza. David Allen sostiene – con buone ragioni – che l’autore di Ebrei si sia ispirato alla modalità secondo cui veniva celebrato il rito del giorno dell’espiazione nel tempio. Il sacerdote, infatti, entrava nel santuario dopo aver bruciato l’offerta e così spariva alla vista del popolo che attendeva fervidamente il suo ritorno. Una volta completati i suoi doveri all’interno del tempio, usciva di nuovo con gioia incontro alla gente nel cortile. La dinamica è quindi simile alla separazione che si produce con Gesù in seguito all’Ascensione: dopo una prima venuta in relazione al peccato «apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza» (9,28). I versetti tratti dal capitolo 10, che costituiscono la seconda parte della sezione proposta dalla liturgia, introducono invece il segmento conclusivo della lettera che è caratterizzato dall’alta densità di imperativi, più del doppio rispetto ai primi nove capitoli. Dopo avere illustrato i principi teorici, l’autore passa all’applicazione pratica. Da qui l’invito ad accostarsi con animo rinnovato (10,22) e mantenere salda la professione della speranza (10,23). La solidità di questa speranza non è minacciata dai dubbi che possono insorgere nel cammino della vita ma dai tentennamenti del credente che non è stabile nelle risoluzioni che prende nell’ambito della fede.
                   
X Dal Vangelo secondo Luca
Lc 24,46–53
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 46«Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, 47e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48Di questo voi siete testimoni. 49Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto». 50Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. 51Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. 52Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia 53e stavano sempre nel tempio lodando Dio.
Il modo in cui Luca termina il suo vangelo può apparire dimesso rispetto alla solennità con cui lo aveva avviato. Probabilmente aveva già maturato l’intenzione di comporre un secondo volume – gli Atti – in cui riprendere la narrazione e descrivere la corsa della Parola attraverso la diffusione del vangelo. E tuttavia questo finale sobrio non è privo di collegamenti con i capitoli iniziali del vangelo, il cosiddetto racconto dell’infanzia di Gesù.   R Dalla fine all’inizio. L’ingresso di Gesù in questo mondo era stato celebrato con i grandi cantici di Maria, di Zaccaria e di Simeone, che sono entrati a far parte della nostra liturgia quotidiana. Ora, invece, l’uscita di Gesù da questo mondo non è accompagnata da un inno particolare ma dall’affermazione che i discepoli «stavano sempre nel tempio lodando Dio» (24,53). Una piccola osservazione filologica ci può aiutare a focalizzare meglio il tema. I manoscritti più antichi di Luca qui presentano il verbo benedire (euloghéō) ma la traduzione liturgica sembra preferire la lezione dei manoscritti occidentali che usano il verbo lodare (ainéō). In questo modo risulta più evidente il collegamento con i fatti che riguardano la nascita di Gesù perché questo è il verbo che Luca utilizzò a proposito dei pastori che lodavano Dio per le meraviglie che avevano potuto osservare a Betlemme (2,20) e soprattutto per la liturgia celeste degli angeli che intonano il Gloria per celebrare l’ingresso di Gesù nel mondo (2,13–14). E non è tutto. Gesù richiede ai discepoli la predicazione della conversione per mezzo del perdono dei peccati (24,47). Questo tema è stato ampiamente annunciato nel ministero di Giovanni Battista, sia nelle parole profetiche del Benedictus (1,77) sia nella descrizione della sua prassi battesimale (3,3). Sappiamo bene che questa remissione è stata realizzata solo parzialmente in quel battesimo perché era una soluzione provvisoria in attesa di una risposta più radicale prevista da Giovanni stesso: «Viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (3,16). Perciò abbiamo buone ragioni per ritenere che Luca si riallacci consapevolmente agli inizi della sua storia quando termina il racconto del suo primo volume. R La missione senza confini. Accanto a questo aggancio ai prodromi del vangelo ve n’è uno altrettanto importante al secondo volume dell’opera lucana, anche se in maniera indiretta. Questo finale di vangelo ha molti tratti in comune con la conclusione del testo di un altro evangelista, Matteo, che fa terminare il suo testo con una richiesta esplicita ai suoi discepoli: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli» (Mt 28,19). Nel Vangelo di Luca, però, questo grande mandato missionario universale viene espresso in maniera più sfumata («nel suo nome [= di Gesù] saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati» 24,47). Ciò che più colpisce è il ricorso a un verbo passivo impersonale piuttosto che comandare agli apostoli di eseguire questo compito. I motivi che hanno spinto Luca ad esprimersi in questo modo potrebbero essere assai diversi, ma uno