Preghiera allo Spirito Santo di san Paolo VI   Vieni, o Spirito Santo e donami un cuore puro, pronto ad amare Cristo Signore con la pienezza, la profondità e la gioia che Tu solo sai infondere.   Donami un cuore puro, come quello di un fanciullo che non conosce il male se non per combatterlo e fuggirlo.   Vieni, o Spirito Santo e donami un cuore grande, aperto alla tua Parola ispiratrice e chiuso ad ogni meschina ambizione.       Donami un cuore grande, forte e capace di amare tutti, deciso a sostenere per loro ogni prova, noia e stanchezza, ogni delusione e offesa.   Donami un cuore grande, forte e costante fino al sacrificio, felice solo di palpitare con il cuore di Cristo e di compiere umilmente, fedelmente e coraggiosamente la volontà di Dio.   Amen.  
Quand`è che si riceve lo Spirito Santo ?  
Dal primo libro dei Re
1Re 17,10-16
In quei giorni, 10il profeta Elia si alzò e andò a Sarèpta. Arrivato alla porta della città, ecco una vedova che raccoglieva legna. La chiamò e le disse: «Prendimi un po’ d’acqua in un vaso, perché io possa bere». 11Mentre quella andava a prenderla, le gridò: «Per favore, prendimi anche un pezzo di pane». 12Quella rispose: «Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo». 13Elia le disse: «Non temere; va’ a fare come hai detto. Prima però prepara una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, 14poiché così dice il Signore, Dio d’Israele: “La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà fino al giorno in cui il Signore manderà la pioggia sulla faccia della terra”». 15Quella andò e fece come aveva detto Elia; poi mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni. 16La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia.
Bartholomeus Breenbergh: Elia e la vedova di Zarephath
Nel racconto di 1 Re 17,10–16 Elia si trova di fronte a una difficoltà. La siccità che ha danneggiato il popolo (17,1), ha colpito anche il torrente a cui si era abbeverato fino a quel momento (17,27). Inviato da Dio (17,89), giunge a Sarepta, un piccolo centro a pochi chilometri da Sidone, in territorio fenicio, nella patria della regina Gezabele, moglie di Acab, che sarà sua acerrima nemica. Là incontra una vedova, quindi una persona povera per definizione; le vedove, infatti, facevano parte di una categoria particolarmente esposta al pericolo e per questo erano tutelate in modo particolare (Dt 10,18; 14,29; Ger 22,3). Elia le chiede da bere e all’inizio sembra che non ci sia alcun problema, perché la donna è intenzionata ad accontentarlo. Quando invece le domanda un pezzo di pane, si viene a sapere che la siccità ha colpito anche il suo villaggio: alla donna non è rimasto che un pugno di farina e dell’olio; intende preparare l’ultimo pasto per sé e per suo figlio, prima di abbandonarsi con estrema dignità a morte certa. Nonostante la situazione, il profeta le chiede di nuovo di mangiare e bere, ma lo fa in modo più articolato. Innanzitutto la invita a «Non temere», generando un’eco significativa con molti passi biblici in cui un incoraggiamento simile ha lo scopo di sostenere la fede nell’intervento straordinario di Dio (Gen 15,21; 21,17; 46,3; Dt 31,8). A questo punto, le fa una richiesta ancora più sorprendente: «Prima prepara una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio» (v. 13); se si considera quanto detto dalla donna rispetto alle poche risorse possedute, Elia le chiede di avere una fiducia estrema. Il suo discorso si conclude, quindi, con la citazione di ciò che Dio dice: «La farina della giara non si esaurirà…» (v. 14). Elia, quindi, chiede un affidamento assoluto, ma non giustifica la sua richiesta con degli argomenti elaborati personalmente; egli invece fonda tale pretesa sulla parola di Dio che trasmette come fedele messaggero. La vedova obbedisce e con il suo gesto dimostra un’apertura alla parola del profeta capace anche di mettere in questione l’amore che prova per il figlio; Dio risponde donandole la vita in abbondanza nutrendo lei e tutta la sua famiglia per molti giorni. La lettura ricorda quindi ai cristiani che quando Dio chiede fiducia totale non è altro che per donare la vita in pienezza.
