Sequenza allo Spirito Santo   Vieni, Spirito Santo, manda a noi dal cielo un raggio della tua luce.   Vieni, padre dei poveri, vieni, datore dei doni, vieni, luce dei cuori.   Consolatore perfetto; ospite dolce dell’anima, dolcissimo sollievo.   Nella fatica, riposo, nella calura, riparo, nel pianto, conforto.   O luce beatissima, invadi nell’intimo il cuore dei tuoi fedeli. Senza la tua forza, nulla è nell’uomo, nulla senza colpa.   VIENI SANTO VIENI SANTO SPIRITO NI SANTO SPIRITOLava ciò che è sordido, bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina.   Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, drizza ciò che è sviato.   Dona ai tuoi fedeli, che solo in te confidano, i tuoi santi doni.   Dona virtù e premio, dona morte santa, dona gioia eterna.   Amen.
Dagli Atti degli Apostoli
At 1,1–11
1Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi 2fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. 3Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. 4Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: 5Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». 6Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». 7Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, 8ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra». 9Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. 10Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: 11«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».
 
L’evangelista Luca ha pensato la sua opera in due parti, come espone chiaramente nell’introduzione degli Atti che la liturgia ci propone.   R Una nuova presenza di Gesù. C’è un tempo che è stato quello del Gesù storico, che ha vissuto tra noi dal concepimento fino all’Ascensione in cielo. Poi c’è un tempo per la chiesa, per i suoi discepoli, i suoi testimoni, per quelli che egli aveva scelto, che, con il sostegno dello Spirito, possono partecipare al grande annuncio cristiano dimostrandone il valore universale e portando questo annuncio in tutto il mondo! Non sono mandati allo sbaraglio: Gesù li ha istruiti, dopo la risurrezione è stato con loro da vivente per quaranta giorni, stava a tavola con loro e parlava del regno di Dio. La croce non è stata eliminata perché Luca ricorda che tutto questo è avvenuto dopo il suo aver patito (At 1,3): eppure la sua morte non è stata la conclusione di tutto il percorso ma è stata trasformata nell’inizio di qualcosa di nuovo. La presenza del Signore può così continuare, anche se in forma diversa. Già Lc 24 aveva fornito con l’episodio di Emmaus le categorie fondamentali con cui il Signore risorto continua la sua opera: l’eucaristia e la parola di Dio. In Atti ora si mostra il grande protagonista di questa seconda fase: lo Spirito Santo.   R Il dono e la missione. Il dono dello Spirito era una delle grandi promesse apocalittiche e nasce dunque naturale la domanda nei discepoli se con esso non si chiuda la storia: forse il Regno dei cieli è già prossimo a essere ristabilito nella sua gloria per sempre? Il testo vuole appunto smentire un finale troppo veloce e immediato. La risposta di Gesù è abbastanza diretta e chiara: non sta a noi conoscere i tempi che sono solo del Padre. In questo modo vengono eliminati in radice tutti quei tentativi di disperdere la fede in visioni apocalittiche e mistiche sganciate dal reale. La stessa Ascensione non è uno spettacolo da contemplare: anche gli angeli infatti invitano a non continuare a guardare il cielo. L’Ascensione è invece l’occasione per rimboccarsi le maniche e affrontare la sfida che possiamo e dobbiamo svolgere su questa terra: la partenza del Signore è fatta perché ora il compito della chiesa sia portato avanti da noi testimoni. Grazie al dono dello Spirito, quella vicenda che è stata di Gesù e dei suoi discepoli, può continuare in noi cristiani.   R Lo Spirito e la testimonianza. Quella storia, sviluppatasi a Gerusalemme, non si chiude lì. Può e deve essere raccontata ancora. Ma per poterne parlare bisogna riviverla: in questo senso, anche chi non è stato testimone diretto dei miracoli, delle parabole, della morte e della risurrezione può comunque rivivere questa esperienza nella comunità dei discepoli che si raduna ancora oggi. Nello Spirito infatti potremo rivivere le stesse vicende di Gesù anche se in forma nuova: nel libro degli Atti infatti vediamo Pietro, Paolo, Filippo e gli altri compiere grandi gesti, anche miracoli e soprattutto conosciamo che la parola di Dio non è stata incatenata ma ha continuato a portare vita e speranza nel mondo, come Gesù ha sempre fatto. La testimonianza è certamente anche un grande compito e una responsabilità ma è soprattutto una grande chance: partecipare alla storia della chiesa significa sperimentare la forza dello Spirito che sempre chiama, consola, sostiene, interviene efficacemente nelle vicende degli uomini.
 
