Dal libro del profeta Ezechièle |
Ez 17,22-24 |
Così dice il Signore Dio: 22«Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro, dalle punte dei suoi rami lo coglierò e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; 23lo pianterò sul monte alto d’Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà. 24Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso, faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco. Io, il Signore, ho parlato e lo farò». |
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La prima lettura si trova in un capitolo enigmatico e allegorico del libro di Ezechiele, che può essere decodificato a partire dai fatti successi durante l’esilio babilonese del regno di Giuda. L’aquila grande, simbolo di regalità (v. 3), è il re di Babilonia che venne a Gerusalemme nel 598 a.C. («Libano», v. 3), strappando da essa il re Ioiachin («la cima di cedro», v. 3) per deportarlo. Il «germoglio del paese» (v. 4) è il re Sedecia, sovrano che viene lasciato a Gerusalemme per governare il Paese in accordo con Babilonia, ma che sceglie di ribellarsi e allearsi con il re d’Egitto (v. 7). In seguito a questa scelta, il popolo ha affrontato il dramma dell’esilio e della fine nel 587 a.C. (vv. 19–21). I vv. 22–24, allora, sono una conclusione poetica del capitolo, in cui si assicura un futuro inaspettato, opera della grazia. Il Signore promette di prendere un ramoscello dalla cima del cedro, un «resto di Israele» tra gli esiliati (Ger 31,7), per piantarlo su un monte alto d’Israele, Sion, il monte di Gerusalemme (vv. 22–23). Questo ramoscello diventerà un albero talmente grande, da offrire rifugio agli uccelli del cielo: in filigrana si può scorgere la forza di attrazione universale che avrà Gerusalemme nei confronti delle nazioni (Is 2,1–5). L’albero che si staglia sul monte porterà una rivelazione («Sapranno tutti gli alberi della foresta», v. 24): anche se la storia ha risvolti drammatici, il Signore rimane sovrano, non c’è potenza così grande da non poter essere abbassata, né viceversa umiliazione e sofferenza così intensa che non possa essere rovesciata, il Signore umilia e innalza (1 Sam 2,7). Dio è capace di far sorgere la vita dalla morte, di prendere parte di un albero sradicato e far ricrescere una pianta maestosa e forte. Tale lettura, quindi, intende consolare le persone più afflitte radunate per la celebrazione, mostrando che Dio ha la capacità di rovesciare le sorti e donare nuova vita. |
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Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi |
2Cor 5,6-10 |
Fratelli, 6sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo – 7camminiamo infatti nella fede e non nella visione –, 8siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore. 9Perciò, sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere a lui graditi. 10Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male. |
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La seconda lettura gioca sul contrasto tra due parole greche: endēméō ed ekdēméō. Entrambe derivano dal termine dḗmos che si può tradurre «popolo» e si riferisce alla gente in mezzo alla quale una persona si sente di essere a casa. Paolo, quindi, definisce la condizione di ogni uomo mediante una tensione: «siamo in esilio (ekdēmúmen) lontano dal Signore finché abitiamo (endēmúntes) nel corpo» (v. 6). La vita nel corpo è inevitabilmente segnata da una distanza da Dio, perché la vera “casa” di ogni persona è Dio stesso (Fil 3,20); l’esilio più drammatico, quindi, non è quello di cui si è parlato nella prima lettura, ma è la lontananza dal Signore che si può provare nell’esistenza ordinaria. Questo distacco è tuttavia attenuato, perché riferendosi ai cristiani e a se stesso, Paolo afferma: «camminiamo infatti nella fede e non nella visione» (v. 7). Sebbene abitando nel corpo la persona non abbia un’immediata visione del cielo, per fede può avere accesso a Dio, in virtù dell’incontro con la persona di Gesù Cristo (Rm 4,5; Gal 2,16). È grazie a questa unione così profonda che Paolo può arrivare a dire: «non vivo più io, ma Cristo vive in me», la vita che vive «nel corpo» è vissuta «nella fede del Figlio di Dio» (Gal 2,20). La relazione di Paolo con Dio è talmente stretta che egli non esita a mostrare il proprio desiderio di morire (cf. Fil 1,23) per stare con Lui (2 Cor 5,8). Le sue parole, tuttavia, offrono un’indicazione importante riguardo al tempo in cui si deve vivere nel corpo, in esilio, «consideriamo un onore, essere graditi a lui»: Paolo non affronta le scelte in maniera orizzontale, per compiacere le persone che lo circondano, ma cerca di piacere solo a Dio; per questo non teme di andare contro corrente, sapendo che sarà proprio Dio a giudicare le sue opere (v. 10). |