 
Dalla lettera agli Ebrei
Eb 9,24-28
24Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. 25E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: 26in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte. 27Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, 28così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.
Che cosa vuol dire Agnello di Dio?  
Il brano tratto dalla Lettera agli Ebrei comincia ricapitolando quanto detto in precedenza nella lettera: con la risurrezione, Gesù Cristo, sommo sacerdote eterno, non è entrato in un santuario “terreno” (fatto da mani d’uomo), come faceva ogni anno il sommo sacerdote. Egli ha fatto il suo ingresso nel cielo stesso, santuario autentico, e si è presentato di fronte a Dio (v. 24; cf. 9,11). Gesù Cristo risorto è vivo e per questo può intercedere “ora” in favore degli uomini (7,25), mentre si trova presso il Padre. Il Figlio, infatti, è autore di un sacrificio superiore a quello del culto antico, perché non deve offrirlo più volte; egli ha offerto se stesso una volta per tutte, in maniera tale che con il proprio sangue (e non con quello animale) possa essere cancellato (in greco si usa la parola athétēsis, «rimozione, annullamento») il peccato (vv. 25–26; cf. 9,12–14). In questa parte si esalta soprattutto il valore della sofferenza patita (v. 26; 2,9) e si insiste sull’attualità della salvezza: «Invece, ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi…» (v. 26). La duplice ripetizione dell’avverbio «ora» (v. 25 e v. 26) assume un significato particolare nel contesto della celebrazione eucaristica: è proprio nella liturgia infatti che la parola di Dio diviene attuale e realizza quanto annuncia, annullando il peccato e rendendo efficace il sacrificio di Cristo. La lettura si conclude quindi con un riferimento al giudizio e alla fine dei tempi. Il giudizio divino sarà caratterizzato da un esame particolare in cui ogni singola persona sarà giudicata individualmente in base alle azioni compiute (v. 27); alla fine dei tempi, invece, il giudizio avrà una dimensione universale e globale (v. 28) e sarà un momento atteso in cui si compiranno le promesse divine. Mentre si annuncia il giudizio, tuttavia, si ricorda, in un inciso, la salvezza realizzata da Gesù Cristo («così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti», v. 28). L’uso del verbo anaférō, «portare», è significativo, perché con esso si può indicare sia l’atto con cui Gesù Cristo ha portato via, ha tolto i peccati, sia l’atto con cui il Signore ne ha portato il peso, caricandoli su di sé (cf. 1 Pt 2,24). È proprio in virtù della redenzione compiuta da Gesù Cristo che si può attendere con speranza il momento in cui il Signore renderà giustizia ad ognuno, in virtù del suo amore e della sua misericordia.
               
X Dal Vangelo secondo Marco
Mc 12,38-44
In quel tempo, 38Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, 39avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. 40Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa». 41Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. 42Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. 43Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. 44Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».
   
Il passo evangelico scelto per la celebrazione della 32a domenica è collocato in una posizione molto significativa. Si tratta infatti di un brano che conclude il capitolo 12 del Vangelo di Marco e precede così il capitolo dedicato al “discorso escatologico” (Mc 13) prima del racconto della Passione. Il contrasto tra gli scribi e la vedova, quindi, è sia il culmine di un movimento cominciato in precedenza, sia una chiave interpretativa per i racconti successivi.   R Gli scribi. La figura degli scribi è piuttosto grottesca, essi vengono accusati a causa della loro vanità e dell’ipocrisia. Gesù si rivolge alla folla e invita i presenti a tenersi a distanza da questi personaggi e poi spiega i suoi motivi. Anzitutto rivela ciò che essi «vogliono» (quanto viene tradotto «amano», in realtà deriva dal verbo «volere»), quali sono i loro desideri. Essi curano in maniera particolare il loro abbigliamento, camminano in «lunghe vesti» sfoggiando in pubblico una grande ricercatezza nel vestire. Gli scribi, inoltre, cercano «i saluti nelle piazze», bramano quindi il riconoscimento e gli elogi. Essi sono un simbolo per tutti coloro che si sentono vivi solo quando vengono ammirati dagli altri (si pensi al valore che hanno oggi la bellezza fisica, il vestito), senza che dietro le apparenze ci sia sostanza, e credono di poter affermare la propria identità con il ruolo che ricoprono nella società. Il loro atteggiamento si