in particolare può rendere ragione di questa formulazione attenuata. Quando Luca descriverà negli Atti l’effettivo compimento di questo progetto, il ruolo attivo dei Dodici risulterà molto marginale. A portare il vangelo in Samaria (At 8) non è uno di loro ma Filippo, scelto tra i cristiani di lingua greca di Gerusalemme per il servizio della mensa delle vedove… I grandi viaggi missionari che portano la parola di Gesù fino all’Europa sono un’opera realizzata da Barnaba, un levita di Cipro aggregatosi alla chiesa gerosolimitana, e soprattutto Paolo, che non ebbe alcun contatto con il Gesù terreno e non faceva certo parte del gruppo dei Dodici. Dunque la cautela di Luca potrebbe essere conseguenza della consapevolezza che la missione universale non fu tanto iniziativa dei Dodici (gli unici che poterono restare a Gerusalemme dopo la persecuzione che scaturì dal martirio di Stefano, secondo At 8,1!) ma di coloro che furono costretti a lasciare la città santa e che «cominciarono a parlare anche ai Greci» (At 11,20).   R La missione è di Cristo. Aggiungiamo ancora un tassello a questo quadro. Un certo modo ingenuo di concepire gli Atti ci ha abituati a pensarli come la prosecuzione da parte della chiesa dell’opera che aveva avviato Gesù portata avanti in sua assenza. Questa idea sembra molto lontana dalla prospettiva dell’autore. Luca fa terminare il discorso di Paolo davanti ad Agrippa con delle parole molto simili a quelle che ha usato alla fine del suo vangelo. Paolo dice che Gesù doveva soffrire ma una volta risorto dai morti «avrebbe annunciato la luce al popolo e alle genti» (At 26,23). Notiamo che non soltanto viene preannunziata l’evangelizzazione delle genti, cioè i pagani, ma che ciò sarebbe avvenuto a opera di Cristo stesso. L’idea che con l’Ascensione Gesù si allontani dalla terra e assegni alla chiesa un compito per tenerla occupata risulta del tutto inadeguata alla realtà dei fatti. Cristo continua ad agire in questa chiesa attraverso il suo Spirito e non ha molta importanza se la predicazione è opera dei Dodici o di altri, ma è lui che opera attraverso questi intermediari che non sono altro che «servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio» secondo una bella definizione data da Paolo (1 Cor 4,1).
               
Mentre li benediceva, fu portato verso il cielo. Lc 24, 46–53
       Ci lasciamo guidare oggi dalle ultime immagini di Cristo Gesù, così come vengono disegnate dal Vangelo di Luca. Il distacco di Gesù dai suoi è raccontato con una sobrietà incantevole. Nulla di spettacolare in questo evento, ma come una dissolvenza progressiva verso la profondità delle cose.        «Gesù li condusse fuori verso Betania.» Betania è la casa dell’amicizia e dell’intimità. E Gesù vi conduce i suoi, come colui che traccia la via, che precede come pastore, colui che avanza sicuro, come ha fatto quando la meta era Gerusalemme, era il Calvario. Quante volte i discepoli hanno camminato dietro a lui, in quei tre anni di vagabondaggio libero e felice sulle strade di Palestina. E ora devono ancora ripartire, e confine saranno i confini del mondo, e ogni terra straniera sarà patria. Gesù precede i suoi, li precede su tutte le strade, soprattutto su quelle che conducono verso l’intimo di ogni creatura. Lui è davanti, incamminato verso ciascuno.        Poi, all’immagine di Gesù pastore e pellegrino senza casa, se ne sovrappone un’altra. Scrive Luca: «E, alzate le mani, li benedisse». L’ultima immagine che rimane negli occhi degli apostoli che non lo vedranno più, sono le mani di Gesù alte per benedire. Luca lo ribadisce: «Mentre li benediceva, fu portato verso il cielo». Quella benedizione è il suo gesto estremo, è la sua ultima parola che raggiunge ciascuno di noi e che non è più terminata. Una benedizione interminata.        Gesù entra nella Trinità e nell’eternità benedicendo. Una benedizione rimane per sempre tra cielo e terra, si stende come una nube di grazia sulla storia intera, è tracciata sul nostro male di vivere, discende sulle malattie e sulle delusioni, sulle sconfitte di ciascuno, sull’uomo caduto e su ogni vittima, ad assicurare che lavita non è abbandonata, che la vita è più forte delle ferite che noi stessi le infliggiamo.        L’ultima parola di Gesù per ogni discepolo è questa: Tu sei benedetto; c’è del bene in te; c’è molto bene in ogni uomo; questo devi testimoniare. E la benedizione sull’uomo è stata anche la prima parola del Creatore, parola pronunciata prima di ogni altra, prima di ogni compito o missione: «E Dio creò l’uomo, lo creò a sua immagine e somiglianza, maschio e femmina li creò. E Dio li benedisse e disse loro: Fruttificate, moltiplicatevi, riempite la terra» (Gen 1, 27s).        Noi siamo chiusi in un abbraccio di benedizione, “alfa e omega” dell’uomo e della storia. È un Dio che benedice, dice bene dell’uomo. Gesù parla bene di me, di te, dello sconosciuto fratello che mi siede accanto, di quello lontano che non vedrò mai.        