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X Dal Vangelo secondo Marco |
Mc 4,26-34 |
In quel tempo, 26Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; 27dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. 28Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; 29e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura». 30Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? 31È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; 32ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra». 33Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. 24Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa. |
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In pieno accordo con la prima lettura e il salmo, il vangelo utilizza due metafore vegetali per descrivere alcune caratteristiche del regno di Dio: il seme e il granello di senape. Il ritornello dell’alleluja stabilisce il quadro in cui interpretare queste parabole: «Il seme è la parola di Dio, il seminatore è Cristo; chiunque trova lui ha la vita eterna». La parola di Dio è simile a quel piccolo corpo che ha in sé tutta la forza di far germinare la vita e produrre così una pianta molto più grande. Il brano tuttavia crea una certa asimmetria: non si dice «il seme è la parola… chi la accoglie…», ma «il seme è la parola… chiunque trova lui…»; in questo modo, si realizza un’identificazione tra il seme della parola e Gesù Cristo, presente e attivo in essa. R Dorma o vegli. La prima parabola insiste sulla potenza del seme: non sono le strategie messe in campo dal seminatore a produrre la nascita della pianta, ma la forza generatrice del seme. Il regno di Dio, quindi, non è frutto di un impegno umano, ma è una parola che, se accolta, può generare una vita nuova. L’energia sprigionata dal seme viene descritta come una forza che mette in moto un processo progressivo che si compie nel tempo: il seme germoglia, cresce, presenta lo stelo, la spiga, il chicco e infine il frutto (vv. 27–29), e tutto ciò avviene anche se l’uomo, dopo aver seminato, attraversa un lungo periodo di inattività. R Il frutto maturo. Nonostante ciò, il v. 28 cambia soggetto verbale e si riferisce alla terra: perché la parola porti frutto è necessaria l’accoglienza da parte di chi ascolta. Tuttavia, l’accento cade di nuovo sul seme, perché la terra produce «spontaneamente» (in greco automátē) e automaticamente il suo frutto, quasi come se non dovesse far altro se non accogliere, custodire e lasciar operare il seme che ha nascosto in sé. Infine, la parabola si conclude con un riferimento alla mietitura, spesso simbolo del giudizio finale di Dio (Gl 4,13; Ap 14,15–16). In questo caso, tale richiamo intende mettere in risalto la sapienza del seminatore che interviene al momento giusto e sa riconoscere quando mettere mano alla falce per raccogliere. La vita cristiana, quindi, è un processo la cui origine è in Dio e il cui risultato non è immediato. La rigenerazione, infatti, richiede dei tempi di maturazione e non si realizza secondo la logica del «tutto e subito». R Il granello di senape. Con una domanda che intende coinvolgere ancora più direttamente i presenti (si usa la prima persona plurale: «A che cosa possiamo paragonare…?»), Gesù introduce una seconda parabola sul Regno, in cui si insiste sul contrasto tra la piccolezza del seme e la grandezza dell’albero che questo elemento è capace di produrre. La parabola, quindi, non si concentra tanto sul seme, quanto sul processo che comincia con delle apparenze umili, ma che poi dà origine a una realtà maestosa. Il granello di senape era proverbialmente riconosciuto dalla tradizione ebraica come il più piccolo dei