Dal libro del profeta Geremìa |
Ger 31,7-9 |
Così dice il Signore: 7«Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni, fate udire la vostra lode e dite: “Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele”. 8Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione e li raduno dalle estremità della terra; fra loro sono il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente: ritorneranno qui in gran folla. 9Erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni; li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua per una strada dritta in cui non inciamperanno, perché io sono un padre per Israele, Èfraim è il mio primogenito». |
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Il passo scelto per la liturgia di questa domenica è tratto da Ger 30–31, un “libro” (30,2) all’interno del libro di Geremia in cui si annuncia la salvezza e il ritorno dall’esilio. Il brano comincia con un invito alla lode (cf. Sal 95,12) e celebra Israele come “prima delle nazioni”, ricordando, in un periodo di tragica miseria, che il popolo è stato scelto da Dio. Il v. 7 termina in maniera insolita e le traduzioni antiche riportano due letture diverse. Secondo la versione greca dell’Antico Testamento, la cosiddetta Settanta, coloro che lodano dovranno dire: «Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele»; in questo modo si mette in risalto un elemento comune a ogni canto di lode: colui che prega, concentrandosi sul salvatore che lo ha riscattato, riconosce il carattere mirabile dell’intervento divino e al contempo afferma che da solo non avrebbe mai potuto liberarsi. La versione ebraica dello stesso testo, tuttavia, è un po’ differente perché alla lode segue immediatamente una nuova invocazione: «e dite: “Salva, Signore, il tuo popolo!”». Questo dato è interessante perché mette in risalto un’altra componente decisiva per la preghiera di Israele: la lode è accompagnata da altre suppliche perché la salvezza rimane sempre un dono da chiedere; il riscatto non cancella la relazione con Dio, anzi la fonda, e per questo anche dopo la liberazione, la persona riscattata torna a pregare e a rivolgersi a Dio. Nei versetti successivi, il profeta riconosce nella storia del popolo una convergenza di due agenti diversi: da una parte è Dio l’autore della liberazione («li riconduco» e «li raduno», v. 8; «li riporterò» e «li ricondurrò», v. 9); dall’altra si dice che sarà il popolo a muoversi («ritorneranno», v. 8). Il profeta, quindi, sa leggere dietro la successione degli avvenimenti un’opera divina e chiaramente ritiene che la provvidenza di Dio sia il fattore predominante (quattro verbi sono riferiti a Dio!). Il v. 9, quindi, si conclude con una rivelazione straordinaria: Dio non ha cessato di manifestare la sua benevolenza nei confronti di Israele, perché il suo legame con il popolo è indelebile, Dio è padre per Israele e il popolo è il suo figlio primogenito, l’erede principale. |
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Dalla lettera agli Ebrei |
Eb 5,1-6 |
1Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. 2Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. 3A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo. 4Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. 5Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», 6gliela conferì come è detto in un altro passo: «Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek». |
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La seconda lettura è costituita da una riflessione sul servizio del sommo sacerdote nell’Antico Testamento; egli era scelto (alla lettera «preso», v. 1) tra gli uomini e costituito in loro favore rispetto alle cose che riguardano Dio. Del suo ministero vengono specialmente messi in risalto i doni e i sacrifici per il perdono dei peccati (Es 29,38–42). Nello svolgimento del suo ministero, il sommo sacerdote cessa di appartenersi, la sua identità è trasformata in funzione del servizio che compie per gli altri: egli diviene mediatore in favore di coloro che commettono peccati per