Dal libro del profeta Isaìa |
Is 62,1–5 |
1Per amore di Sion non tacerò, per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo, finché non sorga come aurora la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada. 2Allora le genti vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria; sarai chiamata con un nome nuovo, che la bocca del Signore indicherà. 3Sarai una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio. 4Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo. 5Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposeranno i tuoi figli; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te. |
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L’oracolo del profeta Isaia incoraggia il popolo d’Israele tornato nella Terra promessa dall’esilio a Babilonia (538/537) mediante la dichiarazione di un intervento straordinario di Dio: finalmente Gerusalemme, metonimia del popolo eletto, riceverà gloria e benessere non in virtù dei propri sforzi ma per effetto della bontà salvifica del Signore: sarà Lui ad ammantare il suo popolo con il suo amore. Il soggetto, voce dell’oracolo, è il profeta–Servo di Is 61,1–9. Egli proclama il messaggio divino con pieno coinvolgimento emotivo: non può rimanere tranquillo e silenzioso (v. 1) ma avverte la necessità interiore di annunciare al popolo la sua condizione di precarietà e, nel contempo, la certezza del compimento delle promesse salvifiche divine (v. 1). Egli incarna la funzione profetica di ogni battezzato, chiamato ad essere testimone di speranza in ogni contesto storico ed esistenziale. Descrivendo l’azione rigeneratrice di Dio con l’immagine sponsale (cf. Is 50,1; 54,6–7), l’oracolo si profila come un canto d’amore dello sposo divino. Dal cuore dello sposo innamorato sgorga il desiderio irrefrenabile di donare beni incommensurabili e felicità piena alla sua sposa. I doni che il Signore–sposo reca al suo popolo–sposa sono espressi con la metafora della luce: giustizia e gloria splenderanno e costituiranno una testimonianza per tutti i popoli della terra (v. 2). Il messaggio per la sposa–chiesa è chiaro: la sua funzione di missionaria della bontà di Dio scaturisce dalla ricezione dell’amore di Dio. È infatti Dio stesso che, nel v. 2, conferisce al popolo amato un «nome nuovo», ossia una nuova identità creata dalla cerimonia nuziale: la sposa diventa la «corona» e il «diadema», segni della potenza e della sovranità divina. Protagonista assoluto di questa trasformazione è il «Signore», connotato come «tuo Dio», espressione che richiama la formula dell’Alleanza (v. 3). I nuovi nomi della sposa sigillano l’avvenuto cambiamento: per mezzo del parallelismo, l’«Abbandonata» (cioè «nubile») diventa «mia Gioia» e la «Devastata» (allusione alla condizione incolta della terra durante l’esilio) diventa «Sposata» (v. 4). Nel conclusivo v. 5 viene esplicitato il nuovo rapporto d’amore tra Dio e il suo popolo per mezzo della doppia similitudine: la prima riguarda il patto sponsale in sé, la seconda invece la gioia dello sposo per la nuova situazione matrimoniale. Il testo biblico sottolinea che il soggetto della gioia è Dio: fino alla fine rimane lui il protagonista delle nozze col suo popolo e la relazione nuziale si manifesta come nuova creazione di cui Dio si compiace (cf. Gen 1,1–24a). La chiesa quindi riempita di gioia dall’incontro col Cristo Risorto è chiamata a diffondere universalmente la buona notizia della salvezza offerta da Dio. |
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Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi |
1Cor 12,4–11 |
Fratelli, 4vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; 5vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; 6vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. 7A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: 8a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; 9a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; 10a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue. 11Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole. |