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni
Ef 4,1–13
Fratelli, 1io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, 2con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, 3avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. 4Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; 5un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. 6Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti. 7A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. 8Per questo è detto: «Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini». 9Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? 10Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose. 11Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, 12per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, 13finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo.
 
La Lettera agli Efesini è un testo che rinvia a una scuola paolina e potrebbe essere stato scritto da un discepolo più che dall’Apostolo stesso. Nella lettera infatti non si parla di lui in maniera veramente personale ma si formula una magnifica cristologia: Gesù è il centro di tutta la creazione e Dio ha agito in lui. Tornano spesso frasi che hanno come unico obiettivo quello di dimostrare che tutto si è svolto in Gesù Cristo: «in lui ci ha scelti […], predestinandoci mediante Gesù Cristo […] ricondurre al Cristo […] l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza […] a lui gloria […]». Dopo una sezione più teologica, ecco che con il capitolo 4 comincia la parte più parenetica, ossia esortativa. Si tirano delle conseguenze pratiche, concrete, sulla chiesa e sui membri della comunità: la venuta di Gesù ha cambiato la storia perché è nata una chiesa in cui non esiste più la divisione tra circoncisi e pagani.   R Unità in Gesù. Cristo ha rotto ogni divisione perché lui è l’elemento unitario intorno al quale ruota non solo la comunità ecclesiale ma l’umanità stessa. A maggior ragione allora la chiesa deve essere dimostrazione di questa unità, di questa pace e concordia che Gesù ha portato. In lui ha agito l’unico Creatore, l’unico Padre a conferma che i primi cristiani mantenevano il precetto biblico fondamentale del monoteismo: Dio resta l’unico ma in Cristo ha agito per manifestare il suo amore a tutte le persone ed è così che a “ciascuno” dal Figlio è stata donata la propria grazia per partecipare a questa umanità nuova inaugurata dalla venuta di Gesù. Ecco dunque che esiste una pluralità di carismi, ma questa varietà non deve essere disomogenea, non deve portare al caos, alla confusione o a lotte interne, perché alla sua base c’è Dio come fattore unificante. Per questo, in particolare nella chiesa, si vive in sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, perdonandosi a vicenda. In Gesù la Lettera agli Efesini vede il compimento di quanto detto nel Sal 68,19: «Sei salito in alto e hai fatto prigionieri – dagli uomini hai ricevuto tributi e anche dai ribelli –, perché là tu dimori, Signore Dio!» Il salmo celebrava in origine il re vittorioso a cui tutti portavano sacrifici di sottomissione: Efesini vede in questo testo un’allusione al Cristo, perché il tema dell’ascensione richiamerebbe il fatto che prima era disceso, si era incarnato. In questo modo, con stile rabbinico, si interpretava il salmo rileggendolo in chiave cristologica (obiettivo di tutta la lettera).   R Al servizio dell’unico Cristo. I carismi citati in Ef 4 sarebbero allora i doni con cui ogni persona si rifà a Cristo: è il modo in cui lo si riconosce re e ci si pone al suo servizio, ciascuno con un compito diverso. La logica del testo non è quella di assegnare dei ministeri solo ad alcuni che poi agirebbero sulle “pecorelle” del gregge: il testo vorrebbe invece riconoscere che ci sono state delle figure storiche all’origine della chiesa (gli apostoli) accompagnate poi dai primi predicatori cristiani (profeti e evangelisti) fino ad arrivare alle comunità locali dell’epoca della lettera, rette da pastori e maestri. Senza negare il valore di una certa istituzionalizzazione, il senso del testo non è quello di autorizzare la gerarchia ma chiedere invece che, a partire da chi ha questi ruoli di governo, tutti lavorino all’unico scopo, cercare cioè il compimento dell’umanità che troviamo realizzata in Cristo. L’espressione «uomo perfetto» certamente si riferisce a lui ma ha un fondo di verità anche chi dice che l’espressione deve avere un qualche valore universale: il Cristo infatti non viene lodato in se stesso ma ciò che conta è la preposizione «fino» (eis in greco). Cristo è l’obiettivo verso cui ciascuno deve tendere: in lui si è veramente uomini e donne adulti.
X Dal Vangelo secondo Marco
Mc 16,1520
In quel tempo, Gesù apparve agli Undici 15e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. 16Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. 17Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, 18parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno». 19Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. 20Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.
R Un vangelo drammatico. Tutti i commentari sottolineano la drammaticità del Vangelo di Marco: questo testo ha il grandissimo merito di aver inventato il genere del vangelo, utilizzando per primo la parola euangélion, un termine che in realtà serviva a designare un inno di vittoria. Si trattava infatti della buona notizia che l’araldo portava alla corte del re, per informarlo ad esempio di una qualche conquista del suo esercito. Ma questo annuncio è reso più complesso dalla natura stessa del messaggio, che deve ribaltare tutto il nostro modo di pensare a Dio e al suo Messia. Per questo motivo tutto il Vangelo di Marco è caratterizzato da una tensione drammatica che cogliamo nella “fretta narrativa” (il primo vangelo è quello che usa più di tutti l’avverbio subito, una quarantina di volte contro la decina di ricorrenze di tutti gli altri tre vangeli insieme) e poi per il percorso proposto, che presenta un Gesù che comincia con esorcismi e altri segni potenti ma si conclude con la sconfitta della croce. Una delle caratteristiche che più di tutte mostra la drammaticità di questo vangelo è la sua finale che in origine era molto breve e concisa, proprio nello stile del nostro autore. L’annuncio pasquale infatti era seguito semplicemente dalla fuga delle tre donne (Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e Salome) e il racconto dunque si concludeva in Mc 16,8.   