Sequenza allo Spirito Santo   Vieni, Spirito Santo, manda a noi dal cielo un raggio della tua luce.   Vieni, padre dei poveri, vieni, datore dei doni, vieni, luce dei cuori.   Consolatore perfetto; ospite dolce dell’anima, dolcissimo sollievo.   Nella fatica, riposo, nella calura, riparo, nel pianto, conforto.   O luce beatissima, invadi nell’intimo il cuore dei tuoi fedeli. VIENI SANTO VIENI SANTO SPIRITO NI SANTO SPIRITO 
Senza la tua forza, nulla è nell’uomo, nulla senza colpa.   Lava ciò che è sordido, bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina.   Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, drizza ciò che è sviato.   Dona ai tuoi fedeli, che solo in te confidano, i tuoi santi doni.   Dona virtù e premio, dona morte santa, dona gioia eterna.   Amen.
Dal libro del profeta Ezechièle
Ez 2,2–5
In quei giorni, 2uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava. 3Mi disse: «Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri si sono sollevati contro di me fino ad oggi. 4Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: «Dice il Signore Dio». 5Ascoltino o non ascoltino dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro.
 
Casella di testo: Profeta Ezechiele
Michelangelo Buonarroti
Vaticano, Cappella Sistina
undefinedIl libro del profeta Ezechiele comincia con una visione maestosa della gloria divina (Ez 1,4–28). Nel bel mezzo di questo evento il Signore rivolge la parola ad Ezechiele, sacerdote ebreo che si trova in esilio con il popolo di Giuda in Babilonia. La lettura inizia con un’indicazione apparentemente superflua che si rivela invece decisiva: «uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi» (2,2); la missione di Ezechiele è un’iniziativa di Dio ed è sostenuta dal suo Spirito, senza il quale il profeta non riuscirebbe nemmeno a stare in piedi. «Io ti mando ai figli di Israele» (2,3). La prima parola pronunciata da Dio fa immediatamente riferimento alla missione e all’invio, omettendo altri elementi e contribuendo a crea re un senso di urgenza. La vocazione di Ezechiele è descritta sin dall’inizio come il mandato di un messaggero che deve comunicare ad altri la Parola di un superiore (cf. Gen 32,4), in cui Dio sviluppa soprattutto la descrizione del destinatario, gli Israeliti. Essi sono alla lettera: «una nazione di ribelli che si sono ribellati contro di me» (Ez 2,3); si ripete per due volte la radice marad, che denota in senso proprio la ribellione contro un sovrano con il quale si è stretta un’alleanza (cf. 2 Re 18,7), ma che può essere usato anche per Dio (Nm 14,9). Nello stesso versetto, poi, si introduce un altro sinonimo per indicare la sollevazione degli Israeliti, paša‘, usato nello stesso contesto (cf. 1 Re 12,19). In queste parole Dio mette in risalto soprattutto il carattere personale della ribellione: per due volte insiste nel precisare che il peccato è «contro di me». Il comportamento degli Israeliti, inoltre, è paragonato a quello di «figli testardi dal cuore indurito» (Ez 2,4) rivelando, tra le righe, la straordinaria condizione di Israele, figlio di Dio, ed esaltando in modo ancora più forte la sua ostinazione (cf. Is 48,4), il suo cuore duro come la pietra (cf. Ez 36,26). Il messaggio che deve portare il profeta, infine, sembra non avere contenuto: «Dirai loro: “Dice il Signore Dio”» (2,4); in questa semplice indicazione è racchiusa la vocazione di Ezechiele: egli dovrà costantemente riportare la Parola, indipendentemente dalla riuscita della comunicazione («ascoltino o non ascoltino», 2,5), richiamando il popolo perché riesca a cogliere la presenza di Dio nella sua storia. La prima lettura, quindi, scuote l’assemblea, rivelando quanto sia arduo l’ascolto della parola profetica e invitando i presenti alla docilità di cuore.
 
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi
2 Cor 12,7–10
Fratelli, 7affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. 8A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. 9Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. 10Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.
 