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Paolo esorta la comunità di Corinto ad essere unita nella consapevolezza che l’unità richiesta da Dio si realizza nel dispiegamento della molteplicità dei carismi. L’Apostolo propone ai lettori un’immagine della condizione comune alla chiesa di Corinto e alle altre comunità cristiane, offrendo una specie di elenco dei doni che Dio ha elargito ai credenti e fornendone una spiegazione teologica. I vv. 4–6 puntualizzano che il Dio trinitario è la fonte di tutti i «carismi», i «ministeri» e le «attività» ecclesiali. I tre termini sembrano sinonimi; in realtà il secondo e il terzo termine sono una specificazione e concretizzazione del primo lemma «carisma», prettamente paolino, che indica il dono della grazia divina di cui ogni credente è beneficiario. Tale dono permea l’interiorità del credente ma non resta a livello intimistico; infatti il «carisma» deve avere necessariamente una manifestazione esteriore, come esplicitano i lemmi «ministeri» e «attività». Inoltre con la ridondanza dei tre termini Paolo afferma l’origine trinitaria dei carismi e specifica che il battezzato vive e agisce sotto l’influenza dello Spirito Santo, di Cristo e del Padre, fonte primaria di ogni bene, «il quale opera tutto in tutti» (v. 6). Ogni dono elargito ai singoli credenti proviene da Dio tramite lo Spirito Santo ma lo scopo è unico per ciascuno di essi: il bene comune della chiesa (v. 7). Questo principio fondamentale recide ogni tentazione di individualismo, prestigio personale e presunzione di monopolio dello Spirito. Nei vv. 8–10 Paolo nomina una serie di carismi originati dallo Spirito e tutti finalizzati al servizio dell’unica comunità. La lista intende essere esemplare non esaustiva: il «linguaggio di sapienza» (1 Cor 2,4.13) che anima la prassi cristiana, il «linguaggio di conoscenza», capace di comprendere la storia alla luce della fede, la «fede» che permette di percepire la presenza di Dio in ogni necessità e occasione dell’esistenza, il «dono di fare guarigioni», «di operare miracoli», la «profezia», ossia la capacità d’interpretare gli eventi, il «discernimento degli spiriti», complementare alla profezia è la capacità di discernere il vero dal falso (Gal 1,6; 2 Cor 11,4), la «varietà delle lingue» cioè la preghiera estatica e la loro «interpretazione» (vv. 8–10). Nel v. 11 Paolo ricapitola il tema centrale del v. 7: ciascuno di questi doni proviene dall’unico e medesimo Spirito, segno della libertà di Dio e della diversità degli esseri umani. Lo Spirito è sovrano nel distribuire i doni ma nessuno ha la totalità dei doni. Tali carismi devono coesistere e integrarsi in ogni ambito della vita ecclesiale, dalla liturgia alla prassi caritatevole. È significativo il fatto che Paolo non si rivolga ai presbiteri, in qualità di guide, ma solleciti tutti i battezzati a operare per l’edificazione della comunità; l’accento infatti non cade sulla molteplicità dei carismi ma sulla comune origine divina e sul conseguente senso di responsabilità dei singoli, affinché la loro prassi confluisca in una sinfonia armonica a servizio degli altri membri del corpo ecclesiale. |
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X Dal Vangelo secondo Giovanni |
Gv 2,111 |
In quel tempo, 1vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. 2Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. 3Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». 4E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». 5Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». 6Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. 7E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. 8Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. 9Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo 10e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». 11Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui. |
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Il testo delle «nozze di Cana» è la chiave che apre la porta d’ingresso all’ermeneutica dell’intero Quarto vangelo perché comunica al lettore che tutta la vicenda storica di Gesù trova la sua epitome nell’evento della sua morte e risurrezione, nucleo della fede cristiana. L’evento pasquale infatti è il sigillo della nuova Alleanza, manifestazione dell’amore di Dio e della sua gloria, nonché scaturigine della fede dei discepoli (v. 11). Già nell’Antico Testamento la simbolica matrimoniale qualificava la relazione tra Dio e Israele (Os2; Ger 2,2; Ez 16,1–43; Is 54,4–8; 62,4–5), dove l’adulterio del popolo era assimilato all’idolatria e quindi alla violazione dell’Alleanza. L’evangelista Giovanni utilizza la simbolica matrimoniale per indicare, mediante una serie di elementi narrativi, che la Pasqua di Gesù è il compimento dell’evento di salvezza, annunciato dai profeti e prefigurato dall’Alleanza del Sinai. Q La cronologia del racconto. A questo fine è orientata una serie di dispositivi narrativi, il primo dei quali è la cronologia della settimana con la quale il narratore incornicia l’intero racconto evangelico: lo sposalizio in Cana di Galilea (Gv 2,1–11) avviene al termine