R Una sintesi di apparizioni. Questa finale, così forte, è stata completata successivamente: evidentemente con il tempo la chiesa nascente ha sentito il bisogno di passare ad una modalità meno drammatica, ormai i vangeli erano noti, dovevano essere conosciuti anche gli altri brani delle apparizioni pasquali e dunque è venuto naturale integrare il racconto marciano. Lo si è fatto proponendo una sintesi degli altri racconti. Mc 16,9–11 propone una nuova apparizione alla Maddalena, che però porterebbe l’annuncio ai discepoli senza venir ascoltata. Mc 16,12–13 è il riassunto di Lc 24: i due discepoli citati sono certamente i due di Emmaus! Al v. 14 si propone l’apparizione agli Undici: in questo frangente il Risorto rimprovererebbe gli apostoli per la loro incredulità e durezza di cuore: non avevano infatti creduto al racconto delle apparizioni precedenti. Capiamo che il redattore finale ha voluto presentare lo stesso tema di Tommaso nel Vangelo di Giovanni, ossia del rifiuto di credere alla testimonianza della prima chiesa. Passare dalla testimonianza diretta di Gesù a quella della chiesa non è stato facile. Ma proprio questo è quanto il brano vuole proporre! Anche senza Gesù in carne ed ossa la fede può continuare: anzi, i segni che lui ha fatto continuano, ma in altra maniera.   R La missione e la chiamata a credere. Ecco dunque che, nonostante l’incredulità degli Undici, il Risorto chiede di annunciare Gesù Cristo, usando il verbo da cui deriva poi la parola kerygma. Nonostante il nostro peccato, il Signore non rinnega la sua chiesa ma anzi chiede proprio a noi di partire e di farci missionari. La missione viene estesa: il mondo intero è il teatro d’azione dei discepoli. Addirittura l’annuncio è da portare ad ogni creatura, quasi a coinvolgere l’intero mondo animale. Il redattore finale riprende qui la parola con cui Marco aveva iniziato il suo testo, ossia euangélion. Davvero ora può risuonare come un canto di vittoria, dato che la morte è stata sconfitta! Centrale è ormai il verbo credere: il tema della fede in Cristo sintetizza tutta la dinamica del cristianesimo come avevano insegnato Paolo e anche l’evangelista Giovanni. L’atto del credere è dunque diventato totalizzante, per questo viene espresso in una antitesi forte, una vera dicotomia tra salvezza e condanna. Alla fine del racconto evangelico, non si hanno più scuse, ormai bisogna prepararsi a scegliere da che parte stare.   R I doni della comunità. Centrale, in Marco, è poi il tema battesimale: ci sono autori (Standaert) che vedono l’intero vangelo marciano come una preparazione per i catecumeni che avrebbero avuto proprio bisogno di un testo così, breve e conciso, per la liturgia di tale rito, da farsi magari proprio nel contesto di una cena pasquale. L’invito ad aderire a Cristo quindi non era solo un invito intellettuale ma un messaggio a entrare concretamente nella vita cristiana e nella comunità del cristianesimo nascente. A quanti entrano nella comunità si presentava la possibilità di continuare a vedere i segni che Cristo, non più in presenza diretta, avrebbe comunque garantito ai suoi discepoli. Il tema del parlare lingue nuove rimanda all’esperienza di Paolo, che in 1 Cor 12–14 accenna alla glossolaia, il parlare in lingue. Per quanto riguarda il morso dei serpenti, sempre in riferimento all’apostolo delle genti, possiamo citare At 28,3.5. Il bere il veleno senza danno è un fatto ripreso da alcuni Padri della chiesa. Ma il senso può ben essere quello di rinviare ad un’epoca in cui il male viene sconfitto, dove l’originaria inimicizia tra il serpente e l’uomo in Gen 3 viene eliminata in radice. Questi miracoli sono, nella lista presentata dal nostro vangelo, quelli centrali: in questo elenco di cinque miracoli, occupano il secondo, il terzo e il quarto posto. Ai due estremi troviamo invece «scacciare i demoni» e «imporre le mani ai malati e guarirli». Queste due azioni ricordano più direttamente l’azione di Gesù stesso. In pratica, l’autore di questa finale ci vuole garantire la continuità con l’epoca di Gesù ma anche dire la novità per i nuovi segni che le nuove generazioni cristiane potranno portare avanti. Come nella finale lucana e come nel primo capitolo di Atti, ecco Gesù che viene elevato in cielo, sul modello di Elia, per sedere accanto al Padre. E a tale ascensione corrisponde l’azione della chiesa che parte per portare ovunque l’annuncio del Vangelo.   R Tradimento o tradizione? In conclusione, vediamo che Mc 16 è un magnifico testo che vuole fare in modo che tutti i vangeli concordino nella loro conclusione. Non si tratta di tradire la trasmissione originale della fede: anzi, proprio perché i testi dei quattro vangeli son stati trasmessi secondo le finalità delle varie comunità, si è avvertita la necessità, in un’epoca più recente, di amalgamare i racconti ormai noti e mostrare che in fondo tutti concordavano nell’invito a credere e nel farsi testimoni di questa fede in Cristo. Componendo un brano come questo impariamo che la chiesa non si pensa solo come una agenzia archeologica che deve garantire degli ipsissima verba sempre identici ma deve fare in modo che la fede viva risplenda continuamente. Questa fede è in un Cristo che non vediamo più nella persona del Gesù storico ma non per questo la sua presenza è venuta meno. Per essere fedeli all’antico vangelo di Gesù, bisogna continuare a credere che egli opera ancora e lo fa in sinergia con noi: è questo dunque l’invito più caldo a non interrompere la catena di testimonianze ma a portarla ovunque, in tutto il mondo, perché in essa ogni uomo possa scoprire che le promesse di Dio si sono realizzate in Gesù e su questa solida base ciascuno possa compiere azioni ancora più grandi e più belle.
   