La “spina nella carne” di Paolo (2 Corinti 12)La seconda lettura riporta uno dei passi più enigmatici dell’intero epistolario paolino: «Affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia» (12,7). Nonostante ciò, alcune indicazioni presenti nel testo possono aiutare a decifrarlo: Paolo si riferisce a un dolore (una «spina») permesso da Dio (il passivo è chiaramente riferito all’azione del Signore), permanente, che fa soffrire l’apostolo nella carne, vale a dire a partire dalla sua condizione limitata di essere finito e mortale (non sembra che si possa pensare a una sfumatura negativa del termine «carne», come riferimento al peccato carnale). Nonostante l’origine divina, questo dolore diviene uno strumento di Satana per tentarlo e percuoterlo, e manifesta le sue debolezze personali, impedendogli di montare in superbia. Tra le diverse spiegazioni, quindi, gli esegeti tendono ad interpretare la «spina» come una malattia fisica in cui si manifesta la fragilità dell’apostolo (cf. 2 Cor 10,10). Un’altra possibilità: la «spina» non è altro che un simbolo degli avversari che umiliano Paolo creandogli profonde sofferenze (cf. 11,14–15). L’apostolo, stremato, prega perché il Signore allontani questa sofferenza (12,8) e ripete l’invocazione per ben tre volte. Il Signore risponde in maniera paradossale e assolutamente inaspettata: «Ti basta la mia grazia, infatti, la potenza si compie nella debolezza» (12,9). In primo luogo, Dio esaudisce la preghiera di Paolo, perché non lo lascia solo nella prova, ma promette il dono della sua grazia. D’altra parte rivela che la sua debolezza è preziosa, decisiva perché la potenza di Dio sia perfetta e compiuta, raggiunga il suo fine ultimo (il verbo greco usato è teléō, raggiungere il fine, perfezionare). Il Signore ha scelto la croce per rivelare la sua potenza (1 Cor 1,8–31) e anche Paolo è chiamato a rivivere nella carne il mistero pasquale, il passaggio dalla morte alla risurrezione, come Gesù Cristo che «fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio» (2 Cor 13,4). Tale annuncio è donato all’assemblea perché, confortata da Dio, possa scoprire, con Paolo, il dono di grazia legato alle debolezze: «quando sono debole è allora che sono forte» (12,10).
X Dal Vangelo secondo Marco
Mc 6,1–6
In quel tempo, Gesù 1venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. 2Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? 3Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. 4Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». 5E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. 6aE si meravigliava della loro incredulità. 6bGesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.
 