della settimana iniziale dell’attività di Gesù dove si forma il primo gruppo di discepoli, nucleo embrionale della chiesa; tale settimana ha il suo abbrivio con il battesimo del Battista al Giordano (1,19–28) e la sua conclusione a Cana (2,1) «il terzo giorno» (1°giorno: 1,19,28; 2° giorno: 1,29–34; 3° giorno: 1,35–42; 4° giorno: 1,43–51). Come il settimo giorno della creazione genesiaca dà senso all’intera creazione (Gen 2,2–3), così nell’episodio di Cana l’evangelista prefigura lo sposalizio, mediante la morte e la risurrezione, tra Gesù e la chiesa, evento che ha luogo al termine dell’ultima settimana di vita di Gesù; infatti l’unzione di Betania è collocata «sei giorni prima della Pasqua» (12,1) e Gesù viene crocifisso il giorno della «Preparazione» della festa (19,31). L’espressione «il terzo giorno» impiegata in Gv 2,1 ha ormai assunto per la chiesa apostolica un valore teologico: riprendendo il senso anticotestamentario di tempo dove si verifica un intervento straordinario di Dio (Gen 22,4; Es 19,11.16; Gs 2,15; Os 6,2) la tradizione cristiana ha connotato «il terzo giorno» come il nuovo tempo della risurrezione di Cristo (1 Cor 15,4; Lc 24,7; At 10,40). Quindi in Gv 2,1 «il terzo giorno» è un indicatore teologico che designa nell’evento di Cana l’anticipazione dell’evento salvifico per eccellenza: la morte e risurrezione di Gesù. Infatti subito dopo l’episodio delle nozze di Cana, in Gv 2,19, l’evangelista esplicita che «il terzo giorno» è il giorno della risurrezione: «rispose loro [ai Giudei] Gesù: distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere»; commenta il narratore in 2,21–22: «Ma egli [Gesù] parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù». A rafforzare questa interpretazione contribuiscono anche altri dispositivi narrativi. Innanzitutto l’altro indicatore cronologico: l’«ora» (v. 4), di cui l’evento di Cana è «segno». La parola «ora» in Giovanni, almeno in 14 casi su 22, connota il momento della morte in croce, risurrezione e dono dello Spirito Santo, ossia l’ora del ritorno al Padre (12, 23; 13,1). Questa «ora», che nel vangelo ancora non è giunta, è però già anticipata nel ministero di Gesù (Gv 4,23; 5,25; 16,32). R I segni della nuova alleanza. Maria, la madre del Cristo–Sposo, in virtù dell’epiteto «madre», proferito da Gesù, assume un ruolo paradigmatico: prefigura la chiesa, che per la fede è chiamata a collaborare con l’azione salvifica del Figlio di Dio: la comunità cristiana consente allo Sposo di espletare la sua missione messianica universale. Gesù infatti rinvia la «donna» alla croce, laddove lei riceve il compito della maternità universale dei credenti (Gv 19,25–27). La frase di Gesù in Gv 2,4 esprime distinzione e nuova relazione tra i due protagonisti: Gesù è il protagonista dei segni salvifici in quanto unico conoscitore della volontà del Padre; Gesù, da figlio d’Israele, diventa Sposo della chiesa mediante la sua morte e risurrezione. Maria, figura della comunità credente deve saper discernere la presenza di Dio nella storia. Ecco perché la «donna» può dire ai servi di ascoltare la parola del Cristo–Sposo e obbedire: «qualsiasi cosa vi dica, fatela!» (v. 5). Si tratta di una formula che nell’Antico Testamento ricorre dapprima in Gen 41,55 per denotare l’obbedienza degli egiziani al patriarca Giuseppe e successivamente diventa la risposta di consenso del popolo d’Israele all’alleanza del Sinai (cf. Es 19,8; 24,3.7). Le nozze di Cana quindi anticipano il patto della nuova ed eterna alleanza stipulata sulla croce, come si evince da Gv 19,25–27; l’alleanza è sigillata con la risurrezione per mezzo dell’effusione dello Spirito Santo (19,30; 20,22). A Cana, la mancanza di vino, simbolo dell’amore sponsale (cf. Ct 1,2; 1,4; 4,10; 7,10), è il segno che l’antica alleanza del Sinai, simboleggiata dalle «sei anfore di pietra» vuote (v. 6), è ormai giunta al capolinea: i comandamenti delle tavole della legge mosaica scritte su pietra (Es 31,18; 32,15; 34,1.4; Dt 4,13; 5,22; 9,9.10.11; 10,1.3; 1 Re 8,9) hanno adempiuto al loro ruolo di preparazione al dono della grazia salvifica giunto con Cristo (cf. Gv 1,17: «perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo»). Il riferimento del testo alla funzione delle anfore (2,6: «per la purificazione rituale dei giudei») allude al fatto che la «purificazione» necessaria per il culto e la santificazione del popolo di Dio non proviene più dalla legge di Mosè bensì dalla Parola di Gesù (Gv 15,3: «voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato»): chi accoglie la parola di Gesù «rimane» in Lui (Gv 15,7), si