ignoranza (cf. Lv 4) o per errore (alla lettera, «perché smarriti», v. 2; cf. Lv 16). Il ministro può provare una giusta compassione per gli altri, proprio perché anche lui deve offrire per se stesso sacrifici per il peccato, come fa per il popolo (v. 3; Lv 4,3–12; 16,6.15). Infine, il sommo sacerdote è chiamato da Dio(v. 4) e nessuno può attribuirsi da solo un tale onore (cf. Es 28,1–29,30). Al contrario dei sacerdoti antichi, il Signore Gesù è stato costituito sommo sacerdote da Dio stesso e la citazione di Sal 2,7 («Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato») crea un’esplicita associazione tra il sacerdozio, con cui è costituito mediatore tra Dio e gli uomini, e la sua natura di Figlio di Dio. Gesù è re–Messia (il Sal 2 si riferisce al re) che instaurerà il suo regno compiendo la missione sacerdotale di perdonare i peccati. Il suo sacerdozio non si fonda su un dono ricevuto in eredità, come succede ai sommi sacerdoti, che appartenevano alla linea dinastica di Aronne, ma è un sacerdozio simile a quello di Melchisedek (cf. Sal 109,4), personaggio misterioso, re straniero che offre pane e benedice Abramo (Gen 14,18–24). Elevato da Dio a tale condizione, Gesù Cristo è sacerdote per sempre e da sempre (cf. Sal 109,3), secondo un ordinamento nuovo e inatteso; egli può vincere tutti i suoi nemici, sconfiggendo anche la morte. |
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X Dal Vangelo secondo Marco |
Mc 10,46-52 |
In quel tempo, 46mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. 47Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». 48Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». 49Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». 50Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. 51Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». 52E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada. |
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Il passo di Mc 10,46–52 conclude una sezione importante del Vangelo di Marco, quella in cui Gesù si mette in cammino verso Gerusalemme. Il breve racconto presenta all’assemblea un personaggio che diventa figura del vero discepolo il quale seguirà Gesù lungo la strada che lo porterà a Gerusalemme e alla Passione (v. 52). Il brano scelto come acclamazione ricorda che è proprio la proclamazione del Vangelo, splendore e luce di vita, che può offrire ai fedeli la possibilità di vincere la morte e la tenebra che portano nel cuore: «Il salvatore nostro Gesù Cristo ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo» (2 Tm 1,10). R Gerico. La città di Gerico si trova 250 m sotto il livello del mare ed è crocevia decisivo che dalla Galilea consente di attraversare la Giudea e di prendere la via che giunge sino al deserto del Neghev e al mar Morto. La condizione ambientale e la ricchezza di acque la rende simile a una vera e propria oasi nel deserto. L’etimologia di Gerico è incerta, ma il suo nome è stato associato al termine ebraico impiegato per indicare la luna (yareah). Secondo il racconto di Gs 6, Gerico è la prima città conquistata da Israele quando entra nella terra; la conquista è descritta come una solenne liturgia in cui sette sacerdoti suonano il corno davanti all’arca, facendo il giro della città per sette giorni. Tale rituale fa letteralmente crollare le mura della città (Gs 6,1–25). All’epoca di Gesù, Erode il Grande ne aveva fatto il secondo centro più importante della Giudea, dopo Gerusalemme. Non stupisce quindi che l’ultimo miracolo di Gesù prima del racconto della Passione avvenga proprio a Gerico: Gesù, nuovo Giosuè, apre l’accesso alla terra promessa e al cielo in virtù della fede, che il cieco ottiene grazie al suo grido coraggioso e perseverante. R Il figlio di Timèo, Bartimèo. Mentre Gesù sta per lasciare Gerico, il vangelo introduce un nuovo personaggio, riportando il suo nome con molta precisione (di solito non si forniscono i nomi di chi viene guarito, cf. Mc 5,22); ogni singolo fedele, quindi, è chiamato a riconoscersi e ad identificarsi in questo Bartimèo. La descrizione