Dal libro del profeta Isaìa |
Is 40,1–5.9–11 |
1«Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio. 2Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati». 3Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. 4Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata. 5Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno, perché la bocca del Signore ha parlato». 9Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda: «Ecco il vostro Dio! 10Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede. 11Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri». |
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R Introduzione. Il brano, che la liturgia di questa domenica propone, apre la seconda parte del libro del profeta Isaia (il Deutero–Isaia). È il libro della consolazione, così chiamato dalle prime parole che si incontrano. Dopo le dure prove, a cui è stato sottoposto il popolo (in particolare l’esilio), viene operato un riscatto da parte del Signore che si manifesta nella sua unicità. Gli idoli non possono reggere il confronto e si rende palese la loro inconsistenza. Infine il ritorno dall’esilio ha dei forti collegamenti con il tema dell’esodo. R Commento. I primi versetti (40,1–2) sono l’introduzione del poema. I due imperativi al plurale con cui si apre la composizione («Consolate, consolate», il greco ha parakaleîte) non hanno un soggetto esplicito. Nel tentativo di colmare la lacuna, la traduzione greca aggiunge «sacerdoti» (hiereîs) e il Targum «profeti». Probabilmente però non si tratta di nessuna di queste due categorie che, in ogni caso, non compaiono nel testo ebraico. Si potrebbe pensare a un soggetto generico oppure ai componenti di un concilio divino sulla scorta di Is 6,1–3 (i serafini). Infine potrebbero essere le forze cosmiche che sotto il comando del “Signore delle schiere” (ṣebha’ôt) fungono da suoi portavoce (cf. Is 40,26; Sal 19; 93,3–4; 104,2–6; 147,4–5.15–20). Il Signore invita a parlare al cuore di Gerusalemme. È un’espressione idiomatica che non dev’essere sovraccaricata di significati spirituali, ma che può essere tradotta con “convincete radicalmente”. Il popolo deve essere rassicurato del fatto che è finalmente finita! Anche linguisticamente sono presenti due perfetti performativi che, nella loro forma, ribadiscono l’avvenuto perdono. L’espressione “doppio castigo” non dev’essere intesa in senso tecnico legale (per evitare di dubitare dell’equità della giustizia divina), ma piuttosto in senso figurativo e iperbolico: è veramente abbastanza! Nella seconda strofa (40,3–5) viene spiegato come la consolazione sarà messa in atto. Entra in scena la voce di una proclamazione profetica. Può essere uno dei serafini dell’assemblea celeste oppure, meno prosaicamente, un’interiezione tipicamente ebraica: «ascolta, qualcuno sta parlando». La via che dev’essere preparata è per il Signore, non per il popolo. Questa venuta dev’essere immaginata sul modello della parusía dei sovrani orientali e il riferimento al deserto è un chiaro richiamo all’esodo. Il risultato della venuta del Signore è la rivelazione della sua gloria. La selezione liturgica salta la terza strofa (40,6–8) in cui viene descritta la fragilità umana in evidente contrasto con la gloria e la potenza divina. Infine viene presentata la quarta e ultima strofa (40,9–11). È interessante notare che tutti gli imperativi e le altre forme verbali presenti nel v. 9 siano al femminile. Questa constatazione autorizza a individuare il soggetto dei verbi presenti nella città di Sion/Gerusalemme. È questa città personificata che parla alle altre città di Giuda annunciando la presenza del Signore e descrivendo quello che sta facendo. Il poema si conclude con due tipologie di immagini fortemente caratterizzate nell’Antico Testamento: quella militare e quella pastorale. Il Signore, eroe vincitore, è raffigurato nel pieno della sua potenza, preceduto dai trofei di guerra. D’altra parte, l’immagine pastorale riunisce i compiti dell’amministrazione della giustizia, la difesa militare e la cura del popolo. |
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Dalla lettera di san Paolo apostolo a Tito |
Tt 2,11–14; 3,4–7 |
Figlio mio, 11è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini 12e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, 13nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo. 14Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone. 34Ma quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, 5egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia, con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo, 6che Dio ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, 7affinché, giustificati per la sua grazia, diventassimo, nella speranza, eredi della vita eterna. |