prolunga nella sinagoga, quindi occupa anche lo spazio sacro e lo contamina con la sua doppiezza; essi, infatti, desiderano anche «i primi seggi nelle sinagoghe» (riferendosi forse alla pratica di riservare dei posti d’onore durante la liturgia; cf. Tosefta Megillah 3,21). Gli scribi, poi, aspirano ai primi posti nei banchetti riservati agli ospiti più illustri e riconosciuti (Lc 14,78). A questo punto, con un brusco cambiamento di tono, Gesù espone esplicitamente la loro perversione: essi pregano molto solo per farsi vedere e non hanno alcun interesse per la ricerca di un’autentica relazione con Dio; al contrario, si impegnano a “divorare” (il verbo è intensivo) le case delle vedove, a spogliare i poveri del poco denaro che possiedono. È difficile ricostruire il tipo di pratica a cui Gesù fa riferimento (forse si trattava di un “furto” coperto da una prassi legittima, come ad esempio la tutela giuridica in cambio di denaro), ma il punto è piuttosto chiaro: dietro le apparenze si cela un’odiosa ambiguità.   Moneta Romana. Quadrante di Traiano. carouselhttps://disegni.qumran2.net/archivio/8117.jpg R Gesù si siede e osserva. Nei passi in cui si racconta l’ultima settimana prima della Passione, Gesù viene spesso immortalato mentre insegna alle folle (Mc 12,35.38) e anche nel v. 41 si mette a sedere, assumendo la postura del maestro (4,1–2). Egli si posiziona di fronte al tesoro, il suo insegnamento avrà a che fare con questo elemento importante del tempio di Gerusalemme. Attraverso il termine «tesoro» si fa probabilmente riferimento alle tredici cassette che servivano per le offerte e che si trovavano sotto il colonnato del cortile delle donne, tutte a forma di tromba (Mishnah Shekalim 6,15); il rumore dell’urto delle monete su queste trombe poteva dare un’idea della quantità di denaro che la persona aveva offerto. Gesù, quindi, si siede davanti al tesoro e il vangelo precisa che il suo sguardo è capace di scrutare le intenzioni dei cuori, osservando (il verbo è intensivo, Gesù guarda a fondo) non tanto ciò che le persone fanno, ma «come la folla vi gettava monete» (v. 41). Cosa vede? I ricchi donano molto, una vedova povera getta solo due monetine, quindi un soldo (kordántes, il quadrans, la moneta romana di valore più infimo nel I secolo a.C.). Il contrasto è netto: «molti» (polloí) gettano «molto» (pollá), le offerte dei ricchi sono abbondanti e ripetute; la vedova compie un gesto unico e apparentemente misero.   R La vera discepola. A questo punto Gesù “chiama a sé” i discepoli rinnovando ciò che ha fatto in precedenza (Mc 3,13.23): quanto sta per dire li riguarda in modo particolare e non è indirizzato alla folla in generale. Le sue parole cominciano con un paradosso: la vedova che ha gettato nel tesoro molto poco, in realtà ha dato più di tutti gli altri messi insieme. Nel v. 44, quindi, spiega questa affermazione: i ricchi hanno dato parte di ciò che hanno in abbondanza (letteralmente), la donna invece ha dato tutto quello che aveva, «tutto quanto aveva per vivere» (hólon tón bíon autês, traducibile anche «la sua vita intera»). Sebbene l’esegesi contemporanea abbia messo in luce alcune ambiguità di questo versetto, che potrebbe essere interpretato anche come un lamento di Gesù contro la struttura che spinge la vedova a versare le poche risorse possedute a coloro che “divorano le case delle vedove” (in fondo è proprio l’apparato che controlla il tempio a essere condannato da Gesù), il senso generato dalla lettura liturgica è univoco: alla luce di 1 Re 17, le parole di Gesù sono certamente una lode, la vedova è generosa e piena di fede come quella di Sarepta, perché getta nel tesoro tutto quello che ha, compiendo un atto di abbandono radicale e completo. La ripetizione di due termini che indicano totalità («tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere») crea un’interessante eco con la preghiera recitata ogni giorno da tutti gli ebrei, lo šemà’ – «Amerai il Signore Dio tuo, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze» – e menzionata da Gesù proprio poco prima nel vangelo, quando risponde alle domande di un altro scriba (Mc 12,30). La vedova, quindi, dando tutti i suoi averi, ama Dio con tutta la sua vita e con tutte le sue forze, consegnandosi al Signore con piena fiducia. Il suo atteggiamento, inoltre, è simile a quello del Signore Gesù, il quale offrirà tutta la sua vita a Dio sacrificandosi sulla croce, senza risparmiarsi (Mc 10,45). Prendendo sul serio l’acclamazione al vangelo – «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3) – la donna è quindi una povera in spirito che donando tutto, ottiene il Regno dei cieli e diventa così figura di ogni discepolo autentico.