della scena crea un’opposizione tra il movimento di Gesù, seguito dalla folla, e la condizione di immobilità del cieco, seduto lungo la strada; egli è simile a uno spettatore che rimane lontano dal palcoscenico mentre la vita gli scorre accanto. Egli è anche qualificato dalla sua condizione di dipendenza: poiché è povero non può sopravvivere senza mendicare, senza ricevere aiuti dall’esterno. Il cieco è infine emarginato dalla società e non può accedere al culto (Lv 21,18). Quindi, egli non è solo una figura in cui si possono riconoscere le persone che soffrono di qualche disabilità, ma, in senso spirituale, è anche immagine di tutti coloro che «pur vedendo non vedono» (cf. Mt 13,14), che non possiedono la vera sapienza, che soffrono senza sapere il motivo, che non conoscono la strada da percorrere per giungere alla vita, e certamente evitano quella che conduce a Gerusalemme (la strada del dolore che porterà Gesù alla passione e alla morte). R Figlio di Davide. Il corso normale degli eventi, tuttavia, viene scosso dalla presenza di Gesù Cristo che passa accanto all’uomo sofferente. Il cieco, preparato dalla sua condizione dolorosa, ha una marcia in più, riconosce che quel «Nazareno» è il «Figlio di Davide». Egli comincia a gridare a squarciagola con la forza della disperazione e senza curarsi delle critiche di chi lo ascolta. Formula così una preghiera che avrà una grande fortuna nella tradizione dei monaci d’Oriente, la cosiddetta «preghiera del cuore»: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». La sua invocazione è insistente, non cessa neanche quando la folla cerca di farlo tacere; il cieco ripete: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Ai fedeli riuniti per l’eucaristia domenicale, la liturgia propone le parole pronunciate dal cieco perché con esse possano esprimere il proprio grido di dolore, manifestare l’impotenza che li paralizza e chiedere aiuto a Dio. R Chiamatelo. Gesù non va incontro al cieco e le persone non glielo conducono; è lui stesso che dice a chi gli sta intorno: «Chiamatelo!» (v. 49). Gesù intende accoglierlo, ma lo fa aiutando il cieco a rimettersi in movimento. La parola di Gesù trasforma anzitutto la folla: le persone che prima hanno ostacolato Bartimèo, diventano messaggeri e mediatori; il loro incoraggiamento è molto incisivo e nel loro discorso si trova un concentrato di ciò che annuncia la chiesa ogni volta che proclama il Vangelo: «Coraggio, alzati, ti chiama!». In primo luogo lo incoraggiano e lo invitano ad avere fiducia, poi chiedono al cieco di alzarsi e infine lo rassicurano che è proprio il Maestro a chiamarlo e a volerlo incontrare. La parola trasmessa, quindi, trasforma anche il cieco, che si alza di getto, lasciando il mantello, unica fonte di sicurezza per coloro che erano costretti a dormire all’aperto (Es 22,25–26). Tutto ciò in cui ha creduto e in cui ha sperato perde di significato di fronte alla possibilità di incontrare Gesù Cristo. R Cosa vuoi che io faccia per te? Gesù dialoga con il cieco e formula la stessa domanda che ha posto ai figli di Zebedeo (10,36), facendo così risaltare la differenza tra loro: Giacomo e Giovanni desiderano posti d’onore, il cieco esprime anzitutto il suo legame con Gesù (chiamandolo Rabbunì, «maestro mio») e poi chiede di vedere di nuovo. Gesù lo guarisce subito e lo congeda («Va’!»), il cieco, invece, di sua iniziativa decide di seguirlo sulla via e di diventare in qualche modo suo discepolo. Il vangelo, quindi, si chiude con una considerazione di Gesù che vale per ogni cristiano: «la tua fede ti ha salvato!». Le circostanze più negative e oscure possono essere illuminate dalla luce della fede ed è proprio il legame crea to con Gesù Cristo a costituire la fonte della liberazione e della salvezza. |
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La fede che guarisce |