https://disegni.qumran2.net/miniature/e0/7813_750.jpgIl vangelo di questa 14a domenica è preparato dall’acclamazione. In essa si allude a un altro episodio in cui Gesù insegna nella sinagoga di Nazaret, quando, prendendo il rotolo del profeta Isaia, legge queste parole: «Lo Spirito del Signore è sopra di me: mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio» (Lc 4,18). Secondo il racconto di Luca, Gesù applica questa Parola profetica alla propria persona e genera una reazione scettica e dura.   R Molti rimanevano stupiti. Anche il racconto di Marco descrive la reazione scettica delle persone presenti nella sinagoga di Nazaret; esse dimostrano un certo stupore di fronte all’insegnamento di Gesù. Il verbo «stupirsi» è usato altre volte sia per riferirsi a una reazione neutrale o positiva, sia per indicare un’impressione negativa (Mt 7,28; Gv 7,15; At 4,1314). Riportando le parole dei presenti, il brano consente di comprendere meglio la natura dei loro dubbi.   R Da dove gli vengono? La prima questione che viene sollevata riguarda l’origine dell’insegnamento di Gesù. Altre volte la domanda: «da dove?» viene formulata quando si riflette su una qualità divina (Mt 21,25); la tradizione ebraica, infatti, riteneva che il Messia atteso si sarebbe manifestato come una persona dall’origine sconosciuta. Questo problema viene formulato con altre parole nel passo di Gv 7,27: «Costui sappiamo di dov’è; il Cristo, invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia». Come può venire da Dio una persona di cui si conosce l’estrazione sociale e il luogo di provenienza?   R La sapienza e i prodigi. Le altre due domande precisano la prima; la gente di Nazaret riconosce in Gesù una sapienza straordinaria e non può far altro che notare i prodigi, frutto delle sue mani (v. 2), ma tutto questo, di nuovo, sembra insolito e non favorisce alcun ripensamento nei presenti. Le domande formulate dai compatrioti di Gesù, infatti, hanno un carattere circolare, sono autoreferenziali; esse infatti si presentano come interrogativi retorici in cui la risposta è già chiara in partenza, dimostrando l’atteggiamento di fondo degli abitanti di Nazaret: essi non si stanno rivolgendo veramente a Gesù, non hanno alcuna intenzione di ascoltare la sua parola, hanno già le risposte che cercano.   R Carpentiere, figlio di Maria. Il v. 3, quindi, esplicita il contrasto latente nel v. 2: i conterranei di Gesù conoscono il suo mestiere («carpentiere»), la sua storia familiare (è «figlio di Maria») e i suoi parenti; riferendosi al passato di Gesù, essi evocano forse le illazioni che riguardano la nascita illegittima e alludono all’episodio in cui sono stati i suoi stessi “fratelli” a ritenerlo un pazzo (Mc 3,21). Lo scenario è quello del piccolo centro in cui la vita scorre senza che succeda niente di nuovo. In questo quadro provinciale, appare la novità assoluta di Gesù Cristo che si scontra con un ambiente chiuso e immobile. Il v. 3 si chiude con una precisazione, traducibile alla lettera: «e si scandalizzavano di lui»; la stessa espressione riferita a Gesù si ritrova in Mt 26,31 per la sua passione: «Allora Gesù disse loro: “Questa notte, per tutti voi, sarò motivo di scandalo”». Gesù scandalizza quando contraddice le aspettative di chi lo incontra, mostrando la sua condizione di Messia umile.   R Patria, parenti, casa. La risposta di Gesù è affidata a un detto proverbiale: «un profeta non è disprezzato se non in patria, tra i suoi parenti e in casa sua» (v. 4). L’aggettivo átimos, senza onore, qualifica la persona (1 Cor 4,10) che non viene stimata in base al suo valore reale. Il brano ha due effetti: Gesù comincia a rivelare ai discepoli e ai presenti che il rifiuto è previsto dal disegno divino e che ha un ruolo decisivo per la salvezza, e al contempo dimostra di essere consapevole della durezza dei suoi parenti. Non viene scosso dal loro fraintendimento e per i discepoli, come per l’assemblea liturgica, questo significa che la decisione di seguire Gesù Cristo potrà provocare ostacoli e res istenze molto forti anche nella propria famiglia di origine.   https://disegni.qumran2.net/archivio/10093.jpgR Non poteva compiere nessun prodigio. Il riferimento al prodigio, alla lettera potenza (dýnamis), crea un’interessante corrispondenza con la seconda lettura. Mentre Dio rivela a Paolo che la sua “potenza” si compie e si realizza perfettamente nella debolezza (2 Cor 12,7–10), la “potenza” di Dio non si può manifestare proprio perché gli abitanti di Nazaret sono scandalizzati dalla “carne” di Gesù.   R Incredulità. Il v. 6 conclude il brano del vangelo con un ulteriore contrasto: le persone radunate per la celebrazione sinagogale rimangono stupite per l’insegnamento di Gesù, ma non fanno alcun passo avanti, rimangono fisse nei loro convincimenti. Gesù, invece, si stupisce negativamente (lo stesso verbo è impiegato in Gal 1,6) per la loro incredulità, percepita come una reazione inaspettata e ingiustificata. Ancora una volta il Vangelo dimostra che i miracoli richiedono la fede, proprio perché essi non hanno semplicemente un valore fisico, ma esprimono e manifestano una guarigione più profonda che coinvolge tutta la persona, la salvezza.
         
«Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria»
 