semi (cf. Talmud babilonese, Berakhot 31a), mentre l’immagine dell’albero che offre riparo agli uccelli del cielo era comunemente impiegata come metafora della protezione che il re garantiva ai suoi sudditi (Ez 31,19; Dn 4,10–12.17–23). Anche in questo caso, la terra (termine ripetuto due volte) è il luogo dove avviene la crescita del seme: la persona che accoglie il seme non deve farsi spaventare dai segni umili che accompagnano il Regno, perché essi rappresentano un elemento qualificante e necessario (cf. Gdt 9,11). R In disparte, illustrava ogni cosa. Il discorso parabolico si conclude nei vv. 33–34 con un paradosso: Gesù annuncia la parola continuamente (in greco si usa l’imperfetto, mettendo l’accento sul carattere durativo dell’azione) e cercando di raggiungere tutti; eppure comunica il suo annuncio solo per mezzo di parabole, rendendo difficile l’ascolto. Tuttavia, in privato ai discepoli spiega ogni cosa. Quindi, sebbene le parabole utilizzino esempi tratti dalla vita quotidiana e siano formulate con un linguaggio accessibile, esse rimangono enigmatiche e misteriose; perché Gesù si comporta così? Questa scelta mostra che l’ascolto in sé non è sufficiente; per poter cogliere il senso delle parabole è necessario diventare discepoli, avere accesso a quelle spiegazioni più personalizzate che Gesù offre ai suoi in disparte (v. 34). La parabola si svela a chi ne chiede la spiegazione e desidera quindi appartenere alla cerchia di coloro che seguono Gesù più da vicino. In conclusione, dietro le due parabole, si cela una forte chiamata rivolta all’assemblea, alle prese con le sofferenze della vita presente (come gli esiliati della prima lettura); ad essi Gesù offre una parola che ha l’efficacia di un seme, ma che diviene comprensibile e attiva grazie a una frequentazione assidua del Maestro (nella chiesa) e alla decisione di diventare suoi discepoli. |
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Dio non pianta alberi, ma getta semi |
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Il profeta Ezechiele vive tra gli esiliati nelle vicinanze di Babilonia, ma il suo pensiero è costantemente rivolto altrove, a Gerusalemme. La sua predicazione, riflessa nel suo libro, segue una struttura di fondo semplice, simile a quella di altri profeti: dapprima parole di giudizio, poi parole di salvezza. Così, se prima della definitiva caduta di Gerusalemme, Ezechiele fu soprattutto un profeta di sventura, dopo la caduta della città divenne un profeta di speranza. Infatti, solo dopo aver demolito le illusioni del popolo (come ad esempio il mito di Gerusalemme, il mito della dinastia davidica) è possibile parlare di speranza. Un terreno purificato dalle illusioni e dalle nostalgie è l’unico adatto perché la speranza di Dio possa germogliare. Su questo sfondo si può leggere la breve parabola del ramoscello di cedro (cf. Ez 17,22–24), che Dio stesso pianterà su una montagna di Israele e che diventerà un albero maestoso sotto i cui rami gli uccelli troveranno rifugio. L’immagine dell’albero sul quale vengono a posarsi gli uccelli è ricca di risonanze bibliche (cf. Gdc 9,8–15; Dn 4,10–12.17–23). Tutte queste evocazioni, direttamente o indirettamente, per un particolare o per un altro, fanno riferimento all’atteso regno di Dio, la cui grandezza contrasterà con la situazione difficile nella quale ora il popolo vive. Grandezza e sicurezza sono le due note che l’immagine suggerisce. Così la parabola va ben oltre il presente e si apre a una grandiosa speranza, che svela la dinamica di Dio nella storia, capace di agire e di intervenire al di là delle apparenze e delle aspettative umane. Alcune delle immagini descritte dal profeta nella sua similitudine si ritrovano nelle parabole (in particolare la seconda, quella del granellino di senape) raccontate da Gesù nel contesto del suo discorso riportato nel quarto capitolo del Vangelo di Marco (cf. vv. 26–34). La prima parabola, il seme che cresce spontaneamente (cf. vv. 26–29), insiste molto sulla crescita. Ne descrive con cura tutte le tappe, lentamente. Il narratore sembra volere indugiare e differire: fra l’atto della semina e quello del raccolto passa un lungo tempo. Attori del racconto sono l’uomo, e poi