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I capitoli 30-31 del libro del profeta Geremia, scritti probabilmente tra il 622 e il 609 a.C., sono comunemente intitolati «Il libro della consolazione». Il breve testo riportato come prima lettura (cf. Ger 31,7-9) si apre con un ripetuto invito alla gioia: «Innalzate canti di gioia […] esultate […], fate udire la vostra lode» (v. 7). Una gioia che nasce nell’intimo, ma che poi prorompe all’esterno, si fa corale e si tramuta in canto liturgico e diventa preghiera di lode e di ringraziamento. La Bibbia vuole che si soffra e si gioisca davanti al Signore, e non si rimanga mai chiusi in noi stessi. Dopo l’invito alla gioia, la descrizione del motivo, o dell’oggetto, del «lieto annuncio»: esilio e disperazione sono i simboli della situazione infelice dell’uomo dovuta al peccato e all’abbandono di Dio; ritorno e raduno sono, all’opposto, i simboli della salvezza. Nel pensiero del profeta non si tratta soltanto del ritorno in patria, ma del ritorno alla propria origine, alla propria identità di popolo di Dio, alla propria vocazione. Il ritorno è la «conversione del cuore», che comprende la rinuncia al peccato e alle idolatrie, il rifiuto dei sostegni umani per confidare unicamente in Dio, l’orientamento di tutta la propria esistenza al Signore. L’altro simbolo della salvezza è il raduno, di cui il profeta sottolinea l’universalità («dalle estremità della terra», v. 8) e il gran numero («una gran folla»). La coincidenza fra salvezza e raduno è un’intuizione profonda: mostra di aver capito che l’uomo è fatto per stare insieme, assetato di relazioni fraterne e di rapporti distesi. Nella contrapposizione e nella disperazione l’uomo si spegne. La salvezza, dunque, che il profeta annuncia con tanta sicurezza è insieme religiosa e umana, personale e sociale: è un ritornare a Dio e a se stessi, una trasformazione interiore e una radicale riforma dei rapporti fra uomo e uomo. Ho detto che il profeta annuncia la salvezza con tono di grande sicurezza: non come una probabilità, bensì come una certezza. Ma quale è il fondamento di tanto ottimismo? Non l’esperienza storica (che anzi sembra giustificare tutto il contrario), non eventuali segnali di volontà di riforma riscontrabili nel popolo, ma la volontà di Dio: «Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele» (v. 7). La certezza della salvezza poggia sulla paternità di Dio: «Io sono un padre per Israele, Efraim è il mio primogenito» (v. 9). La salvezza, quindi, è dono, e questo giustifica l’ottimismo, la gioia e il canto, tuttavia non è indolore, perché passa attraverso una purificazione e una selezione. E appunto per significare questo che il profeta, subito dopo aver affermato che Dio «ha salvato il suo popolo», aggiunge «il resto di Israele». Il «resto» è il gruppo di coloro che sono sopravvissuti e si sono lasciati purificare dagli avvenimenti, il gruppo di coloro che hanno capito. Altrove il profeta scrive: «Vi prenderò uno da ogni città e due da ciascuna famiglia e vi condurrò a Sion» (3, 14). Un linguaggio senza dubbio pittoresco e paradossale, ma che indica molto bene la severità della prova. Con l’espressione «il resto d’Israele», il passo liturgico si pone senza dubbio nella linea che attraversa tutta la predicazione di Geremia e degli altri profeti, la linea cioè del giudizio e della severità della consapevolezza che tutto ciò che avviene nel mondo ha una causa e tutto ciò che si fa ha una sua ineluttabile conseguenza. Ma guardando con attenzione, si scorge che il testo profetico è più ottimista: il motivo del giudizio è presente ma non è il motivo portante incorniciato com’è da due espressioni che vanno in direzione contraria: «[Il Signore] ha salvato il suo popolo […] ritorneranno qui in gran folla» (vv. 7-8). È vero che Dio, quando vuole ricostruire di nuovo il suo disegno, quando vuole dare un volto rinnovato all’umanità, trova soltanto un «piccolo resto» disponibile; ma questo «resto» è destinato a diventare una gran folla. Il resto è seme di universalità. Dio costruisce e rinnova a partire dai semi, non dalle folle. Infine, un ultimo elemento da osservare, proprio quello che ci pone in relazione con il Vangelo e con tutta l’opera messianica di Cristo: nel rinnovamento sono compresi e in