     Dio sceglie Ezechiele (cf. Ez 2,2–5) come suo portavoce presso gli israeliti esiliati a Babilonia: «Figlio d’uomo, ti mando ai figli di Israele» (v. 3). Si tratta della prima deportazione, avvenuta nel 597 a.C.; ne seguirà una seconda, più massiccia, nel 586. Il Signore non si limita a chiamare Ezechiele, lo trasforma: «Uno spirito entrò in me e mi fece alzare in piedi» (3,24). Dio dà nel contempo l’incarico e la capacità di svolgerlo.      Il Signore non illude il suo profeta, gli dice in modo chiaro che le sue parole saranno rifiutate e la sua missione si svolgerà tra ogni sorta di difficoltà: «Essi saranno per te come cardi e spine e tra loro ti troverai in mezzo a scorpioni» (2,6). Gli israeliti in esilio — fra i quali il profeta, appunto, è inviato — sono testardi e hanno il cuore «indurito».      Le ragioni che addurranno per rifiutare il messaggio del profeta sono varie, sono tutte delle scuse. Il vero motivo è uno solo: «hanno il cuore indurito» (cf. v. 4). Nel capitolo successivo Ezechiele userà un’espressione ancora più chiara: «La casa di Israele non vuole ascoltare me» (3,7). Il rifiuto è frutto di una scelta, di un cattivo orientamento che ha lontane radici: «Essi e i loro padri si sono sollevati contro di me fino ad oggi» (v. 3). Questi esiliati a Babilonia che rifiutano l’avvertimento del Signore, questi uomini così ciechi di fronte agli avvenimenti, sono senza dubbio pienamente responsabili della loro ostinazione, e il profeta non concede loro alcuna attenuante, tuttavia è anche vero che si tratta di una responsabilità che va divisa con tutti coloro che li hanno preceduti. La loro cecità è come il punto terminale di una catena che, generazione dopo generazione, ha reso le tenebre sempre più fitte.      Ezechiele non è un pessimista, ma un uomo onesto, non assomiglia a quei troppi predicatori (non biblici!) che condannano il presente ed esaltano il passato: una volta sì che era diverso! Ezechiele sa molto bene che i figli e i padri hanno contribuito, in tempi diversi, a costruire il mondo che ora ci troviamo. La cecità non è solo dei figli, è anche dei padri che ne hanno costruito le premesse.      Abbiamo continuamente parlato di «durezza di cuore» e di «cecità», ma a che cosa si riferisce di preciso il profeta? Ezechiele si accorge di vivere in mezzo a degli esiliati che non hanno capito nulla di ciò che è accaduto. L’esercito babilonese è entrato in Gerusalemme, ha seminato morte e distruzione, ha deportato il re e le persone più influenti. Tutto questo è per il profeta un segno di Dio, un avvertimento molto chiaro che bisogna cambiare vita, ma gli esiliati non comprendono. La sconfitta è dovuta a un errore politico, pensano, a un calcolo sbagliato, e per salvarsi occorrono alleanze più oculate e un esercito più forte. E invece no, tuona il profeta: non è questione di politica ma di conversione, non di eserciti ma di riforma morale e religiosa. Un giudizio attualissimo!      Il destino di Ezechiele, profeta inascoltato, rinvia all’episodio evangelico ambientato nella sinagoga di Nazaret (cf. Mc 6, 1–6). In presenza di Gesù i suoi compaesani passano dallo stupore allo scandalo e Gesù, di fronte a questa loro reazione, prova a sua volta un senso di meraviglia: Gesù suscita stupore per i prodigi che le sue mani hanno compiuto ma ora, qui a Nazaret, è come impotente e viene quindi rifiutato. Perché, pur rimanendo sorpresi dai miracoli di Gesù e dalla sapienza racchiusa nelle sue parole, non si sono aperti alla fede ma sono rimasti increduli?      Non è l’unico caso in cui l’evangelista parla di «stupore» di fronte alle parole e ai gesti di Cristo, e sempre si tratta di una reazione ancora neutrale: indica l’atteggiamento di chi resta colpito, impressionato e quindi costretto a interrogarsi, ma non contiene già la risposta. E un atteggiamento di partenza, un primo passo insostituibile, che però può sfociare sia nella fede che nell’incredulità. Lo stupore di fronte alla sapienza di Gesù e alla potenza delle sue mani suscita interrogativi fondamentali (domande che l’evangelista intende porre a ogni lettore): qual è la radice o l’origine di questa sapienza e di questa potenza? Come si spiega? Chi è quest’uomo?      La fede consiste nel ritenere che Gesù viene da Dio, ma questa conclusione è ostacolata da un’evidenza: quest’uomo è un carpentiere e i suoi fratelli vivono in mezzo a noi! Di qui lo scandalo, parola che indica un ostacolo alla fede, qualcosa che impedisce «ragionevolmente» di credere. E ciò che impedisce di credere è proprio la persona di Gesù (quella stessa persona che, da un altro punto di vista suscita stupore!), la sua concreta fisionomia, la sua presenza umile, il suo apparire uno di noi. Comprendiamo l’indecisione degli abitanti di Nazaret: da una parte i segni della presenza di Dio, dall’altra una realtà che sembra contraddittoria. La presenza di Dio non dovrebbe essere più luminosa, più importante? Com’è possibile che un inviato di Dio si presenti nelle vesti di un falegname?      Di fronte all’atteggiamento di rifiuto dei suoi compaesani Gesù si limita, dapprima a citare un proverbio: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua» (v. 4). Che un profeta sia incompreso dai suoi non è una novità, anzi è il destino di tutti i profeti, come testimonia la vicenda di Ezechiele e come pure la stessa sorte di Geremia, come attestano le parole dei compaesani del profeta: «Non profetare nel nome del Signore, se no morirai per mano nostra» (Ger 11,21).      Si direbbe, dunque, che il rifiuto sia un fatto scontato, quasi da attendersi, e tuttavia Gesù se ne meraviglia e lo chiama con il suo vero nome: incredulità. Capita sempre che i profeti siano rifiutati dal loro popolo, ma bisogna continuare a meravigliarsene (lo stupore di scoprire una così grande incredulità in chi si pensa credente: siamo forse noi?).      Il rifiuto avviene spesso, in apparenza, per salvare l’onore di Dio (così appunto quelli di Nazaret), mentre invece è il segno di una profonda incredulità. L’incredulità per il Vangelo non è solo la negazione di Dio (non è questo il caso dei nazaretani), ma l’incapacità di scoprire Dio nell’umiltà dell’uomo Gesù, l’appello di Dio nella voce di un uomo che sembra essere come noi.      Dunque la voce del profeta, in un certo senso, è destinata a cadere nel vuoto, ma questa non è una ragione per tacere o per rassegnarsi, la voce della verità deve risuonare comunque, almeno per due ragioni: se gli uomini non fanno il loro dovere, Dio fa sempre il suo, nessuno potrà dirgli: «Perché non ci hai avvertiti?». E poi la verità, in un modo o nell’altro, si fa sempre strada: spesso più tardi, ma si fa strada. Il vero profeta lavora per tempi lunghi, fidandosi di Dio. L’importante è che non ceda mai alla tentazione di percorrere le scorciatoie, cioè quelle strade impazienti con le quali gli uomini credono (inutilmente) di cambiare in fretta le cose. E in questo senso possiamo leggere anche l’affermazione contenuta nella lettera dell’apostolo Paolo: «Ti basti la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2 Cor 12,9).
https://disegni.qumran2.net/archivio/7501.jpg
 