Con l’ascensione inizia il cammino della chiesa
 
     L’Ascensione di Gesù è narrata per esteso soltanto negli Atti degli Apostoli (cf. 1,1–11). Sorprendente mente l’episodio non si attarda tanto sulla descrizione del distacco di Gesù dai discepoli, ma ci informa sulla storia cristiana che inizia – la nostra storia – indicandone le caratteristiche perenni.      Al centro del racconto leggiamo una scarna annotazione: «Fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi» (v. 9). La direzione verso il cielo dice riferimento alla sfera divina. La nube è un simbolo classico che accompagna l’apparizione di Dio e indica insieme glorificazione e separazione. La salita verso l’alto e la nube che lo sottrae agli sguardi umani significano che Gesù condivide ormai la gloria di Dio, è entrato in un’esistenza e in un mondo che non cadono più sotto i nostri occhi. Attorno alla partenza del Signore si sviluppa — prima e dopo — un dialogo fra Gesù e i discepoli e fra gli angeli e i discepoli. Alla domanda dei discepoli: «È questo il tempo nel quale ricostituirai il regno di Israele?» (v. 6), Gesù apporta una triplice rettifica. Ogni pretesa di previsione è inopportuna e ogni computo è privo di senso. Il tempo è nelle mani di Dio e questa certezza deve bastare: il resto è inutile curiosità.      In secondo luogo, Gesù rompe l’angusta mentalità nazionalista che ancora sopravvive nei suoi discepoli («il regno di Israele») per aprirli alle dimensioni del mondo: «In tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (v. 8). Nel Vangelo di Luca il punto di arrivo è Gerusalemme, dove si compiono i grandi eventi della salvezza: la passione e la morte del Signore. Negli Atti degli apostoli Gerusalemme è il punto di partenza geografico: il punto di arrivo è Roma, la capitale del mondo. Termina la storia terrena di Cristo, inizia quella dei discepoli, dei cristiani.      Infine, Gesù distoglie i suoi discepoli dal passato e da un’esclusiva attenzione al futuro per volgere il loro sguardo al presente e ai compiti che ora incombono: «Di me sarete testimoni» (v. 8). Essere un testimone è il compito principale di ogni cristiano e non si tratta certo di cosa da poco. Solo lo Spirito Santo ne rende capaci. Testimoniare significa rimanere fedeli alla memoria di Gesù; significa essere capaci di interpretare alla luce di quella memoria i fatti che accadono; significa, infine, avere la forza di parlare di Cristo con efficacia, convinzione e coraggio.      Dopo la scomparsa di Gesù, gli angeli distolgono i discepoli da un altro equivoco, quello di guardare in alto, e li invitano a rientrare nella realtà, sulla terra e tra la gente. Non però a ritornarvi come prima, ma rinnovati: trasformati dallo Spirito e rasserenati dalla certezza del ritorno del Signore.      Alla base della domanda dei discepoli («È questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?», v. 6) e del loro atteggiamento («Perché state a guardare il cielo?», v. 11), ci sono alcune perplessità: se è vero che la morte/risurrezione di Gesù rappresenta la grande svolta del mondo, come mai tutto sembra continuare come prima? Forse che il capovolgimento avverrà al suo ritorno? E nel frattempo il cristiano deve semplicemente attendere? La risposta di Luca è molto precisa: certo, la risurrezione di Gesù è una svolta, ed è altrettanto vero che il Signore ritornerà. Tuttavia, il cristiano deve sapere che già ora è in corso la trasformazione e già ora se ne vedono i segni, forse non clamorosi, ma reali: c’è lo Spirito, c’è la parola di Gesù che continua a risuonare, c’è una comunità che si sforza di vivere in modo nuovo, e ci sono dei doveri precisi, primo dei quali la testimonianza.      