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La giustizia tradita
 
     Al racconto della prima lettura (cf. 1 Re 17,10–16), così come la liturgia lo propone, mancano alcune premesse. Il profeta Elia «si alzò e andò a Sarepta» (v. 10), queste le prime parole, ma occorre sapere che se Elia si alzò è unicamente perché il Signore glielo aveva ordinato: «Àlzati, va’ a Sarepta di Sidone» (1 Re 17,9). Se poi il profeta, vedendo una povera donna che raccoglie legna, osa dirle: «Prendimi un po’ d’acqua in un vaso […]; prendimi anche un pezzo di pane» (vv. 10–11), è ancora perché il Signore glielo aveva detto: «Ecco, io là ho dato ordine a una vedova di sostenerti» (17,9). Con questa premessa comprendiamo l’annotazione che conclude il racconto: tutto è accaduto, «secondo la parola che il Signore aveva pronunciato» (v. 16).      L’autore sacro vuol mostrare – questa è la sua prima lezione – come protagonista dell’episodio non sia Elia né la vedova, ma la parola del Signore. Tutto avviene in obbedienza a questa Parola, una Parola che realizza ciò che promette, una Parola che salva: «La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì» (v. 16). Elia e la donna sono presentati come due esempi di obbedienza, ed è perché obbediente per primo alla Parola che il profeta diventa, a sua volta, portatore di questa parola, il suo tramite: tutto avvenne «secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia».      C’è una seconda premessa da recuperare: se Elia si reca a Sarepta di Sidone, una città straniera, è perché è in fuga, minacciato dal re: «Nasconditi presso il torrente Cherit» (1 Re 17,3). La minaccia è la sorte di tutti i profeti che hanno l’ardire di opporsi alle menzogne dei potenti. Fuggiasco e minacciato dagli uomini ma protetto dal Signore, questa la seconda lezione: «I corvi gli portavano pane e carne al mattino, e pane e carne la sera; egli beveva dal torrente» (17,6). Aiutato da Dio dunque, ma il racconto aggiunge qualcosa di più: mostra che l’aiuto del Signore passa attraverso gli uomini. La provvidenza si serve della generosità di una vedova. Questo significa che tocca a noi poveri uomini, con tutto quello che siamo e con tutto quello che abbiamo, prestare alla provvidenza di Dio il cuore e le mani. Una generosità che Dio ricompensa: «Quella andò e fece come aveva detto Elia; poi mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni» (v. 15). La vedova aiuta il profeta e il profeta aiuta la vedova: chi dona al Signore, riceve.      Possiamo aggiungere un’ultima lettura di questo episodio, come si vede molto ricco nella sua apparente semplicità. Ponendo in parallelo la vedova di Sarepta con la vedova del Vangelo (cf. Mc 12,38-44), la liturgia vuole certamente attrarre l’attenzione su un punto: la povera vedova ha dato al profeta tutto quanto aveva per vivere, come la vedova del Vangelo, la cui offerta è piccola («vi gettò due monetine, che fanno un soldo» (v. 42), ma il dono è totale («tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere», v. 44). Gesù scorge il gesto e richiama l’attenzione dei discepoli con parole che il Vangelo riserva agli insegnamenti più importanti: «In verità io vi dico» (v. 43). Ha trovato un gesto autentico e vuole che i discepoli lo imparino. Un’autenticità garantita da tre qualità: la totalità, la fede e l’assenza di ogni ostentazione.      