purifica, evita il peccato e pratica la giustizia amando i fratelli (1 Gv 3,3–10). R Una lettura pasquale. Ecco allora che la trasformazione dell’acqua in vino a Cana, appena accennata da un semplice participio (v. 9: «il direttore del banchetto come ebbe assaggiato l’acqua divenuta vino…») del verbo ghínomai, lo stesso impiegato in Gv 1,17 per indicare la nuova grazia portata da Cristo, allude alla nuova creazione realizzata da Dio mediante la morte e risurrezione del Figlio. L’evento pasquale quindi assume un valore salvifico escatologico; per Giovanni le nozze di Cana racchiudono il senso della missione, dell’incarnazione e della risurrezione del Verbo divino: nel v. 10 il nuovo vino tenuto da parte «finora», avverbio che per Giovanni indica la svolta decisiva della storia della salvezza (Gv 5,17; 16,24), sostituisce il vecchio vino «meno buono», ormai esaurito. Il frutto della vite era metafora dell’era escatologico–messianica sia per il profetismo veterotestamentario (Os 14,8; Is 25,6; 62,9; ecc.), sia per la letteratura giudaica (cf. il testo messianico di Gen 49,10–12 riletto dal Targum Pseudo Gionata: «come sono belli gli occhi del Messia! Come il vino puro…i suoi monti saranno rubicondi di viti e i suoi torchi di vino»). Nei vangeli sinottici Gesù stesso durante l’Ultima cena spiega il senso soteriologico della sua morte correlando il vino al regno escatologico di Dio (Mt 26,29; Mc 14,25; Lc 22,18) e alla nuova alleanza (Lc 22,20; 1 Cor 11,25). R Partecipazione universale all’eucaristia. Il testo delle nozze di Cana quindi prelude degnamente a tutto lo sviluppo dell’anno liturgico: Cristo ama a tal punto l’umanità infedele da donare la sua vita per la salvezza degli uomini. La nuova alleanza è realizzata da Gesù con la sua morte in croce, evento dal quale scaturisce il nuovo vino, «quello buono» (v. 10) al quale possono «attingere» i servi fedeli in maniera esorbitante (ogni anfora contiene circa cento litri). Ciò significa che tutte le comunità cristiane, di tutti i tempi, possono «attingere» e «gustare» la grazia dell’amore di Dio per mezzo di Cristo Gesù durante la celebrazione eucaristica. Questo è il messaggio centrale per la comunità giovannea: nella celebrazione eucaristica c’è l’obbedienza alla parola di Gesù il vero Sposo (Gv 3,29–30) e l’unione profonda con lui e con il Padre per mezzo dello Spirito paraclito. Infine nel v. 11 Giovanni definisce il racconto di Cana di Galilea l’archḗ dei «segni», il prototipo iniziale, l’evento archetipico della donazione di sé che continua ad attuarsi nel prosieguo del ministero di Gesù fino al suo culmine raggiunto con la Passione, morte e risurrezione. Tutto il racconto evangelico allora deve essere interpretato con uno sguardo di fede, capace di penetrare nel mistero complessivo del «segno» che è lo stesso Logos incarnato, per giungere a cogliere il messaggio dell’ineffabile amore di Dio per l’umanità. Le nozze di Cana quindi sono figura delle nozze tra Cristo e la chiesa, nata sotto la croce e dotata dei doni dello Spirito Santo, nozze perpetuate sempre e dovunque dalla ripresentazione sacramentale. È qui infatti, a Cana, sulla croce e nell’eucaristia, che Gesù manifesta la sua «gloria», è qui che scaturisce la «fede» in Lui, è qui che i credenti ottengono la «vita eterna» (Gv 20,31). Quindi la nostra partecipazione al convito eucaristico non può che essere caratterizzata dalla gioia nuziale di chi va incontro allo Sposo che viene a salvarci. |
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Gloria e fede |
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Il segno di Cana (cf. Gv 2,1–11), così come l’evangelista Giovanni lo chiama evitando di definirlo miracolo, è una manifestazione messianica, come il battesimo al Giordano. Se nel battesimo è la voce del Padre che svela il significato profondo di quello che accade, a Cana è Gesù stesso che si manifesta. Sorprendentemente nel racconto non compare il termine «messia» per presentare questa manifestazione di Gesù, ricorre invece il sostantivo «gloria» («manifestò la sua gloria», v. 11). È una parola biblica densa di significato che, se presa nel suo senso più comune, può essere fraintesa o compresa non correttamente. Occorre, perciò, interpretarla alla luce del racconto giovanneo. Il lettore del quarto Vangelo incontra il termine «gloria» per la prima volta nel prologo: «Il Verbo si fece carne […] e noi abbiamo contemplato la sua gloria, […] pieno di grazia e di verità» (1,14). La gloria che i credenti sanno vedere è il volto del divino presente nella piena umanità («carne») dell’uomo Gesù. Proseguendo