Così, una volta compreso che l’Ascensione non chiude il tempo della salvezza ma lo inaugura e che non ci priva della presenza di Cristo ma, al contrario, ci offre nuove possibilità di incontro e, di conseguenza, di impegno, ci si può soffermare sulla conclusione del Vangelo di Marco (cf. 16,15–20), nella quale Gesù ordina ai suoi discepoli di continuare a fare ciò che lui ha fatto e a dire ciò che lui ha detto. Dopo la sua partenza, l’evangelista annota che i discepoli eseguirono l’incarico e che Gesù continuò a operare insieme a loro e a rendere efficace la loro parola.      Il cammino della comunità ripropone quello di Gesù ma in tensione universale. È la prima sottolineatura ribadita nel racconto evangelico: «in tutto mondo», «ad ogni creatura» (v. 15), «dappertutto» (v. 20). E si corre dappertutto ad annunciare la «lieta notizia», non altro. Il Vangelo di Marco si apre con le parole: «Inizio del Vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio» (1,1). E si conclude con la stessa parola: «Proclamate il Vangelo a ogni creatura» (v. 15). Si allarga lo spazio (tutto il mondo e non solo la casa di Israele) e mutano i predicatori (i discepoli e non più direttamente il Cristo), ma l’annuncio rimane il medesimo: identico, nel contenuto e nell’importanza (se lo accogli entri nella salvezza, se lo rifiuti ti perdi). Universalità e fedeltà, ecco dunque le prime due caratteristiche del cammino della chiesa.      E accanto a queste due caratteristiche una terza: la concretezza e l’efficacia, cioè la forza dimostrativa dei fatti. Una forza dimostrativa che non viene dall’uomo ma unicamente dall’invisibile presenza del Signore, e poggia sulla fede. Il linguaggio utilizzato è biblico e stereotipo e non va necessariamente inteso in modo letterale. Indica chiaramente che la parola deve essere accompagnata dai fatti e che deve essere resa credibile mediante alcuni «segni» che solo Dio può compiere. Quali? Certo Dio può compiere miracoli in senso stretto, e se avessimo più fede ci sarebbero più miracoli. Ciò non toglie però che le parole dell’evangelista debbano essere intese in modo più normale, più quotidiano, e tuttavia non meno convincente. «Segni» da compiere sono lo sforzo di giungere alla radice del male (Satana) e non accontentarsi invece di opporsi ad alcuni suoi sintomi; la generosità di uscire da se stessi (dalla «propria lingua») per parlare le lingue degli altri popoli, per mostrare che il Cristo è veramente universale, che non porta una lingua straniera, ma si incarna nella lingua di ciascun popolo, cioè nelle differenti culture; il coraggio di affrontare ogni rischio («serpenti e veleni»), liberi dalla paura che il mondo vuole incutere al discepolo per arrestarne la voce e la proposta; soprattutto l’amore, la dedizione, l’attenzione ai bisogni («guarire gli ammalati»).      In tutto questo il discepolo sperimenterà continuamente la propria debolezza, la propria incredulità e durezza di cuore. Ma accanto a questa propria debolezza, il discepolo farà esperienza con altrettanta forza della fedeltà di Cristo. Ha fatto bene l’evangelista a concludere il suo racconto con questa sorprendente annotazione: Gesù rimproverò gli undici «per la loro incredulità e durezza di cuore» (16,14), e tuttavia li inviò a predicare nel mondo intero. La sicurezza del discepolo, e la sua fede, sta tutta qui: il discepolo è un uomo che, incaricato di annunciare il Vangelo, troppe volte viene meno, e tuttavia non viene meno la fedeltà di Dio nei suoi confronti. Per questo il cammino della comunità rimane, nonostante tutto, continuamente aperto e ricco di possibilità.