prima fila, «il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente» (v. 8), cioè i più deboli, quelli che molti sono anche disposti a considerare come beneficiari della trasformazione ma non certo come gli attori del cambiamento del mondo. E invece sono proprio gli attori, come indica a chiare lettere tutta la vita di Gesù: il rinnovamento incomincia da loro. Per cambiare il mondo in profondità, Gesù ha cominciato, per così dire, dal basso, dagli inutili, come nel caso del cieco Bartimeo (cf. Mc 10,46-52). Il racconto evangelico ci fa assistere a una completa e impensabile trasformazione: un uomo era cieco e ora ci vede, era seduto e ora segue Gesù lungo la via. La lezione è chiara: la potenza di Dio, che Gesù aveva già indicato ai discepoli come l’unica possibilità di salvezza (cf. Mc 10,27), ha saputo trasformare un uomo impotente in un discepolo coraggioso, ma a due condizioni: la preghiera («Gesù, abbi pietà di me», v. 47) e la fede («Va’, la tua fede ti ha salvato», v. 52). Ma questo è soltanto il primo momento. Dopo dobbiamo ricordarci che la scena non è un episodio staccato, a sé stante (il Vangelo infatti non è una raccolta antologica), ma un particolare di una trama più ampia, di un disegno ricco e articolato, che è appunto l’insieme del Vangelo. Riguardo al brano liturgico vi sono almeno due constatazioni sulle quali è opportuno riflettere: il fatto che la guarigione del cieco Bartimeo conclude la catechesi ai discepoli sulla sequela e che si tratta dell’ultimo miracolo compiuto da Gesù. Attorno al terzo e ultimo preannuncio della passione (cf. Mc 10,32-34) si sviluppa un dialogo sulla sequela, i cui protagonisti sono Gesù e i discepoli. Nell’episodio conclusivo – il racconto della guarigione di Bartimeo – il tema è ancora la sequela, ma i discepoli scompaiono, protagonisti sono Gesù e il cieco; fra i discepoli e il cieco c’è anzi, una sottesa contrapposizione. Per lo meno il lettore è invitato a fare il confronto: da una parte, i discepoli che sembrano impersonare la perplessità (cf. 10,26), l’esitazione (cf. 10,32) e l’incomprensione di fronte alle richieste del Cristo (cf. 10,35); dall’altra Bartimeo che invece «subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada» (v. 52). Il modello da imitare è dunque lui, non i discepoli. Alla domanda dei discepoli («E chi può essere salvato?», 10,26) Gesù aveva risposto: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio» (10,27). L’episodio di Bartimeo è un’illustrazione di questa risposta, e in questo senso è veramente un episodio conclusivo: il possibile non si misura nelle possibilità dell’uomo, ma sulla possibilità del dono di Dio. Allo stesso tempo, il racconto è l’ultimo miracolo narrato nel Vangelo di Marco. Se si dà uno sguardo complessivo all’intero Vangelo, ci si accorge che i miracoli si diradano man mano che Gesù si avvicina a Gerusalemme e alla croce, fino al punto da scomparire del tutto nel racconto della passione, dove Gesù si mostra nella più completa debolezza, totalmente in balia della cattiveria degli uomini. Ma è una debolezza voluta, Gesù è il «forte» e molti miracoli compiuti lo dimostrano. Colui che si incammina verso Gerusalemme è un vittorioso, e il discepolo non deve dimenticarlo, ma un vittorioso che ha scelto di vincere il male con la debolezza dell’amore. Ancora una volta vi è la rivelazione della sua identità più profonda. A uno sguardo attento non è una novità, il lettore attento dovrebbe aspettarsi questo rifiuto di Gesù di ricorrere ai miracoli per salvarsi («Scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo», Mc 15,32). Ha fatto molti miracoli, è vero, ma mai per salvare se stesso. Sulla croce glielo rinfacciano come un insulto: «Ha salvato altri e non può salvare se stesso!» (Mc 15,31) e invece è la sua grandezza, la prova della sua origine divina. Appunto, è vissuto per gli altri, non per sé e sulla croce Gesù abbandona la potenza dei miracoli per mostrare in tutta la sua forza un’altra potenza (alla quale gli stessi miracoli erano finalizzati), cioè la potenza dell’amore. |