La totalità: quella povera vedova non ha dato qualcosa del suo superfluo, ma tutto ciò che aveva. Ha fatto un dono che intaccava la sua vita, non qualcosa che la lascia immutata, come invece sempre, o quasi, avviene. C’è chi dona, ma solo dopo aver messo al riparo la propria esistenza, il proprio benessere, il proprio comodo. E un donare che non introduce alcun cambiamento nella propria esistenza, non rinnova nulla. Parliamo prontamente di solidarietà, ma subito veniamo meno alle sue esigenze appena queste mettono a rischio qualcosa di importante. In molti parliamo di giustizia e crediamo persino, in buona fede, di volerla ma subito ci contraddiciamo (ed è ironia!) affermando che le riforme non devono intaccare «i diritti acquisiti».      Donare del proprio superfluo non è ancora amare; e neppure è fede. Donare, invece, fino al punto da mettere allo sbaraglio la propria vita, questo è fede: vuol dire credere nella parola di Dio e nella sua promessa, credere che nel dono si trova la vita e nella condivisione la salvezza. E ciò che Cristo ha fatto con la sua vita intera: non ha dato una parte di sé, ma si è donato interamente. Lo ricorda la seconda lettura: Cristo «è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso» (Eb 9,26). La povera donna ha dato tutto al Signore convinta che dare a Dio significa ricevere: questa è fede autentica. https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjDaz8gW8BJPMAp4lhFJL28fhM8fvkOmCv_QxSXhSVUoWOUK4ZfcPIdN-VUApsca26V2_2ZVzIZ90v0Xa5FEfpnGPzD1Q2n8zM9RpE1t-Si3CIflu5REMneygvvmLHcP417DUIOlQZBg7qJ/s640/A+Oferta+da+Viuva+2.jpg     Infine, l’assenza di ogni ostentazione: nel cortile del tempio, al quale avevano accesso anche le donne, erano allineate tredici ceste, in cui venivano gettate le offerte. Probabilmente gli offerenti dovevano dichiarare al sacerdote in servizio l’entità del dono e lo scopo per cui lo offrivano. E così il gesto diventava pubblico e si prestava alla vanità. Ci sono molti ricchi che fanno laute offerte, di cui il sacerdote ripete ad alta voce l’entità, suscitando l’ammirazione dei presenti, e c’è la povera vedova che non ha dato molto, ha dato tutto, ma il tutto si riduceva a poche monete. Convinta di questo, compie il suo gesto in tutta umiltà. Il povero di solito dona del suo scusandosi del poco che ha, succede invece, alle volte, che il ricco dia del suo superfluo facendolo pesare.      È questione di sguardo: la povera vedova vede il poco che riesce a dare, non il molto che le costa il farlo.
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C’è chi dona il superfluo per apparire chi invece dona quel poco che ha con amore.
Preghiera di Roberto Laurita
 
Tu, Gesù, non consideri le offerte basandoti sul loro valore economico. Per questo quel giorno hai voluto attirare l’attenzione sulla vedova che nella sua generosità aveva donato quanto le era indispensabile per mangiare qualcosa il giorno dopo.   Così tu mi poni una domanda essenziale: che cosa sei capace di donare? Il di più che non mette a repentaglio il tuo stile abituale di vita o anche quello che intacca le piccole abitudini a cui sei affezionato?   Le briciole della tua tavola oppure parte di quello che c’è nel tuo piatto di ogni giorno? Quello che mantiene intatti i tuoi bilanci, le tue spese o quello che ti costringe a cambiare almeno qualcosa?   È vero: le tue sembrano domande piuttosto impertinenti, ma tu mi hai dato per primo l’esempio, tu che nulla hai trattenuto per te, ma hai offerto tutto, fino in fondo, la tua stessa vita.
Colletta
 
O Padre, che soccorri l’orfano e la vedova e sostieni la speranza di chi confida nel tuo amore, fa’ che sappiamo donare tutto quello che abbiamo, sull’esempio di Cristo che ha offerto la sua vita per noi.
Egli è Dio, e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
Amen.