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R Introduzione. Il brano della Lettera a Tito, proposto per la liturgia odierna, segue un elenco di istruzioni che riguardano soprattutto il contesto familiare e la formazione delle giovani donne nell’ambiente cretese che doveva essere piuttosto emancipato. Tito si deve porre come esempio e deve assumere un ruolo di guida autorevole. La parte che viene letta in occasione del Battesimo del Signore propone i fondamenti teologici delle regole di condotta enunciate in precedenza. R Commento. I due blocchi di Tt 2,11–14 e Tt 3,4–7 sono due lunghi periodi. Grammaticalmente è possibile identificare la frase principale e le seguenti subordinate, ma per comprendere correttamente il contenuto, è necessario avere uno sguardo di insieme su una sintassi così insolita, che probabilmente è dovuta all’abitudine di dettare un testo e non di scriverlo direttamente. Il soggetto del primo blocco è la grazia di Dio salvatore che si è manifestata (verbo principale) a tutti gli uomini (2,11). Il verbo “manifestarsi” (epiphaínō) nel Nuovo Testamento è normalmente riservato a Gesù che, pur non essendo citato in questo versetto, può essere identificato senza problemi con Dio salvatore. La grazia, che è per tutti gli uomini, “ci” educa (paideúō, 2,12). Il passaggio alla prima persona plurale fa in modo che, quanto viene detto, si applichi direttamente alla comunità. Dunque il verbo educare, pur essendo un participio e quindi sintatticamente non regge la frase principale, è centrale. L’educazione da parte della grazia, come la vera paideía greca, ha il compito di formare alle virtù (2,12). È possibile vedere un tentativo di inculturazione con l’ambiente ellenistico cretese, nello sforzo di utilizzare un linguaggio già conosciuto e accettato. I comportamenti virtuosi proposti prevedono il rigetto dell’empietà e delle passioni mondane, perseguite dai Cretesi, a favore di una vita improntata alla temperanza, alla giustizia e alla pietà. Tutto questo deve essere messo in pratica nel presente della propria epoca, con la consapevolezza del suo carattere transitorio. Dunque chi è temperante, retto e pio rimodella i rapporti con se stesso, il prossimo e Dio, propri dell’etica ellenistica, che però nei discepoli riflettono la verità e la novità cristiana. Al v. 13 ritorna il tema della manifestazione in un ulteriore tentativo di inculturazione. Questa volta vengono utilizzati dei termini mutuati dal vocabolario imperiale. Si parla di manifestazione della gloria, della grandezza, della divinità, della salvezza e della speranza che però non vengono riferite all’imperatore ma a Gesù Cristo. Inoltre in Tt 2,14 è chiaro il nesso con la croce. Questo sacrificio permette alla comunità di elevarsi da una condotta scorretta e disordinata verso una situazione ideale di purezza e di bontà. Andando avanti si riprende il tono di insegnamento nella proposta di alcuni comportamenti buoni e nella deprecazione di quelli da evitare (3,1–3). Nella parte che viene letta nella liturgia (3,4–7), vengono portate le motivazioni teologiche che sottendono alle regole di condotta. Anche in questo caso si tratta di un unico periodo, sintatticamente sospeso, ovvero manca la frase principale. Il primo verbo che si incontra è ancora “manifestarsi” e ha come soggetti la bontà e la filantropia di Dio il quale salva non in base alle opere di giustizia compiute ma per sua grazia (3,4–5a). Seguono poi dei richiami al lavacro di rinnovamento e di rigenerazione nello Spirito Santo che sembrano alludere alla liturgia battesimale (3,5b–6). Infine sono presenti ancora dei rimandi all’eredità che si ottiene, per grazia di Cristo, con la speranza nella vita eterna. |
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X Dal Vangelo secondo Luca |
Lc 3,15–16.21–22 |
In quel tempo, 15poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, 16Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». 21Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì 22e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento». |