Destinazioni degli apostoli

secondo alcune tradizioni

Pietro: Antiochia e zone limitrofe. Costa turca del Mar Nero. Roma.

Paolo: Arabia, Asia Minore, Macedonia, Grecia, e infine Roma.

Barnaba: Antiochia, Cipro, Asia Minore, Roma, Milano.

Tommaso: ai Parti, e nelle Indie orientali.

Giovanni: Asia minore (Efeso, Patmo).

Andrea: Sciti, martire a Patrasso; secondo la tradizione ortodossa fu vescovo di Costantinopoli.

Filippo: Asia Maggiore.

Bartolomeo: Armenia.

Matteo: Etiopia, Persia.

Giacomo il Maggiore: Giudea, Spagna;

Giacomo il Minore: Gerusalemme.

Simone il Cananeo insieme a Giuda Taddeo: Arabia, Mesopotamia, Armenia.

Mattia: Etiopia.

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Preghiera di Roberto Laurita
 
La missione che ci affidi è tale da far tremare le vene nei polsi: proclamare dovunque il tuo Vangelo con la parola e con la vita.   Eppure tu conosci le nostre fragilità, i nostri limiti, le nostre debolezze. Non siamo così diversi dai primi ai quali hai affidato questa missione.   Anzi, siamo così terribilmente vicini a quegli undici e ai loro dubbi, alle loro paure, alle loro fughe. Mentre ci esponi ai drammi e alle tempeste della storia, quali garanzie ci offri per la nostra incolumità, per la buona riuscita di questo compito così arduo?   Tu ci assicuri una sola cosa ed è quella che conta veramente: sarai tu stesso ad agire con noi, a confermare la Parola con i segni.   Se saremo fedeli a te, al tuo Vangelo, troveremo il modo di comunicare con il linguaggio universale dell’amore, riusciremo ad affrontare qualsiasi pericolo e porteremo dovunque guarigione e speranza.
Colletta
 
Padre santo, che conosci il cuore di tutti, consacraci nella verità, perché, rimanendo sempre nel tuo amore, portiamo al mondo la testimonianza della risurrezione.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
Amen.