Gesù, per chi crede di conoscerlo, è solo un uomo, un falegname di Nazareth (parte destra, Gesù senza aureola con un tronco di legno da lavorare) per chi lo ama si rivela vero Dio e vero uomo (parte sinistra, Gesù risorto con il legno della croce e l’aureola).
Preghiera di Roberto Laurita
 
Quel giorno, Gesù, sei tornato a Nazaret. È il villaggio in cui sei cresciuto: tutti gli abitanti ti conoscono. Con te hanno condiviso i lutti e i digiuni, ma anche i giorni di festa, la preghiera comune nella sinagoga, i riti del sabato e la gioia della Pasqua.   Ora dovrebbero rallegrarsi per le tue parole, per i miracoli che ridanno speranza ai malati e invece tu diventi per loro addirittura un motivo di scandalo.   Non possono accettare che uno di loro comunichi la sapienza che viene da Dio, che le tue mani callose di artigiano guariscano gli infermi, toccandoli, richiamino alla vita i morti.   Non accettano che Dio si serva di uno di loro, di uno come te, per entrare nella storia dell’umanità. Ma è proprio quello che accade anche oggi, tra di noi: siamo disposti a riconoscere che Dio continua a operare attraverso uomini e donne a noi vicini?
Colletta
 
Orazione O Padre, fonte della luce, vinci l’incredulità dei nostri cuori, perché riconosciamo la tua gloria nell’umiliazione del tuo Figlio, e nella nostra debolezza sperimentiamo la potenza della sua risurrezione.
Egli è Dio, e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
Amen.