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R Introduzione. Questo brano di vangelo è già stato proposto parzialmente durante la 3a domenica di Avvento, quando si introduce la figura di Giovanni Battista come precursore di Cristo. Nella liturgia della festa del Battesimo del Signore viene descritto il popolo in atteggiamento interrogativo in merito all’identità del Battista e la risposta di quest’ultimo. In seguito si racconta del battesimo di Gesù e non viene letto il passaggio sull’arresto di Giovanni Battista. Logicamente questo fatto dovrebbe seguire il battesimo di Gesù ma l’anticipazione letteraria che ne viene fatta asseconda probabilmente criteri teologici di opportunità. R Domande del popolo e risposta di Giovanni. La provocazione in seguito alla predicazione escatologica di Giovanni determina due tipi di domande: prima di tutto le folle lo interrogano su come prepararsi all’ira imminente e, secondariamente, formulano delle domande sulla sua possibile identità messianica (Lc 3,15). Bisogna dire che non c’è negli astanti una chiara definizione di Messia e quindi Giovanni può argomentare più liberamente: cerca di delineare la missione del Messia e quale tipo di rapporto intercorra con lui (3,16). Mentre il battesimo di Giovanni ha i caratteri del pentimento e della purificazione, quello del Messia combina lo Spirito Santo e il fuoco, rimandando direttamente alla Pentecoste. Potrebbe essere legittima anche un’ulteriore lettura che vede i due battesimi (Spirito Santo e fuoco) per così dire sdoppiati. Quello dello Spirito Santo in riferimento alla Pentecoste e quello del fuoco in senso stilizzato. Gesù è venuto a portare il fuoco sulla terra (12,49) e questo elemento è spesso utilizzato come metafora e strumento di giudizio (3,9.17; 9,54; 17,29). R Battesimo di Gesù. Il racconto vero e proprio del battesimo è circoscritto (3,21) e la figura di Giovanni non è primariamente incentrata sul ruolo di battezzatore quanto su quello di profeta di conversione. La stessa sequenza degli eventi colloca l’arresto di Giovanni (3,20) prima del battesimo di Gesù. Era ragionevolmente imbarazzante presentare l’inizio del ministero pubblico di Gesù equiparandolo ai peccatori e in ruolo subordinato rispetto al Battista. Ciononostante la predicazione e il ministero del Messia sono in evidente continuità con l’opera del precursore. All’interno del racconto se non è centrale il momento del battesimo lo è quello immediatamente successivo, in cui è presente lo Spirito Santo e la voce del Padre. L’intreccio delle scene sembra essere sospeso: tutti hanno ricevuto il battesimo e Gesù ora è in preghiera. A questo punto, nell’atmosfera elettrizzata dall’aspettativa, avviene un colpo di scena: il cielo si apre (3,21)! L’evento storico si sovrappone a reminiscenze apocalittiche (cf. Is 63,19b). Lo Spirito Santo in forma corporea scende su di lui (Lc 3,22). La citazione della colomba può essere interpretata come una descrizione vera e propria della forma corporea o come la modalità della discesa. Grande importanza riveste la voce che si ode e il contenuto espresso. Nella teofania sul monte Sinai (Es 19,18–19) il dialogo avviene tra Mosè e il Signore che gli risponde con voce di tuono in modo sempre più intenso. Il popolo ode un suono, simile a quello dello shofar (il corno che da questo punto dell’esodo assume chiari significati sacrali) e che diventa sempre più insopportabile (cf. Eb 12,19). Il legame tra voce e tuono implica notevoli aperture comparative mitologiche con le letterature del Vicino Oriente Antico che qui non vengono presentate. È opportuno, invece, analizzare il contenuto. Certamente viene citato Sal 2,7 che, a sua volta, richiama l’ideologia regale con il suo rituale di intronizzazione. Viene dunque indicata una prospettiva escatologica messianica in senso regale che si applica, evidentemente, a Gesù. Il suo rapporto con Dio è privilegiato ed esclusivo. È lui il Messia che, essendo «figlio amato» (yiós o agapētós), è in una relazione fortissima con il Padre al punto di identificarsi con lui. C’è anche un’allusione al primo canto del Servo del Signore nel cosiddetto Deutero–Isaia (cf. Is 42,1) anche se non sono da esasperare i collegamenti tra battesimo e Passione. Nel battesimo, dunque, si inaugura l’attività messianica di Gesù con una presentazione chiara e autorevole. |
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L’invito di Dio all’uomo nuovo |
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Natale, Epifania, Battesimo del Signore sono feste che liturgicamente sviluppano da angolature diverse e convergenti un medesimo tema: la manifestazione di Gesù, ossia la sua identità e il suo significato per noi. L’evangelista annota che il battesimo di Gesù (cf. Lc 3,15–16.21–22) non fu un gesto isolato, ma un gesto di partecipazione a un movimento popolare («mentre tutto il popolo veniva battezzato», v. 21). Sottoponendosi al battesimo di Giovanni, segno penitenziale per la remissione dei peccati, Gesù compie un gesto di profonda solidarietà con il popolo peccatore. Con questa sua scelta, egli manifesta d’intendere fin dall’inizio la sua vita come una strada