nella lettura del Vangelo, il lettore si imbatte in un’altra serie di affermazioni che riportano il verbo corrispettivo «glorificare»: «Non vi era ancora lo Spirito, perche Gesù non era ancora stato glorificato» (7,39); «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui» (13,31); «Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te» (17,1; cf. 17,5). I versetti citati contengono tutti un riferimento alla croce e alla risurrezione per una chiara e fondamentale ragione: se la «gloria» corrisponde al volto che Dio assume nel suo manifestarsi nel mondo, il volto che egli mostra nel suo farsi visibile in mezzo agli uomini (questo è, appunto, il significato biblico di gloria), essa non può che avere i contorni dell’amore. Lo splendore glorioso di Dio è lo splendore dell’amore. Il crocifisso è dunque «glorioso», nel senso che la croce è il momento nel quale si sono manifestate la profondità dell’amore divino e la sua illimitata capacità di dedizione. Ma la «gloria» risplende pienamente anche nella risurrezione, dove è apparsa la forza vittoriosa di quell’amore e di quella dedizione. Alla manifestazione della «gloria» da parte di Gesù corrisponde nei discepoli la fede. «Credettero in lui» (v. 11): l’espressione denota che la fede è uno slancio, un atteggiamento dinamico, cioè non si crede in una cosa o in una dottrina, ma si ha fiducia in una persona. Il discepolo si fida di Gesù, si abbandona a lui e si lascia da lui condurre. Come l’atteggiamento di Maria: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (v. 5). Se la gloria che Gesù manifesta è sostanzialmente l’amore di Dio, ne deriva che credere in lui significa, concretamente, abbandonarsi alla logica dell’amore, sino alle sue conseguenze più radicali. La messianicità di Gesù, inoltre, include un passaggio dal vecchio al nuovo, c’è qualcosa di vecchio (l’acqua) che deve venir meno per lasciar posto a qualcosa di nuovo (il vino). L’antica legge deve lasciar posto alla nuova. Da questo punto di vista, la fede è conversione, apertura al nuovo, disponibilità. Come la fede di Maria che accetta l’apparente rifiuto e si lascia condurre verso un’attesa superiore. «Non hanno vino» (v. 3): le parole della madre esprimono, discretamente, la speranza del miracolo. La risposta di Gesù («Non è ancora giunta la mia ora», v. 4b) esprime una chiara reticenza, pur acconsentendo, poi, a compiere il segno. La «strana» risposta di Gesù alla madre vuole attirare l’attenzione su qualcosa di ancora più importante: vuole mostrare il passaggio da una fede incipiente a una fede più matura, più aperta e disponibile, in grado di rinunciare a ogni tentativo di suggerire a Dio ciò che egli debba fare (cf. v. 5). Gli uomini cercano il gesto miracoloso per risolvere un loro problema. Gesù compie il segno per rivelare la sua gloria e portare alla fede. Non è, infine, senza importanza che l’intero racconto sia collocato in un contesto nuziale: «Vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea» (v. 1). Le nozze sono già di per sé il compimento della vita di una donna e di un uomo, e come tali sono cantate lungo tutta la Bibbia. E proprio questa loro ricchezza di significato le rende adatte a comunicare il rapporto specialissimo esistente tra Dio e il suo popolo: Israele è la sposa di Dio, come attestano le parole riportate nella prima lettura: «Come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te» (Is 62,5). L’amore tra sposi viene descritto come una delizia, come la gioia dello sposo per la sposa. In particolare tutto questo è riferito a Dio che gode del bene di Gerusalemme e per questo la vuole sposare. L’amore del Signore è gratuito e farà la gioia della città. L’immagine sponsale presente nel passo profetico (cf. Is 62,1–5) viene ripresa e assunta nel racconto evangelico delle nozze di Cana, riferendola a Gesù. Il quarto Vangelo è esplicito nell’identificare nel Cristo lo sposo messianico dell’umanità, quando il Battista, rispondendo alle lamentele di alcuni suoi discepoli, preoccupati per la popolarità raggiunta da Gesù, afferma: «Nessuno può prendersi qualcosa se non gli è stata data dal cielo. Voi stessi mi siete testimoni che io ho detto: “Non sono io il Cristo”, ma: “Sono stato mandato avanti a lui”. Lo sposo è colui al quale appartiene la sposa; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è piena» (Gv 3,27–29). Non è casuale, dunque, che il Vangelo di Giovanni, faccia iniziare il ministero pubblico di Gesù in occasione di una festa nuziale: oggi il nuovo Israele, popolo di Dio e sua sposa, è rappresentato infatti proprio dalla comunità cristiana. |