il seme e la terra. L’uomo compare nel primo momento (la semina) e nel terzo (il raccolto); scompare nel secondo. A questo punto si può già intravedere che la parabola evidenzia un contrasto fra il tempo dell’azione (del contadino) e il tempo dell’inattività, ed evidenzia parallelamente che c’è un tempo, un tempo lungo, in cui tutto è affidato alla terra e al seme. Questo secondo momento è molto sottolineato, e ciò indica che questo è il problema. In altre parole: Dio (il contadino è senz’altro Dio) dopo aver buttato il seme, tarda a manifestarsi: cosa questa che suscita in molti turbamento. C’è un tempo, tra la semina e il raccolto, in cui Dio sembra tacere: la storia umana — e la stessa storia di Gesù — sembra sfuggire alle sue mani, sembra destinata a restare incompiuta. Ma non è così, dice Gesù con la sua parabola. Il tempo dell’apparente assenza di Dio non deve turbare. Il seme, nonostante le apparenze, cresce, cresce comunque. E una lezione di fiducia. Oltre al contrasto tra il tempo lungo del seme e il tempo breve dell’uomo, c’è n’è un secondo sul quale la parabola si sofferma: da una parte l’inerzia del contadino, dall’altra l’incessante lavoro del seme e della terra. Dei due lati il più importante è il secondo: la forza del seme. La terra fruttifica automátē (v. 28), come dice letteralmente l’avverbio greco, cioè da sé e senza causa visibile. Qui si allude non alla forza della natura, bensì al miracolo di Dio. Allo stesso modo il regno: un’azione di Dio incessante e prodigiosa, ma nascosta e autonoma. E il regno stesso, già deposto nella storia come un seme, che viene, non sono gli uomini a farlo venire. In tal modo il discepolo viene liberato da un affanno inutile. Non sta a lui garantire il successo del regno, perché egli deve semplicemente assicurare l’annuncio e, quando sarà l’ora, la raccolta. Il regno non è cosa degli uomini, ma di Dio. Non è una realtà da «forzare», come facevano gli zeloti al tempo di Gesù o come sono tentati di fare gli attivisti cristiani in ogni tempo. Il regno di Dio non è questione di organizzazione oppure di efficienza, ma semplicemente di accoglienza. La parabola del granello di senape (cf. vv. 30–32), che sembra richiamare quella descritta dal profeta nella prima lettura, è tutta racchiusa nella sua immagine di base: il piccolo seme che diventa – sorprendentemente – un grande albero. Il punto non è semplicemente la piccolezza del seme, né la grandezza dell’albero, ma il contrasto fra le due, un contrasto nella continuità. Quale è la realtà significata? Deve necessariamente trattarsi di qualcosa che abbia con il regno un rapporto di contrasto (piccolo–grande) e insieme di continuità. Non può essere altro che il ministero di Gesù, un ministero che suscitava sconcerto vista la modestia delle sue apparenze e la grandiosità delle sue pretese. Il regno grandioso è già presente in questo piccolo seme, cioè nella vita e nella predicazione di Gesù prima, e nella predicazione della comunità cristiana, poi. Si pensi alla vicenda di Cristo: una missione che va progressivamente verso l’insuccesso e un gregge che va assottigliandosi; possono sorgere dubbi e crisi: come conciliare questa situazione con la pretesa di universalità che il regno comporta? Eppure questo umile inizio — afferma Gesù con la parabola — ha in sé un’enorme potenzialità. Evidentemente la pretesa di Gesù di essere l’inizio del regno esige una profonda conversione «teologica» prima che morale: anche nel tempo del compimento Dio non pianta alberi ma getta semi. E un modo assolutamente nuovo di intendere il compimento! E ancora una lezione di fiducia. Ma non soltanto di fiducia, Gesù infatti richiama all’impegno che l’importanza e il significato della situazione presente esigono: è importante questa occasione, questo incontro con Cristo. Il regno di Dio è in questo seme. L’umiltà della situazione non deve divenire motivo di trascuratezza e di rifiuto. L’insegnamento di questa parabola non riguarda propriamente l’avvenire, il suo scopo non è di insegnarci che il regno di Dio verrà sicuramente, o che verrà presto, o che il ministero di Gesù porterà certamente frutti meravigliosi. Si tratta di far capire il significato decisivo del tempo presente. |