Ma la benedizione non è soltanto una parola. E una forza, una potenza che entra in colui che la riceve e che opera salvezza. In tutta la Bibbia la benedizione data è duratura, non può più essere revocata, né resa inefficace. È incondizionata, irrevocabile. Fa crescere la vita in tutte le sue forme. E un dono che porta con sé tutto ciò che di più bello possiamo mettere dentro la parola “pace”, dentro la parola “vita”. Purché la riceviamo: perché il dono è tale solo se lo accolgo.        Nel Vangelo di Luca profetizzano per prime le madri. La prima profezia viene da Elisabetta che, incontrando Maria, esclama: «Benedetta tu fra le donne!». La prima profezia è benedizione. E nell’ultima parola di Gesù rivive la stessa benedizione: Benedetto sei tu egli dice a ciascuno —, benedetto tu fra le mie creature, che sono tutte benedette.        È da questa benedizione, che apre e chiude il Vangelo, che scaturisce quella riserva di gioia, per cui chi è benedetto inizia a lodare, e nasce il canto del Magnificat, e gli apostoli fanno ritorno a Gerusalemme «con grande gioia».        Una benedizione ha lasciato il Signore, non un giudizio; tanto meno una condanna. Non ha detto parole di lamento o parole di ingiunzione, ma una parola buona, una parola bella, una parola di stima, quasi di gratitudine. Perché si benedice chi ci ha fatto del bene; e io quale bene posso aver fatto a Dio? Cosa, per cui lui mi sia grato? Nulla, se non la mia povertà. Eppure Dio mi benedice. Non ne sono degno, ma mi prendo lo stesso questa parola di fiducia, mi tengo stretto questo atto di enorme speranza in me, in noi che stiamo ancora e solo imparando, come gli Undici, che non hanno capito quasi niente, che ancora alla fine gli domandano: «Ma è questo il momento in cui farai grande il regno di Israele?».        Nelle parole ultime di Gesù c’è tuttavia anche il nostro compito: «Di questo voi sarete testimoni: il Cristo doveva patire e risuscitare, e nel suo nome annunciate a tutti la conversione e il perdono». Tre cose essenziali: io devo testimoniare Cristo; che la legge della croce è dare la vita per coloro che si amano; che la legge della croce è il modo più alto, più vero, più bello di interpretare la vita. E cercherò di testimoniare che tento di convertirmi a questo, e che il mondo, se si converte alla legge della croce, è salvo. E poi testimonierò il perdono, sempre offerto come possibilità di ripartire, a portata di mano, per tutti, sempre. «Di questo voi siete testimoni», martiri, come dice Gesù.        Nella sua ascensione, Gesù non è salito verso l’alto, è andato oltre, verso le cose a venire. È andato non al di là delle nubi, ma al di là delle forme. La sua benedizione opera in noi. La forza di bene di Cristo opera in noi, irrevocabilmente, immeritatamente, incondizionatamente.        Un uomo siede alla destra del Padre, Gesù Cristo vero uomo è entrato nella Trinità. L’uomo, l’umanità sono benedetti. Ma Cristo siede anche alla destra di ciascuno di noi, è nel profondo del creato, nel rigore della pietra, nella musica delle costellazioni, nella luce dell’alba, nell’abbraccio degli amanti, in ogni rinuncia per un più grande amore (G. Vannucci). L’ha detto Paolo in una delle sue frasi più belle: egli «è colui che si realizza interamente in tutte le cose» (Ef 1,23). La sua ascensione è l’essere andato in tutte le cose per realizzare dal di dentro il progetto di creazione che il Padre gli ha affidato.        Allora il Signore è andato verso l’intimo di tutte le cose, è andato avanti, ci precede verso quella parte di cielo che compone la terra e che lavora da dentro, perché la terra, come è detto nella prima benedizione, «porti frutto e cresca e si riempia di umanità vera». Se la legge della croce sarà vissuta e testimoniata, la terra potrà ancora riempirsi di uomini veri.
Preghiera di Roberto Laurita
 
Nel rappresentarci la tua ascensione, Gesù, noi rischiamo di cadere in un colossale equivoco. Essa appare come un distacco dalla terra, per entrare nella zona del cielo.   Ma allora non si capisce l’atteggiamento degli apostoli. Perché non sono tristi? Perché non si mettono a piangere?   La loro reazione è incomprensibile: «tornarono a Gerusalemme con grande gioia». Ora che la tua missione è giunta a compimento tu sei più che mai vicino a loro e li accompagni nei rischi e nelle fatiche della missione.   Certo, adesso tu vivi al modo di Dio e noi non possiamo più vederti, toccarti, poggiare il nostro capo sul tuo petto.   Ma tu continui a rimanerci accanto, continui a parlarci attraverso le Scritture e a donarci una Parola viva. Continui a trasformarci con i santi sacramenti, grazie all’azione del tuo Spirito. E questo in ogni luogo e in ogni tempo.
Colletta
 
Dio onnipotente, concedi che i nostri cuori dimorino nei cieli, dove noi crediamo che oggi è asceso il tuo Unigenito, nostro redentore.
Egli è Dio, e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
Amen.