di solidarietà nei confronti degli uomini peccatori. Il Messia non si estranea dalla storia del suo popolo, ma – al contrario – la condivide e la assume. Non dice: «Il peccato è vostro e non mi riguarda», bensì: «Lo prendo sulle mie spalle e porto con voi le sue conseguenze». In questo evento è già racchiuso il germe della croce, cioè la logica del vivere e del morire per gli altri, a cui Gesù rimarrà fedele sino alla fine. Intuiamo che l’immersione nel Giordano non è soltanto il primo atto pubblico compiuto da Cristo, ma il gesto iniziale e rivelatore che già prelude a tutta la storia successiva. Veramente si può dire che tutta la vicenda di Gesù è già racchiusa nel suo battesimo. Accostando più direttamente il passo evangelico, si comprende che l’evangelista non pone in primo piano il fatto del battesimo. Lo colloca – anzi – sullo sfondo, nel tempo passato, ridotto letterariamente a una semplice annotazione: «Ricevuto anche lui il battesimo» (v. 21). In primo piano ci sono, invece, la preghiera («stava in preghiera», v. 21) e la venuta dello Spirito («discese sopra di lui lo Spirito Santo», v. 22). Il motivo dello Spirito evoca in particolare alcuni testi di Isaia, molto importanti per cogliere il senso del battesimo. Riportiamo di seguito i tre testi profetici che ci aiutano a comprendere la pagina evangelica: «Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e d’intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore. Si compiacerà del timore del Signore. Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire; ma giudicherà con giustizia i miseri e prenderà decisioni eque per gli umili della terra» (Is 11,24b). «Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni» (Is 42,1). «Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri» (Is 61,1). Tutte e tre queste citazioni del profeta Isaia hanno un elemento in comune: lo Spirito di Dio viene donato in vista di una missione, e si tratta precisamente di una missione di giustizia in favore degli esclusi. È la missione di cui Gesù si è sentito investito e che annunciò, citando appunto il passo di Is 61,1, nella sinagoga di Nazaret (cf. Lc 4,1619). È questo il miracolo che lo Spirito intende compiere: rifare la storia degli uomini, liberandola da tutti quegli egoismi che la frantumano. L’evangelista lega il dono dello Spirito alla preghiera («stava in preghiera»). È un legame che egli sottolinea anche altrove. Vale per Gesù e vale anche per la comunità: a Pentecoste lo Spirito scende sull’assemblea radunata in preghiera («Tutti questi erano perseveranti e concordi nella preghiera»: At 1,14). E continua a valere per ogni cristiano: così infatti Luca conclude una breve catechesi sulla preghiera: «Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!» (11,13). Pure le parole della voce celeste richiamano passi dell’Antico Testamento. Il Sal 2 («Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato», v. 7) parla del Messia inviato al mondo per riportare i popoli all’obbedienza. Le parole: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (Lc 3,22) rimandano al libro del profeta Isaia (cf. 42,1). Forse c’è anche un riferimento alle parole che Dio rivolge ad Abramo riguardo al figlio Isacco (cf. Gen 22, 2.12.16). Alla luce di questi riferimenti si comprende che Gesù è il Figlio amato, sottoposto alla prova e incaricato di una missione che lo porterà a percorrere la strada del martirio. È l’identità di Gesù: un Figlio amato e crocifisso, un’esistenza donata al Padre e agli uomini. Il racconto del battesimo al Giordano, tuttavia, non narra soltanto della scelta di Gesù, ma aiuta a comprendere anche il cammino del discepolo. Nel battesimo di Cristo scorgiamo le strutture del battesimo cristiano, che è insieme dono e progetto. Un dono: la filiazione divina e la venuta dello Spirito. Un progetto: una missione profetica da compiere, un’esistenza e un mondo da rinnovare. Come quella di Cristo, anche la vita cristiana dovrebbe essere una continua fedeltà al battesimo, una fedeltà a quel gesto divino che ci ha rinnovati strappandoci dal peccato (la direzione della storia mondana) per inserirci nella morte e risurrezione di Cristo (la direzione della storia di Dio). Il Nuovo Testamento esprime questa fedeltà al battesimo con diverse formule, come, ad esempio, la seguente: morire al peccato e conformarsi a Cristo. In altre parole: liberarsi da un’esistenza concentrata su di sé e accettare un’esistenza aperta a Dio. Oppure: abbandonare l’uomo vecchio e rivestirsi dell’uomo nuovo, dove vecchio e nuovo non vanno intesi in senso cronologico: nuovo è ciò che è di Dio (o dell’amore), vecchio è ciò che è del peccato (o dell’egoismo). |